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INTERVISTE > Mimmo Borrelli e Stefano Massini

Mimmo Borrelli e Stefano Massini: attore cantante il primo, con alle spalle già due premi per la scrittura teatrale, drammaturgo il secondo. Un napoletano e un fiorentino, uno ventiseienne l’altro trentenne,  autori per certi versi diversissimi, accomunati dalla vittoria dei due più prestigiosi premi per la drammaturgia italiana. Siccome uno dei pregi di questo riconoscimento è quello tra l’altro di scoprire ogni edizione talenti semi-sconosciuti del teatro, presentatevi!
MIMMO: ho esordito come attore all’età di diciott’anni con il grande attore napoletano Nello Mascia, grazie al quale ho avuto immediatamente un incontro/scontro con Viviani, che è stato uno degli autori che più mi ha permesso di elaborare un certo tipo di discorso drammaturgico, soprattutto intorno al linguaggio. Dopo ho proseguito a Napoli da autodidatta a fare diverse cose: ho lavorato con un grande cantante di una compagnia di canto popolare e mi sono guadagnato la pagnotta in tanti piccoli teatri con diversi ruoli, ho fatto anche il guarrattellaro!

Io provengo da una famiglia abbastanza modesta: mio padre è un operaio, mia madre una casalinga e per mantenermi ho dovuto fare quindi diverse cose. Ultimamente l’esperienza più importante che ho fatto è stata La Peste con Branciaroli e regia di Longhi: una prova davvero folgorante. I due premi che citavi, vinti a livello drammaturgico, appartengono a un concorso per così dire “scolastico”, scritti insieme a Ernesto Salemme, fratello secondo molti meno noto di Vincenzo, ma per me strepitosamente importante, oltre che mio insegnante di greco e latino. Così abbiamo iniziato a fare alcuni esercizi di scrittura; è lui che ha scoperto la mia predisposizione per la drammaturgia e da lì la mia passione. Ho avuto poi anche un riconoscimento dal “Teatro Quirino”  per il “premio nazionale scolastico” e successivamente la cosa è divenuta più eclatante con premi anche da parte della critica. Dai vent’anni in poi però ho fatto solo l’attore e cantante, non scrivendo più nulla se non in modo per così dire amatoriale, mancandomi sia i soldi che gli spazi. Fino a Nzularchia, scritto durante notti insonni, letto ad alta voce con amici e parenti che alla fine mi hanno incoraggiato a mandarlo al concorso e io avevo solo una vaghissima speranza di poter ambire al massimo al “Tondelli”…

 

Che invece è stato conferito a te Stefano, trentenne in extremis, drammaturgo già prodotto, con alle spalle altre esperienze di scrittura teatrale...
STEFANO:  a Firenze c’è una storiella carina di un giornalista che a quarantacinque anni si presentò a un convegno dicendo “io faccio anche il drammaturgo” e pare che un signore commentò “ma come? Così giovane?”. Io ho molti meno di quarantacinque anni e formalmente sono un archeologo, professione in realtà mai esercitata. Al teatro mi sono avvicinato fin da giovanissimo. Nella mia città c’è, in via Farini, una comunità ebraica, uno dei templi più belli che ci siano in Italia, in cui mio padre mi portava a vedere le commedie allestite dagli anziani della comunità ebraica. Mi ricordo con una lucidità incredibile che andando a vedere uno spettacolo di teatro popolare ebraico a nove anni tornando a casa dissi a mio padre: “domani voglio scrivere una commedia” e in effetti il giorno dopo scrissi tre paginette di una commediola risibile…

Poi finita l’università ho avuto tre incontri importanti. Intanto per caso, veramente per caso, fui preso a fare l’assistente ospite al “Piccolo” di Luca Ronconi: qui nonostante facessi l’assistente alla regia ebbi modo di confrontarmi con un lavoro sul testo di rispetto fedelissimo che mi ha fatto capire che il copione non era una premessa prescindibile, ma in qualche modo il cromosoma stesso, il codice genetico di ciò che andava in scena. Poi, per un altro caso della sorte ho incontrato Jean-Claude Carrière che  mi fece fare in Italia l’adattamento del suo La controversia di Valladolid presentata a Firenze. Infine il terzo incontro è stato quello con il Teatro di Rifredi, dove poi ho scoperto che Tondelli tenne la sua famosa conferenza “Fenomenologia dell’abbandono”, da lui stesso citata come uno dei punti chiave del suo pensiero che l’avrebbero profondamente segnato, nonostante vi avesse partecipato solo per prendere il getttone di presenza. Firenze dal punto di vista della drammaturgia contemporanea, vuoi per l’asse di Chiti, vuoi per il “Festival Intercity” di Barbara Nativi con cui ho avuto un rapporto molto stretto, è sempre stato un luogo di grande attenzione. Il Teatro di Rifredi mi ha dato la possibilità di confrontarmi con la scrittura, verificando il rapporto con la messinscena.
L’odore assordante del bianco è un testo che ho scritto in molti mesi e reputo che alla fine sia quello, ma in realtà ne ho scritti solo quattro, che mi assomiglia di più. E’ un testo che mi contiene molto.

