Negli ultimi anni abbiamo assistito a una partecipazione allargata dell’interesse critico nei confronti del settore della drammaturgia: molti nomi, alcuni dei quali scoperti proprio dal Premio, hanno avuto riscontri più che positivi sulle scene nostrane ed estere, mentre testi segnalati continuano a essere prodotti da compagnie riconosciute. I segnali testimoniano un crescente intensificarsi del rapporto tra cosiddetta ‘nuova drammaturgia’ e ‘nuovo teatro’ che siglano un incrocio fervido e significativo sotto diverse prospettive. E in questo interessante incrocio si situa il Premio Riccione il cui statuto cita tra gli intenti proprio quello della promozione dello sviluppo della drammaturgia contemporanea attraverso una volontà progettuale di consolidamento e produzione della scrittura teatrale italiana all’interno del più vasto panorama scenico.
L’originalità di questo disegno si colloca così su un trend che pare già variamente inaugurato dalle proposte di ricerca teatrale più interessanti degli ultimi anni. L’attribuzione di vetustà e stagnamento che durante il lungo intervallo seguito agli anni Sessanta ha arrestato lo sviluppo della scrittura per il teatro è stato infatti da tempo superato in favore di una rinnovata combinazione con la scrittura scenica che non necessariamente si costruisca in negazione del testo ma piuttosto in vista di un ripristino della drammaturgia di drammaturgo con quelle complementari dell’attore e del regista, fino a condensare le tre componenti in un'unica personalità, dinamica cui oggi si fa frequentemente ricorso ad esempio con la modalità narrativa. Né è un indice trascurabile che i segnali di scambio tra questi due pianeti (quello della drammaturgia scritta e quello della scrittura scenica) avvengano non solo attraverso le migrazioni dei loro abitatori, ma si riscontrino anche nella realtà degli studi specialistici, dei convegni e nei resoconti sempre meno monografici del teatro contemporaneo, grazie allo sguardo ad ampio raggio degli osservatori che è stato in grado negli anni di coniugare universi a lungo concepiti separatamente; come non è un caso che in gran parte dei dossier sulla ricerca della nuova generazione si accostino noti nomi di compagnie di ricerca a individualità più o meno conosciute che proprio nel settore drammaturgico stanno conducendo un analogo percorso di sperimentazione. E infine non si tratta semplicemente di una combinazione irrilevante quella della data in cui si va a inserire il Premio Riccione, la cui presidenza volutamente ha chiesto di procrastinare la premiazione al 1° ottobre per evitare sovrapposizioni con la Biennale Teatro, che quest’anno, sotto la direzione di Romeo Castellucci, si presenta manifestamente aperta a linguaggi alternativi a quello strettamente drammaturgico. Eppure si è ritenuto corretto evitare concomitanze temporali che avrebbero significato non solo sincronismi nell’attenzione critica, ma anche coincidenze di un pubblico sempre meno schierato tra l’uno e l’altro versante.
Ora, se molta drammaturgia contemporanea si è affermata attraverso la produzione di testi frammentati, elusivi, dati per tasselli invocanti il montaggio della scena o costruiti sul riadattamento creativo di materiale letterario preesistente, è tuttavia comprensibile che la peculiarità del Premio sia quella di riconoscere l’originalità e la compiutezza dei testi, ammettendone il primato sugli altri elementi compositivi. Questo ha fatto in modo che spesso i copioni che pervengono al concorso siano costruiti sulla rincorsa a moduli tradizionali che tentano di ricostruire una forma drammatica autonoma e coerente, impostata sulla suddivisione in atti e scene, sulla consequenzialità dei dialoghi, la definizione psicologica dei personaggi. Dall’altra parte chi ha riconosciuto la sospensione del dramma, forte della consapevolezza che ci proviene dalle avanguardie teatrali, si è dovuto confrontare con l’arditezza di soluzioni innovative, che evadessero dagli schemi ereditati dalla tradizione pinteriana, beckettiana, dal taglio paragiornalistico, cronachistico o domestico, dall’escamotage delle formule monologanti. La scrittura contemporanea si è quindi trovata spesso a oscillare tra l’impossibilità di un recupero del valore pseudotragico a teatro e lo sguardo idealizzato che pretenderebbe di ripristinarlo tale e quale, tra il rifacimento di miti e celebri plot e il malinteso che tematiche d’attualità e impegno possano essere restituite tramite una banale e piatta registrazione della quotidianità.
