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INTERVISTE > Fabio Bruschi

Quest’anno festeggi il tuo ventesimo anniversario come direttore di “Riccione Teatro”. Com’è nato il tuo interessamento al teatro e l’avvicinamento a Riccione?
In realtà il mio rapporto con il Premio nasce più di vent’anni fa: credo che il ridisegno più importante del Premio Riccione si collochi nel biennio ’82-’84.

Quando io sono arrivato al Comune di Riccione, chiamato dall’assessore alla cultura di allora, per occuparmi del Premio Riccione, mi chiese se valeva la pena continuare a portare avanti quest’iniziativa, nel momento in cui il Comune la stava ereditando dall’Azienda di Cura e Soggiorno di Riccione che fin lì se ne era occupata (e che da lì a pochissimi anni avrebbe cessato l’attività).

Devo dire che io allora detestavo il teatro: avevo visto da adolescente un penitenziale “Aspettando Godot” allestito da un gruppo di universitari Cattolici riminesi, per la regia di Giuseppe Prosperi, attualmente nel C.d.A. del Festival di Santarcangelo dei Teatri, come esperto di teatro, ed era stata un’esperienza che non aveva favorito il mio approccio al teatro. Ma in realtà ero già stato “deportato” in IV° ginnasio dal Liceo “Giulio Cesare” di Rimini al Cinema-Teatro “Metropol”, a vedere un infame Pirandello per le scuole… Dopo quell’esperienza decisi che il teatro proprio non mi piaceva e non mi interessava.

Dopo di che in effetti non ho mai più frequentato il cosiddetto ‘teatro di prosa’ finché, per motivi forse più politico-culturali che di immediata attrazione artistica, ho cominciato a visitare spesso il “Festival del Teatro in Piazza di Santarcangelo”, com’era chiamato allora che, con più risalto di oggi, (parliamo della fine anni ’70), si occupava di un teatro atipico e notai che mi piaceva, anche molto. Soprattutto dopo il cambiamento radicale della direzione nel ’78 con Roberto Bacci, il Festival, da tentativo di imitazione povera e ‘di sinistra’ del Festival di Spoleto, diventava invece il primo consolidato approdo in Italia delle tendenze terzoteatrali, che venivano dal nord Europa e anche dall’est europeo e asiatico. Così ho continuato a frequentare quel tipo di teatro; seguendo molto occasionalmente le programmazioni “normali”. In definitiva potrei definire la mia esperienza del teatro come laterale, “eccentrica” in senso etimologico.

Allo stesso modo il “Premio Riccione” per me era una sigla che mi sapeva un po’ di ammuffito, vecchio stile, estivo, inutile ma, prima di trarre conclusioni affrettate, ho consultato i giurati che avevano fatto almeno le ultime edizioni, persone di grandi qualità tra cui ricordo in particolare il critico Ugo Volli e il germanista e filosofo Ferruccio Masini. L’aspetto rilevante che ci sentimmo di segnalare era il fatto che si trattava dell’unico premio in Italia che desse un contributo per la messinscena effettiva del testo premiato: abolire il “Premio Riccione” non sarebbe quindi stato indifferente per il sistema teatrale italiano e su questo mi sono basato: la scelta finale è stata che nonostante si trattasse di un’impresa molto difficile, di problematica visibilità e di notevole impegno organizzativo, essendo utile per il teatro, andava portata avanti, rafforzandola e rivedendone l’impianto.

Ho provato a delineare un’ipotesi di riorganizzazione del Premio, che fino ad allora era annuale, dava da alcuni anni un premio di produzione (da quando stretto, anche se in modo problematico, il rapporto con l’ATER) e si trovava ad avere una giuria che a volte presentava, assieme a nomi di grande prestigio come ad esempio il regista Aldo Trionfo, presenze non pertinenti di pubblici amministratori. Dato che ho una mentalità costituzional-democratica ho pensato che la riorganizzazione avrebbe dovuto basarsi sulla divisione dei poteri: da una parte cioè la giuria sarebbe dovuta essere composta da esperti di teatro autonomi e qualificati, dall’altra gli assessori e gli amministratori avrebbero dovuto essere collocati in uno specifico organismo ad hoc di amministrazione del Premio e delle sue iniziative e ancora sarebbe stata affiancata alla giuria e al consiglio di amministrazione una struttura funzionale che organizzasse il Premio e le altre attività, cioè l’Associazione Riccione Teatro.

