Intanto: ti aspettavi che questo monologo nato tra gli operai della Fiat Sata di Melfi arrivasse fin qui?
Sicuramente si tratta di un testo di forte attualità, scritto in un momento storico-politico di grande problematicità, in cui mentre alla FIAT si stanno discutendo provvedimenti fondamentali per i sindacati, la Cgil festeggia il suo centenario…in effetti quando mi hanno chiamato, mi aspettavo di ricevere questo riconoscimento, ma sono comunque contento che il testo sia arrivato a essere premiato. Io non credo molto nei concorsi, soprattutto in quelli statali, non credo nello stato, nei ministeri ufficiali, né nei teatri ufficiali. Quando ho mandato Fiato sul collo credevo finisse nel dimenticatoio, non avendo io conoscenze, né segnalazioni e per di più avendo scritto un monologo che attacca un po’ tutti. Sicuramente mi sono dovuto ricredere e questo riconoscimento mi ha fatto recuperare un po’ di fiducia nei confronti dei premi ufficiali. Soprattutto il fatto che sia intitolato a Marisa Fabbri e che proprio a lei io debba il mio esordio teatrale mi commuove: Marisa mi ha sempre sostenuto, non solo professionalmente, e a volte economicamente, ma proprio insegnandomi un’etica del lavoro e di vita a cui sono debitore.
Tu Ulderico sei anche un attore, tendenza che emerge per altro in altri vincitori di questa edizione del Premio. Credi che sia un segnale significativo il fatto che sempre più chi proviene dalla scena senta questa esigenza di scrittura e soprattutto che alla fine i riscontri positivi arrivino proprio dal versante degli autori-attori?
Io credo che il teatro italiano stia cambiando. E anche la vita. C’è stato molto spazio per gli autori “puri” anche molto ossessionati dalla loro scrittura tanto da rifiutare qualsiasi adattamento o modifica ai testi: non avendo consapevolezza della scena, molti di essi non capivano che rispetto del testo significava innanzitutto il suo annullamento. Io ho la grandissima possibilità di mettere in scena i miei testi e il fatto che ci sia sempre più spazio per attori-autori è un’opportunità anche di recupero delle tradizioni originarie del nostro teatro…basti pensare alla Commedia dell’Arte, alla famiglia Andreini, alle compagnie di giro. I miei in effetti sono spettacoli di piazza.
A questo proposito, ti definiresti appartenente a quella schiera di narratori, preferisco non parlare di “genere”teatro narrazione, che attualmente sono tornati ad attrarre l’attenzione critica teatrale?
Credo di sì. Mi stanno inglobando in effetti in quella particolare narrazione di impegno etico politico che per esempio, secondo Rodolfo di Gianmarco, che ha scritto qualche giorno fa di me, mi accomuna a Davide Enia, e si distingue in parte dal genere “narativo-storico” di Celestini. Io credo molto nelle possibilità che dà il teatro di cambiare il mondo, ma non il “teatro della mafia” che non vuole scendere nella realtà. Anzi io preferisco non definirmi un teatrante, il teatro in sé non mi attrae per niente, almeno fino al punto in cui non intravedo un’opportunità per trasformare il mondo e le persone. Io credo in un teatro invece strutturato sulla poesia e sulla forza popolare di ciò che racconta. Per questo mi occupodei deboli, di situazioni non chiare da un punto di vista ambientale, di problematiche sociali e civili; Storia di scorie, racconta proprio questo: indaga, studia, interroga per spiegarsi.
Anche in Fiato sul collo è evidente una tipica modalità narrativa che è proprio quella dell’indagine per la ricostruzione storica. Ti sei servito di interviste?
Ho intervistato 300 operai di FIAT Sata, alcuni dei quali vittime di provvedimenti disciplinari, altri licenziati, altri ancora occupati. Poi ho svolto indagini anche tra operai della FIAT di Torino, che vivono una situazione completamente diversa, come spiego nel testo, ma che sono per lo più anch’essi meridionali. L’altra trasversalità che ho cercato di raccontare è quella generazionale: il padre partecipante alle rivolte degli anni Ottanta finite male, disilluso, ma profondamente lucido e trasmettitore di una saggezza tutta acquisita con la fatica e gli sforzi; e Antonio, il figlio, che pensa di poter vivere con 1.350.000 al mese e mettere al mondo una famiglia, con due bambine, una moglie. È un illuso, solo Angela, la moglie, si rende conto che questo meccanismo devastante della “seconda battuta”, con dodici giorni di fila lo stesso turno (alternato a quello del marito) distrugge il loro rapporti e loro stessi: i ricatti e i ritmi sono assolutamente insostenibili…
Certo però che a parte la materia straziante di ciò che racconti, alcune battute del testo sono momenti di rara leggerezza e umorismo, il che forse contribuisce ancor di più a trasmettere quella drammaticità del quotidiano in cui i personaggi si ritrovano, più che trovano; penso a quando Antonio viene messo alla prova con il puzzle di Bambi…sarà anche per la parlata calabrese…
Lucano, a essere precisi!
E poi la storia del puzzle esiste davvero, anche se non era proprio Bambi, ma se ci pensi restituisce esattamente quel meccanismo di cui ti parlavo e di cui scrivo nel testo della “fabbrica trasparente”, in cui un pezzo viene intercambiabilmente sostituito all’altro in modo assolutamente rapido, incosciente, alienante. Non è importante quello che fai, ma la velocità con cui puoi intervenire e sostituirti al marchingegno di un altro…
Si vede che sei stato molto coinvolto nella stesura del testo, non solo professionalmente. Credi che lo metterai in scena tu stesso?
Io non ho un ruolo preciso nel rapporto con i miei testi: se qualcuno mi chiedesse di interpretarlo, sarei attore; se no, solo l’autore, o anche regista.
Parlavi prima di Davide Enia, vincitore “Tondelli” della scorsa edizione del Premio Riccione con “Scanna”. Per esempio in quel caso nella messinscena il narratore è diventato regista…
Noi meridionali per struttura abbiamo un certo tipo di approccio alle cose: uno comincia a farle e poi vede come vanno, mentre noi ai bambini fin da piccoli non chiediamo “cosa vuoi fare da grande?” ma “cosa sei disposto a fare da grande?”. Quindi io sono autore, ma posso anche essere altro. Di solito mi piace citare mio nonno, che prendo a modello e mi ha insegnato il piacere del racconto. Io lo faccio di mestiere, lui di mestiere faceva l’arrotino, ma non ha rinunciato a raccontare storie neanche con la minaccia fascista sopra la testa! E lui di certo non lo voleva fare l’arrotino…