Ma il successo degli ultimi vincitori convalida sempre più l’eventualità che la strada di una rigenerazione del sistema drammaturgico possa realizzarsi innanzitutto attraverso un’originale trattamento linguistico, pur nel rilevare l’emergere di un ristretto numero di testi rappresentativi che coprono filoni tematici prestabiliti. Come a dire che se risulta ardito schivare il trattamento di argomenti già tante volte presi d’assalto, la volontà di ricerca dei partecipanti e la loro maggior professionalità si è definita negli anni proprio agendo su quella stessa parola, a lungo negata e oggi riaccreditata anche nelle formazioni di più avanzata sperimentazione, saggiandone il potenziale sonoro oltre che sintattico. Si è perciò assistito al ritorno, o sarebbe meglio dire, all’arrivo dei dialetti (non inteso nel senso di un parlato intatto e originario ma come lingua decentrata, contaminata ed eccentrica), della poesia (tra la sospensione nel dialogo lirico e l’abbandono alla memoria), fino all’invenzione di vernacoli o alla ripresa di moduli comunicativi antiletterari che attingono alla quotidianità ma per differirla.
E, uscendo dalla miopia dei generi e delle categorie, allargare lo sguardo all’orizzonte teatrale più vasto e interessante degli ultimi anni significa riconoscere come gran parte della ricerca contemporanea si stia muovendo proprio in relazione allo scandaglio linguistico, superando un transito afasico, per rimpossessarsi di una scrittura non solo corposa ma davvero carnale, che non rinunci a coniugare questi due lembi visivo e sonoro a lungo spartiti tra teatro di parola e avanguardia dell’immagine.
Da parte della drammaturgia sarebbe allora davvero interessante riappropriarsi dell’apparato fisico che la sua miglior scrittura mentale invoca, della vocalità che la lingua implora, della pagina bianca della scena che sostanzia quella scritta della partitura. E la direzione sulla quale può puntare un premio che non gratifichi solo gli intenti ma ne testi la producibilità è senz’altro quello di offrire una casa per proteggere la drammaturgia, come spesso si è detto, ma anche un trampolino per slanci all’altrove significativo della scena, o se si preferisce all’indietro da cui proviene.
DEI RITORNI…
Se i 471 copioni pervenuti la scorsa edizione a Riccione avevano costituito un record senza pari nella storia del suo premio, i 475 di quest’anno confermano indubbiamente l’allargamento dell’attenzione al circuito drammaturgico. Senza dubbio a questo proposito va segnalata l’iniziativa della scorsa “Stagione del Premio” 2003/2004 che si accinge quest’anno alla sua seconda edizione e che ha avuto il merito di riuscire a raggiungere visibilità anche in quella Riccione spesso aliena o all’oscuro della manifestazione. Non a caso, rispetto alla componente di provincialismo frequentemente implicata dai concorsi, solo una scarsa percentuale di partecipanti al Premio Riccione ruota direttamente intorno al comune romagnolo, che anzi spesso lamenta estraneità, e la provenienza più copiosa si attesta felicemente dalle regioni del sud Italia, non mancando anche candidati residenti all’estero (Francia e Germania soprattutto) e mantenendo comunque negli anni un afflusso più o meno proporzionale da tutto il Belpaese.