I Premi non hanno di norma una direzione artistica, dal momento che gli unici elementi di cui necessitano sono la giuria e i concorrenti; tuttavia vista la crisi del Premio in un panorama segnato, in Italia e all’estero, dalle difficoltà obiettive del teatro di parola, ho pensato che fosse necessario ricorrere a una guida esterna che ‘firmasse’ il Premio. Il Comune e l’Ater raccolsero alcune proposte – ricordo furono fatti i nomi di Italo Moscati e di Ubaldo Soddu – la mia indicazione fu Franco Quadri, che era, credo si possa dire, un ‘unicum’, nel senso che non era semplicemente uno dei migliori critici teatrali italiani, ma una figura di riferimento per alcuni aspetti decisiva: aveva seguito i gruppi emergenti italiani, era praticamente l’unico critico italiano a conoscere di prima mano tutta la scena dell’avanguardia internazionale, aveva già scritto saggi importanti per Einaudi, aveva già fatto il “Fabbricone” a Prato con Luca Ronconi, organizzato il convegno di Ivrea nel ’67, ecc. Soprattutto, non proveniva dall’area topica di riferimento del moribondo ‘teatro di prosa’ e l’avevo visto in scena- per così dire- a Santarcangelo dove, pochi anni prima, l’avevo visto come un uomo con una reale passione per il teatro, portarsi a braccio i rulli di pellicola di ‘Querelle’di Fassbinder. Scherzando posso dire che   il Premio gli ha portato fortuna: dopo il primo contatto con noi nell’82 e il primo incarico nell’83: da lì a poco sarebbe stato nominato direttore artistico del Festival Internazionale del Teatro, della Biennale di Venezia e critico di “Repubblica”.

La sua prima idea per dare più visibilità al Premio fu di accompagnarlo con rassegne teatrali monografiche, per esempio sul teatro di poesia, dopodiché però, dato che a Riccione c’erano pochi soldi e nessun teatro, realizzando che le rassegne erano improponibili, propose il festival di video-teatro e teatro televisivo (con qualche aggancio con le arti visive), che sarebbe diventato poi il Riccione TTV, prima edizione nel settembre del 1985.

 

A proposito della questione tormentata della visibilità, il Comune è poi stato effettivamente in grado di creare un seguito dell’iniziativa a Riccione, appoggiando il Premio?
Io preferisco se possibile dire la verità: il Comune di Riccione ha appoggiato il Premio fondamentalmente perché non poteva sbarazzarsene. All’epoca il partito di riferimento principale dell’amministrazione riccionese era sempre stato il PCI, che aveva espresso tutti i sindaci. All’inizio degli anni Ottantai partiti ancora contavano e molto: gli amministratori riccionesi intuivano che se avessero abolito il Premio magari qualcuno dalla direzione a Botteghe Oscure l’avrebbe “fatto presente”…e quindi ci pensarono bene!

Io penso che il Premio non sia mai stato amato, ma neanche più di tanto conosciuto. Lo stesso sindaco Quondamatteo che lo fondò nel ’47 era a sua volta impopolare presso il partito comunista riccionese tant’è vero che quando proposi al Comune di rilevare il Premio, pagando a Quondamatteo il marchio che era di sua proprietà personale, alcuni amministratori non ne volevano sapere.


Quindi dici che al di là delle istituzioni anche da parte dei cittadini non c’è mai stato o potuto essere un particolare coinvolgimento?
Direi proprio di no, anche perché non era mai stato fatto alcun tentativo di creare legami con le realtà locali: sarebbe stato in ogni caso estremamente difficile, specie in una realtà frantumata come quella riccionese, riuscire nell’impresa.

 

A questo proposito allora la “Stagione del Premio” inaugurata nel 2003-2004 potrebbe essere un fattore di maggior visibilità…
C’è da dire che all’interno di un panorama provinciale, mi riferisco a Rimini, così degradante, la provincia è, possiamo dire, davvero “il buco del culo della Regione Emilia Romagna”. Ancora prima di essere provincia – lo è da una decina d’anni – non è mai stato un territorio preso sul serio e direi giustamente!