 

Entrambi parlavate di questo rapporto fondamentale e diverso con la scena che probabilmente è stato il catalizzatore della vostra scrittura e che senz’altro determina un apporto alla qualità drammaturgica non indifferente. E non è un caso che, non solo per questa edizione del Premio, sempre più gli autori riconosciuti siano anche autori o registi; segno forse che l’autore per così dire “da tavolino” è una figura superata e la scrittura sempre più si compie in accordo con il parlato. La lingua infatti, ad esempio nel tuo caso Mimmo, diventa  un motivo di ricerca
MIMMO:  Nzularchia racconta in effetti in maniera metaforica anche molti momenti della mia vita personale fondamentali. Senza volermi inoltrare nei meandri della mia complicatissima psiche, il testo è nato come preambolo a un atto unico per un mio amico… poi lui mi chiese di allungarlo e andando avanti mi resi conto che nella ricerca linguistica che avevo fatto, da Viviani a Moscato a tanti altri conterranei, stavo esprimendo quelle che io chiamo delle “effusioni emotive” attraverso però la pesantezza di un linguaggio imposto dal sociale in cui vivevo. Allora mi venne l’idea di rimescolarle ricreando un modo adatto per poter vivere questo impedimento, superando la lingua che mi era stata imposta e creando questa sorta di linguaggio che è ricreazione sonora dei miei tormenti personali trasformati nel tormento per la ricerca linguistica stessa.

 

Non solo per questa ricerca linguistica serrata che nel caso di Nzularchia approda a un esito quasi barocco e che ne L’odore assordante del bianco è molto più essenziale e attenta alla sfera del non detto, si tratta sicuramente di due testi molto diversi. Mi sembra però che ci siano delle cose che comunque vi accomunano: al di là del fatto banale di essere testi per soli personaggi maschili, diversamente da come avviene per molta drammaturgia contemporanea attenta a riprodurre pedissequamente la quotidianità e i moduli massmediatici, mi sembra che nel vostro caso si evochino luoghi e presenze che esulano dal visibile. Non a caso si tratta per entrambi di personaggi di cui non siamo certi che esistano davvero e davvero stiano parlando.
STEFANO: prima tu parlano di Mimmo hai usato il termine “barocco”. Ora, mi sembra di capire che dopo una lunga fase in cui la drammaturgia contemporanea si è votata al minimalismo, a restituire il parlato nella sua forma più naturalistica, il vivo più vivo del vero, oggi la drammaturgia, e non solo quella affidata al teatro di parola, tenta una ricerca che vada davvero oltre. La “Societas Raffaello Sanzio” io la definisco per esempio barocca nel senso più bello del termine. Io stesso mi ritengo una persona barocca e lo è il testo di Mimmo, nella sua costruzione linguistica. Se la nostra drammaturgia ora si sta rivolgendo proprio all’esplorazione di quei colori che per tanto tempo sono stati considerati davvero solo appannaggio di un teatro “vecchia maniera”, che riecheggia i grandi mattatori, esiste quindi un modo di essere splendidamente barocchi. In tutti i testi che ho scritto, e anche in quelli che scriverò credo, non ho mai cercato di restituire il minimalismo spicciolo delle persone parlanti. Per assurdo credo che in teatro, che è dichiaratamente una finzione, un artificio, una convenzione, l’effetto di verità più grande stia proprio nella non verità. Una lingua non realistica certe volte fa scaturire l’emozione molto di più che non il bozzetto naturalistico.

 

MIMMO: infatti la cosa per la quale io mi batto da anni nelle mie personalissime elucubrazioni mentali è che il teatro è il luogo in cui bisogna ricreare la realtà. Eduardo ad esempio ricreava il suo teatro, un mondo, un linguaggio, per restituire al pubblico il loro mondo, proiettando negli spettatori un’emozione ricreata attraverso l’autore.

 

Nella realtà, scusate il gioco di parole, entrambi i vostri testi sono però distantissimi da un mondo condiviso dalla stragrande maggioranza del pubblico: da una parte il tema della camorra e dell’omicidio congelato in un napoletano ferratissimo, dall’altra la follia ricreata attraverso un Van Gogh delirante in un nosocomio psichiatrico
STEFANO: credo proprio che si tratti, come dicevamo, di non raccontare ciò che accade, ma il modo in cui accade, che nel caso di Mimmo è una lingua poeticissima che arriva prima al cuore che al cervello, nel mio la proiezione di una follia lucidissima e forse per questo ancora più straziante.