Ma se una certa parte di affezionati scrittori si è regolarmente registrata nelle diverse edizioni del Premio, uno dei pregi del concorso è quello di catalogare ogni anno nuovi nomi, anche illustri, che spesso già gravitano intorno all’universo letterario, cinematografico o teatrale, magari con professionalità originariamente diverse da quella strettamente drammaturgica (basti pensare che nella rosa dei finalisti dell’ultimo decennio si sono succeduti nomi come quello di Riccardo Caporossi, Alessandra Vanzi, Antonio Moresco, fino a Vincenzo Salemme).
Questo trafiletto avrebbe voluto intitolarsi qualcosa come “ritenta: sarai più fortunato”, un incitamento che ci pare superfluo a fronte dell’affluenza davvero copiosa di autori già affermati o in erba. Ma proprio il vaglio attento delle rose dei finalisti degli ultimi vent’anni, porta alla luce una statistica eloquente. Su un centinaio di autori ammessi all’attenta analisi finale della giuria tra il 1985 e 2003, solo un 50% circa si è registrato ancora al concorso (Franco Scaldati e Ruggero Cappuccio per esempio partecipano solo una volta decisiva che li ammette tra i finalisti, guadagnandosi poi comunque una discreta fama attraverso altri canali), pochi nomi (tra cui Raffaella Battaglini, Francesco Silvestri, Fabio de Agostini) compaiono ripetutamente nella lista senza aver mai conseguito vittorie o segnalazioni, mentre la tenacia ha premiato una maggior parte che ha alternato la propria comparsa nella rosa a quella nella lista premiata. Tra i nomi più ricorrenti vi sono senz’altro Massimo Bavastro (due volte vincitore del Premio “Cassa di risparmio di Rimini” nel 1995 e nel 1999), Nino Romeo (che partecipa per ben sette volte, comparendo in due occasioni nella rosa, ricevendo una segnalazione nel 1985 e finalmente la vittoria del primo premio nel 1999 con Disgusto per stile), Antonio Syxty (nella rosa del 1999 e segnalato sia nel ’93 che nel ‘91 per L’aquila bambina, che avrebbe tra l’altro ricevuto il premio di produzione per la messa in scena di Luca Ronconi), per non parlare della pluriennale e pluripremiata partecipazione di Giuseppe Manfridi, che quando non è sbucato nella rosa (in cui compare ben quattro volte) è stato vincitore (nel 1989 con Ti amo Maria!) o segnalato (nel 1985 e nel 1993); a questi vanno aggiunti Maura del Serra Fabbri (tra i finalisti del 1987, poi segnalata nel ’91); Sonia Antinori (nella rosa del 1997, vincitrice dl primo premio nel 1995 con Il sole dorme); Umberto Marino (segnalato nel 1989 e nella rosa del ’91); Rocco d’Onghia (nella rosa del ’91, del ’93 e del ’95, dopo esser stato segnalato nel 1989 per Lezioni di cucina di un frequentatore di cessi pubblici); Paolo Puppa (nella rosa del 1995 e del 2001, premiato nel 1999) e Roberto Cavosi (tra i finalisti del 1999 con il suo celebre Diario ovulare di Erodiade e vincitore del primo premio nel 2001 per Bellissima Maria). Così l’appartenenza più significativa alla corolla dei finalisti ha finito per coincidere con un bouquet di nomi per i quali il Premio ha sostenuto la scoperta. E se l’insistenza non necessariamente garantisce un proporzionale conseguimento di risultati, va almeno interpretata come segno della fiducia che chi scrive sa di poter riporre in chi leggerà, analizzerà dettagliatamente, giudicherà i testi.
…E DELLE PARTENZE
Ma i numeri danno un'altra conferma non trascurabile che implica una riflessione ad ampio raggio sul panorama drammaturgico in generale.