Se posso citare un dato, sono almeno decenni che non c’è un assessore riminese, e non è certo casuale. Ma c’è anche un dato storico che non si può sottovalutare: i grandi teatri emilano-romagnoli stanno in città che non  sono sulla costa e non sono state bombardate. Rimini è stata distrutta al 90%, bombardata dalla RAF 61 anni fa e oggi è rimasta al punto di partenza. C’è senz’altro un rapporto difficile tra le istituzioni culturali tradizionali e il territorio. Viceversa, così come noi non abbiamo teatri stabili e siamo un nulla nel panorama culturale tradizionale della Regione Emilia Romagna, siamo invece una potenza significativa nel mondo dei festival e questo esclusivamente per via del turismo! Il problema è che i riminesi e riccionesi non sono mai riusciti a far rispettare questa modalità. Nel caso di Riccione, il modello tipico è quello per cui tutto è in capo all’assessore, ogni iniziativa è parcellizzata e non comunica con l’altra e quindi a queste condizioni è miracoloso che lo stesso Premio sia riuscito a sopravvivere. Basti pensare che la Sala “Teatro del Mare” è tuttora gestita dal comune di Riccione dove lavorano persone senza alcuna qualificazione di carattere culturale e tengono però il calendario delle iniziative, mentre noi non abbiamo mai avuto possibilità di programmare alcunché…

 

Quindi è ancor più un miracolo che si sia riuscita a organizzare una stagione vostra e che quest’anno l’iniziativa si ripeta e si ripete con una dedica agli artisti siciliani: Emma Dante, Davide Enia, Nino Romeo e Tino Caspanello, tre su quattro guarda caso passati proprio dal Premio…
Quello che io volevo fare nella prima edizione della stagione del Premio era rendere visibile al pubblico di Riccione, e non, cosa fosse successo durante il Premio, ristabilendo un elemento di memoria. La prima edizione ha presentato qualcosa come dodici o tredici spettacoli. Tutti erano come minimo interessanti, alcuni erano dei capolavori, altri comunque godibili.

Quello che mi interessava era cominciare a fare una mappa – a me piace molto la geografia – per rendere tridimensionale questo Premio. Le stagioni si caratterizzano nel presentare o testi che hanno vinto il premio oppure magari non il testo stesso che ha vinto ma un altro significativo di quell’autore o autrice. Venendo a “Sicilia!”, quando mi sono accorto che i premiati della scorsa edizione erano Enia per il Tondelli e Caspanelloper il Premio Speciale della giuria, entrambi siciliani, e l’anno prima, Nino Romeo, catanese, era rimasto tagliato fuori, mi è sembrata una grande coincidenza da sfruttare. Intanto la componente delle lingue regionali, o meglio locali, in Sicilia – questo me l’ha insegnato Romeo – sia su un piano spaziale che temporale, è una ricchezza spropositata. Per cui siccome questo è un dato che caratterizza l’universo teatrale in genere ho sfruttato questa combinazione siciliana, visto anche che negli ultimi anni si è avvertita una forte esigenza di tornare a indagare la tradizione linguistica. Ma bisogna anche dire che la Sicilia è la regione più letterata d’Italia: premi Nobel, successi editoriali di massa, da Sciascia a Camilleri a Quasimodo, Consolo… Infine, se si va a vedere l’aspetto teatrale, intanto la Sicilia ha due teatri stabili, cioè la metà di quelli del Mezzogiorno, ma anche nel cinema sbucano i nomi di Ciprì e Maresco, Roberta Torre, lo stesso Scaldati… è davvero una regione ricchissima.