 

Mimmo tu prima parlavi di Viviani, ti sei riferito a Eduardo… sono certa però che chi ti legge oggi pensa a un’altra eredità napoletana, per altro fondamentale anche per la rinascita della stessa drammaturgia contemporanea italiana con gli anni Ottanta, e cioè Moscato e Ruccello, anch’essi cantori del lato buio di Napoli, ma con una carica ironica e tragicomica straordinaria. Potremmo dire che, per mantenersi al pulsante ambiente partenopeo, si passa con te dai protagonisti femminielli ai camorristi?
MIMMO: quando mi hanno chiesto dove mi pongo tra Eduardo, che già è un triplo personaggio, Viviani, altro complesso per la caleidoscopicità della scrittura, ma forse più popolano, Moscato, il grande intellettuale nato nel cuore di Napoli “porto franco” e Ruccello, ho cercato di rispondere che ripropongo un mondo “comune” da portare attraverso questa sorta di sfondo verso qualcosa di più personale, un mio legame radicato a Torregaveta, il mio paese e le lingue in uso, con estrema modestia. Nel testo – questo non dovrei dirlo – ci sono dei personaggi che sono davvero esistiti; la mia famiglia stessa – questo è un po’ troisiano – è una specie di compagnia stabile e fin da quando ero piccolo sono sempre stato attratto dall’ascolto e dall’osservazione dei bizzarri personaggi che popolavano casa mia: usurai, pregiudicati, che venivano a raccontare le loro storie. Quando poi mio padre ha scoperto che scrivevo si è sorpreso del fatto che a casa fossi sempre muto. Ma io stavo lì ad ascoltare.

 

Stefano, per te invece il rapporto con la drammaturgia e i maestri completamente diverso. Forse molto più esterofilo, mi dicevi che ti sei sempre appassionato di letteratura e scrittura teatrale inglese, francese, anche tedesca…
STEFANO: il mio punto di vista è che l’Europa al di là di essere tutto quello di cui si parla è in realtà un fantastico contenitore di storia, nel senso che investigare le diversità, i differenti percorso culturali tra Inghilterra, Francia, Spagna, Italia, est europeo, significa attingere da un bacino inesauribile di risorse narrative. Una delle mie fissazioni ad esempio è l’olocausto, ma non per una simpatia al teatro di memoria, ma perché lo reputo un crocevia culturale incredibile in cui attori yddish polacchi si sono trovati a scontrarsi nel dramma con italiani in coacervi sbalorditivi. Anche la storia di Van Gogh per me è un pretesto nel senso che molto spesso quando in scena va un personaggio con un nome o un cognome storico il fine dell’autore sia quello di farne un ritratto come farebbe una fiction televisiva, mentre per me è l’occasione di trattare uno stato d’animo, una riflessione sulla nostra cosiddetta normalità che poi può essere estesa a qualsiasi altra categoria sociale o artistica, ma che esula dalla realtà stretta del protagonista. Questa mia sete di storie poi mi porta per assurdo a guardare oltre l’Italia: reputo che Carriere e molti altri autori ci abbiano regalato negli anni dei formidabili ritratti di storie e io amo la drammaturgia proprio come studio linguistico, evocativo nel senso etimologico di chiamare le immagini fuori dalla testa di chi ascolta, proprio come un pittore con una tavolozza di colori in cui usarne uno al posto di un altro, una parola al posto di un’altra, crea delle reazioni chimiche che inevitabilmente sortiscono delle immagini. L’altro elemento che mi porta a guardare con tanto interesse alla drammaturgia europea è quello di costruire l’intreccio scenico per ciò che accade, anche per colpi di scena, ma studiandoli e modulandoli, non come succede, per intenderci, nelle telenovela che lo sfruttano solo per tenere la gente attaccata al televisore con quella che Eco definirebbe “la sindrome del telecomando”. Per me hanno senso le agnizioni della commedia di Plauto, gli stravolgimenti continui di Eduardo…

 

In chiusura, data tutta questa consapevolezza teorica oltre che scenica, credo che concordiate con me l’idea che il testo teatrale invochi, almeno come fantasma, un approdo al visivo. Nel tuo caso Mimmo, mi pare di intuire che tu ci abbia già ben pensato…
MIMMO: sicuramente un interprete sarò io, ma quando scrissi questa cosa e ne parlai con i miei “gendarmi di scena” e poi da Riccione arrivò questa grandiosa e inaspettata conferma pensai una sola cosa: questo testo deve farlo Toni Servillo!

 

STEFANO: nel mio caso io non ho la più pallida idea di cosa ne sarà di L’odore assordante del bianco. Nell’ultimo anno ho lavorato parallelamente a un altro testo per certi versi simile ma al tempo stesso diversissimo per tema, Processo a Dio, relativo cioè a un processo che gli ebrei tennero veramente contro Dio per appurare le motivazioni di quello che era loro successo con l’olocausto. Questo testo, come accaduto per coincidenza due anni fa con un altro premiato Riccione, Bellissima Maria di Roberto Cavosi, verrà prodotto con la regia di Sergio Fantoni e interpretato da Ottavia Piccolo nella prossima stagione. Detto questo, ahimè, su quel che accadrà a “Van Gogh” non so ancora niente.

 



di Chiara Alessi
       

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