La scoperta e la valorizzazione della nuova drammaturgia è senza dubbio un miraggio allettante che ne motiva l’abbondante affluenza, ma nondimeno il collegamento che il Premio Riccione negli anni è riuscito a consolidare con le realtà produttive e le modalità di sostegno che passano attraverso l’editoria e le mise en espace, giustamente costituisce il canale privilegiatamene agognato per tentare un’occasione di propulsione anche a livello rappresentativo. Al di là della Stagione promossa dal presidente di Riccione, Giorgio Galavotti, con il motto “Riccione teatro e il teatro a Riccione”, basterà citare i nomi di tre su quattro vincitori della scorsa edizione, Andrea Malpeli, Davide Enia e Agatino Caspanello, per ricordare la stretta e immediata connessione che hanno avuto con la scena. Grazie al patrocinio della “Biennale Teatro” 2004, sotto la direzione di Massimo Castri, il testo vincitore Io ti guardo negli occhi è stato infatti programmato con la regia di Chérif in prima assoluta e il giovane Enia ha personalmente allestito il suo Scanna premiato “Tondelli” 2003 (ma altri due celebri autori passati nel 2001 a Riccione, il romano Celestini e la giovane Letizia Russo, comparivano nella programmazione con due nuovi testi di successo), mentre il “Festival di Santarcangelo dei teatri” dopo aver promosso la scorsa stagione lo spettacolo Mari del messinese Caspanello con la “Compagnia del Pubblico Incanto”, quest’anno ha coprodotto l’altro segnalato del 2003, Massimo Sgorbani con Le cose sottili nell’aria, per la regia di Antonino Iuorio.
Esiste a questo proposito, come alcuni hanno sostenuto criticamente, anche il rischio che l’opportunità di un seguito rappresentativo si trasformi nell’obbligo informale per i nuovi autori di un passaggio coatto per il circuito del Premio che sembra l’unico sentiero percorribile a chi cerchi visibilità, ma in un contesto come quello attuale crediamo che vadano comunque incoraggiate le iniziative di promozione, anche se la loro rarità finisce per segnarle inevitabilmente di un’aura di esclusività, magari a scapito di alternative minori. E parlando di partenze e incoraggianti dipartite, come non fare almeno accenno al successo estero che i nostri drammaturghi in alcuni casi hanno raggiunto, a volte prematuramente rispetto alla visibilità italiana, attraverso modalità di residenze e commissioni da noi ancora inesplorate? In questo senso se il Premio rappresenta una prima tappa di incoraggiamento e un’occasione di decollo per gli autori, si tratta pur sempre del primo passaggio di un percorso articolato che va costruito appunto su un reticolo di esperienze, incontri e incroci allargati, cui purtroppo manca spesso la risposta degli stessi organismi istituzionali deputati. E’ confortante allora che questi censimenti attestino non tanto un’elevata mortalità infantile, su cui i necrofili spesso concentrano i propri compianti sterili, ma soprattutto una continua e protratta insistenza a produrre il nuovo che va incoraggiata.
QUANTI EREDI HA TONDELLI?
Tuttavia proprio in questo contesto non possiamo ignorare di rilevare un dato che merita un’attenta riflessione. Dal 1995 tra i criteri che regolavano la distribuzione dei premi (tra quello di produzione, il premio istituito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini - poi scomparso nel 2001 -, quello speciale della giuria intitolato a Paolo Bignami e Gianni Quondamatteo che nel 1947 vollero l’istituzione del concorso e l’“Aldo Trionfo”, cui oggi si aggiunge il “Marisa Fabbri”, dedicato a personalità e opere che si siano distinte nell’ambito della ricerca), è stata introdotta la fortunata novità del “Premio Tondelli”, riservato agli autori under 30. Da allora si sono succedute scoperte di nomi che hanno siglato la più recente storia drammaturgica nostrana: da Fausto Paravidino a Letizia Russo a Davide Enia e la segnalazione di Ascanio Celestini, alcuni dei quali, non a caso, annoverati anche nell’albo d’oro dei prestigiosi Premi “Ubu” come migliori novità italiane o con riconoscimenti speciali della giuria. Anche tra i segnalati all’altro stimato premio che chiude il cerchio delle vetrine sull’attuale ricerca teatrale nostrana – mi riferisco a “Scenario” - emergeva quest’anno una particolare attenzione per il ritorno alla parola, al testo e alla costruzione drammatica e la stessa recente fioritura, a volte forse anche modaiola, di insegnamenti di scrittura, laboratori di drammaturgia e indirizzi scolastici annessi dovrebbe aver promosso l’avvicinamento dei giovanissimi.
