Intanto una definizione: “Nzularchia: itterizia, ittero, febbre gialla. Da ‘nzularcato: parola composta dai termini latini “sulo” (sotto) e “acatus”(arco). Il popolo attribuisce tale male agli influssi dell’arcobaleno, […] nel Salento l’arcobaleno e l’itterizia si definiscono arcu”. Da cui Nzularchia.
Le ragioni di questo titolo, impenetrabile fin dall’inizio, fin dall’inizio danno ragione anche del mistero linguistico che permea la trama e così, come in un giallo, lo scioglimento arriva soltanto, drammatico, nel finale. Rimane una chiusa circolare, che riprende il tema iniziale e congela l’intreccio in un’unica, struggente, congegnata canzone.
Un sessant’enne, trascurato nell’aspetto e visibilmente cagionevole ma “sorprendentemente virile”, si aggira “tra i meandri della sua vetusta rocca”, nu mausoleo a tre piazze. Delirante ma circospetto, cauto e allo stesso tempo insofferente per la tempesta che infuria fuori dalle quattro mura in cui si è rinchiuso da anni, Scannacore, ex cammorista che scopriremo atrocemente anche padre omicida, intona un prologo, il rantolo di un parassita spampanato, arrusto comm’a nu sciurillo, ‘u pollice ‘nzeriuso addiventaje cometa, preludio al delirio materico-linguistico che verrà.
Dall’altra ala della “tana” fanno ingresso Gaetano, un uomo sui trent’anni e Piccerì, poco più giovane di lui, che potrebbe essere, come l’autore ci rivelerà da lì a poco, anche solo una proiezione di Gaetano, alternativamente figlio, fratello e padre, un compare imbastito come “rappresentazione allegorica e rancorosa del ricordo… una fonte dell’infanzia violata stuprata e per questo mai vissuta, dalla quale le immagini di Gaetano acquistano forma e colore”. Gaetano infatti è lì per vendicare questo sopruso, per liberarsi di un padre assassino e geloso che l’ha privato della cura della madre e della compagnia fraterna del futuro nascituro che la donna teneva in grembo, ma soprattutto per guarire da questa “febbre” di paura inculcata a suon di violenza “prelibata” e terribili prove iniziatiche che trovano proprio nell’acqua, quella del mare come quella degli scrosci tempestosi che infuriano all’esterno, un motivo ricorrente.
Se, come vuole l’ideologia magica tradizionale della nzularchia, il colore giallo della malattia troverebbe i suoi prodromi nel gesto del malato di “urinare contro l’arcobaleno”, la ricetta della guarigione è liberarsi proprio di quella malignità gialla che scorre nel cuore. Soluzione aporisticamente infattibile previa la sua morte stessa.
E il tragico epilogo infatti non può essere che il suicidio, che incombe come un’ombra attesa dall’inizio e contemporaneamente rimandata alla fine e a un altro personaggio.
“Il tutto custipato in una sabbatica e sinistra nuttata i’ frenesia, vaticinio di orrori inverecondi”, ambientato a Napoli in un vecchio palazzo fatiscente all’apparenza disabitato, nei primi anni Novanta.
Ma la sensazione è che, al di là dello sfondo evidentemente localissimo del tema camorrista, potremmo trovarci ovunque, in qualsiasi tempo: l’atmosfera solare partenopea, le strade, i vicoli, il mare, il traffico, il vociare, gli “scugnizzi” e i “femminielli”, cedono qui il posto all’aria plumbea di un’uggiosa giornata di pioggia in cui il silenzio è interrotto solo dalla logorrea dei personaggi che fingono di rievocare un passato che non hanno, negano di ricordare cosa li riconvoca nel presente o monopolizzano il dialogo bluffando incomprensione. Eppure proprio quest’atmosfera linguistica conserva tutto il fascino di una Napoli agrodolce a cui ci avevano abituato i grandi di quella generazione cosiddetta “post-eduardiana”: il noire si tinge dei toni ardenti del lirismo, dei monologhi che sembrano cantati, delle pantomime grottesche dei personaggi che alleggeriscono la gravità dell’insieme.
E Mimmo Borrelli, classe ’79, originario di Torregaveta, nei pressi dei Campi Flegrei, alla sua napoletanità ci tiene moltissimo e lo svela fin dall’introduzione sinottica che accompagna il suo testo. Nessuna indicazione contenutistica o tematica, nessuna manovra poetica di sintesi; solo qualche riga scritta a mano: “l’uso del dialetto, che in questo caso convenzionalmente definiremo “flegreo”, nasce dalla profonda, personale e contestabile esigenza di non ricreare una nuova lingua, ma più propriamente di scolpire, con l’umiltà di un artigiano, un piccolo codice cifrato, oserei dire massonico, che renda giustizia e vesta fedelmente le proprie manifestazioni drammaturgico-emotive”.
Questo caleidoscopio linguistico richiede sforzi fin dal titolo; a tratti, glossario alla mano e note a fronte, si ha quasi la sensazione di interromperne la musicalità, acquistando maggior criteri cognitivi, ma perdendo l’anima dell’insieme.
Ma è proprio questo ciò che piace alla fine: l’idea di aver penetrato un linguaggio cifrato, l’ammiccante soddisfazione di scovare, sotto queste pagine fitte di terminologie all’apparenza incomprensibili, un livello maggiore di comprensione. L’autore ci aiuta, infittendolo di didascalie parafrastiche, ma sembra quasi che quanta più è la libertà interpretativa nel giocare anche con l’ambiguità dei termini, tanto più ne acquista lo spessore stesso dell’opera.
Se è vero infine che la lingua non gioca qui solo da orpello ornamentale, né mina il flusso del dialogo, né è occasione per una meta-analisi delle strategie comunicative, come in molta drammaturgia contemporanea, è perché è la lingua stessa a fare da generatore in questo caso, e Borrelli sembra averlo capito, promettendo di essere lui stesso, e appropriatamente, la voce del suo testo.