 

Rispetto a questo mantenimento di un rapporto di continuità con gli autori che passano dal Premio, e data la sua vocazione primariamente produttiva, mi sembra di capire che ci tieni molto a far circuitare i vincitori…esiste anche in senso inverso un ritorno degli autori a Riccione?
Direi così: una delle differenze principali del “Premio Riccione” negli ultimi vent’anni rispetto a tutti gli altri è che questi ultimi hanno un comitato promotore, una giuria, dei i concorrenti e il loro legame si esaurisce lì, mentre il Riccione è al tempo stesso un Premio e un centro di promozione aperto dodici mesi all’anno con tre persone fisse e almeno altrettanti che collaborano come volontari, stagisti, etc. questo significa che noi abbiamo non solo la volontà ma anche la possibilità di mantenere rapporti con gli autori – cosa che facciamo peraltro anche con il TTV, che è l’attività cugina del “Premio Riccione”.
La ferrea prerogativa di Franco Quadri – lo dico senza alcuna nota polemica - ha impedito però nel tempo, al di là delle difficoltà logistiche e organizzative esistenti, qualsiasi iniziativa.

Io credo fortissimamente nel mantenere dei legami, a volte è anche solo una questione di simpatie occasionali. Una cosa di cui sono abbastanza fiero è ad esempio che, dopo una serie di numeri zero del “Premio Tondelli” per autori under 30 negli anni Novanta con l’allora direttore Giuseppe di Leva, finalmente nel ’99 ha preso il via l’ondata fortunata di Paravidino, poi Letizia Russo e la scorsa edizione Davide Enia.

Con Fausto per esempio, anche se la cosa non era prevista tra i riconoscimenti di chi vincesse il Tondelli, abbiamo organizzato una residenza al “Royal Court Theatre” per un laboratorio estivo, da lì è nata una commissione per Genova01 che poi è diventata una produzione italiana, circolando anche a Berlino…poi il _”National Theatre” l’anno dopo, con la mediazione di Barbara Nativi e Luca Scarlini, gli ha commissionato Peanuts (Noccioline in Italia), e questo in assenza di qualsiasi contributo del Ministero per gli affari esteri e con pochissimi fondi! Stessa cosa successe poi con Letizia Russo, che per esempio con il “Royal” non aveva invece combinato granché.

Noi effettivamente gli autori li accompagniamo, anche inaspettatamente o al di là delle richieste, per così dire, da contratto. Sono tutte cose più che altro artigianali, che cerchiamo di portare avanti sia per il teatro italiano in genere, sia per la nostra associazione che ovviamente per la simpatia che ci lega agli autori meritevoli. Io credo moltissimo alla personalizzazione, per questo mi infastidisce che si senta parlare di “drammaturgia italiana contemporanea”: io sono per gli autori prima di tutto, per avere delle figure riconoscibili in carne ed ossa, il che poi può scadere anche nel divismo o nei cosiddetti “fenomeni”, ma è comunque un’occasione rilevante che vale la pena di essere vissuta.
Il fatto stesso che molti mezzi di comunicazione generalisti, come “La Repubblica” o magazine di alta diffusione come “L’espresso” e “Panorama” negli ultimi tre, quattro anni abbiano dedicato servizi alla generazione dei nuovi drammaturghi (dove poi magari conta anche il fatto che Renata Ciaravino è carina o anche Fausto Paravidino è un bel ragazzo…) è comunque un gran risultato da sfruttare e promuovere su larga scala.

 

C’è un’ultima curiosità a proposito della quale vorrei sapere un tuo parere: facendo un rapido sondaggio dei partecipanti a questa 48^ edizione del “Premio Riccione” per il Teatro, ho riscontrato che nonostante il “Premio Tondelli”  under 30 sia uno dei più ambiti, che ogni edizione, da alcuni anni a questa parte, sforna nomi destinati a divenire importanti per la nostra drammaturgia, solo un 20% circa dei concorrenti (sui 473 di quest’anno) ha meno di 30 anni…
Davvero? Bene questo allora è un dato che merita davvero di essere approfondito, perché, per quel che ne so io, durante i quattro giorni di riunione qui a Riccione, la giuria ha discusso praticamente solo di autori minori di trent’anni! Il che probabilmente porta a sostenere che forse ci sono effettivamente molti dilettanti over trenta, fedelissimi, che ogni anno mandano i loro testi, però pare che i venti venticinque finalisti con possibilità di successo siano alla fine i pochi meritevoli giovani, indice forse ancora una volta che la quantità non è sinonimo di qualità.


di Chiara Alessi
       

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