Eppure una banale statistica sociologica tra i partecipanti al concorso riccionese ci ha sorpreso nel riscontrare che solo il 18% circa appartiene a una fascia d’età compresa tra i diciotto e i trent’anni e quindi aspirabile a questo considerevole riconoscimento che si sta accreditando d’importanza pari al principale Premio Riccione. Se può essere intesa come l’eccezione che conferma che la qualità non sempre è assicurata dal rinvenimento proporzionale di una quantità, si tratta comunque di un indice da leggersi forse più nella difficoltà per i giovani di scoprire forme alternative di scrittura, nel rifiuto di adeguarsi alla ripetizione di stereotipi tradizionali, che non del loro disinteresse tout court per la drammaturgia nell’optare per forme teatrali divorziate, come spesso si tende a semplificare. In ogni caso l’instancabile e paziente ricerca sia da parte degli autori che dei loro scandagliatori non ha mancato negli anni il decisivo atteso riconoscimento.
D’altra parte confrontandoci con il teatro ci siamo dovuti spesso adeguare a una revisione delle categorie anagrafiche e sappiamo bene che gli anni verdi della generazione giovane del teatro o, come piace dire a qualcuno, la sua “meglio gioventù” non sempre coincide con la generazione dei giovani (per quanto poi parlare di generazione e generi lasci dubbi sull’effettività della condizione che viviamo). E il Premio Riccione ha in questo senso davvero il merito, accanto alle rare immediate epifanie, di aver scorto la freschezza drammaturgica di alcuni autori anche seniores, ma giovani per il teatro, come Antonio Tarantino (unico due volte vincitore nel ’93 con Stabat Mater e nel ’97 con Materiali per una tragedia tedesca), Raffaello Baldini (il cui Carta Canta ha ricevuto nel 1997 il Premio Speciale della giuria) e prima ancora un altro instancabile ricercatore di una lingua vivificata dal dialetto: Enzo Moscato con il suo Pièce noire del 1985. Nomi il cui riverbero in questi anni ha determinato un’onda lunga proprio tra i più giovani che, anche se non mantengono connessioni immediate e riconoscibili con la corrente sottostante, sulla cresta di quella spesso si incanalano per precisare corsi originali e autentici.
NON SOLO AUTORI
Perché non parlare solo di autori nel contesto di un premio che da cinquant’anni si occupa di promuovere la drammaturgia al rango delle altre componenti della realtà teatrale? Non basta infatti considerare un po’ ripetutamente quanto questo termine arioso e a volte spaventevole “drammaturgia” stia dilagando come espressione coerente per definire il “lavoro dell’azione” che tutti i diverse coefficienti del fatto teatrale si impegnano a svolgere - dal regista all’attore, dallo scenografo al macchinista, tutti nella propria autonomia creativa che converge nell’indivisibile compiutezza finale -. Calandosi nella realtà e risparmiandoci trafile filologiche e tutte mentali sulle etichette di cui ci serviamo per catalogare sbrigativamente, sono proprio le biografie dei più notevoli drammaturghi del nostro teatro a mescolare le carte, a confondere i confini, a lasciare sospesa la soglia delle definizioni.
Lungi dal professare una vocazione superiore alla scrittura, un’ispirazione che sa più di museale che di Musa, la maggior parte di loro dichiara di essere approdata alla drammaturgia, spesso dopo un praticantato attorico e un faticoso apprendistato scenico, per il bisogno di scriversi il proprio teatro e trovare una conformazione cartacea originale e tangibile del proprio amorfo repertorio recitativo. Non solo autori tradizionalmente pensati come scribacchini a tavolino, ma davvero autori del proprio corpo.
E non è un caso che gli esiti migliori si rivelino proprio nell’immediatezza di opere pensate già per la scena, forse studiate con essa, o addirittura concepite posteriormente al loro parto preventivo; come d’altra parte non è raro che al di là delle difficoltà materiali/ministeriali per gli autori di essere messi in scena, le opere spesso fatichino a ritrovare sul palco l’immediatezza con cui erano state impresse sulla carta, perdendone in spontaneità, quando non addirittura vedendosi snaturate.
Allo stesso modo, a chi si trova a dover giudicare i testi basandosi esclusivamente sulla lettura si richiede un enorme sforzo immaginativo e un certo margine di rischio. È forse quello che è successo un anno fa alla Biennale di Venezia per il testo vincitore del Premio Riccione Io ti guardo negli occhi di Andrea Malpeli? Non possiamo limitarci a semplificare che la scarsa incisività e i dubbi di incompletezza che ha sollevato siano imputabili esclusivamente a sviste dei tredici giurati (che non sono mica pochi) o del regista Cherif (peraltro da tempo impegnato nella messinscena di testi contemporanei, a partire dal laboriosissimo Tarantino, e quindi non proprio un neofita). Come sarebbe sbrigativo risolvere che viceversa il successo degli allestimenti del Premio Tondelli Scanna di Enia, dei testi del suo giovane predecessore Paravidino (vincitore nel 1999 con Due fratelli), o dell’altro “fenomeno” Celestini (segnalato nel 2001 con Le nozze di Antigone) dipendano unilateralmente dalla qualità della loro scrittura. Anzi, nella eterogeneità dei loro esiti, l’ingrediente condiviso è proprio l’irresolubile incontro tra scena, come costante al contempo preesistente e conseguente, e parallela costruzione del testo, abolendo ogni distinzione in fasi e cancellando i ruoli. Così Enia ha fatto da regista per il suo testo - di cui ha anche detto “l’ho scritto per vincere i soldi del premio… se non trovo un circuito non mi vede nessuno” – Paravidino ha sempre dichiarato di voler portare avanti in parallelo l’attività di drammaturgo con quella che lo vede attore nella sua compagnia genovese (“non concepisco l’uno senza l’altro”) e anche Tino Caspanello, altro vincitore di lusso della scorsa edizione del Premio, ha portato in scena Mari con la messinese “Pubblico Incanto”.
Certo che ci sono anche i solo-autori, come i solo-testi, godibili anche esclusivamente alla lettura, però la drammaturgia d’autore si sta contemporaneamente affermando con esiti eccellenti che esulano quelli tradizionali, o al contrario si rifanno proprio alla tradizione più antica dei recitatori dei propri testi. E se la strada che li porta a transitare per Riccione è ancora tutta da battere, questi ingressi, passaggi o approdi sembrano far ben sperare.
DI GIURIA E PREMI: COSTANTI E NOVITA’ ALLA 48° EDIZIONE
Negli ultimi dieci anni l’aumento considerevole dei concorrenti, che dai 311 del 1995 nel 2003 è arrivato a registrare 471 copioni, è stato coerentemente fronteggiato con l’allargamento del numero dei giurati che da 9 (ma erano 7 nel 1985) è passato a 13, effettuando parallelamente un vero e proprio raddoppio nella commissione di preselezione che si compone di 8 lettori incaricati di operare un primo filtro sui lavori. Ma ciò che pare più rilevante è l’eterogenea composizione della giuria, non solo per l’anzianità di partecipazione al Premio, quanto per la diversificazione professionale dei lettori.
Solo considerando l’ultimo ventennio, accanto a Franco Quadri, che è presidente della giuria dal 1984 al 1991 e dal 1995, Luca Ronconi, nella giuria dal 1989, Renzo Tian, dal 1995 e Maria Grazia Gregori che, in commissione dal 1984, ha all’attivo il maggior numero di comparizioni, gli altri componenti alternano infatti presenze altalenanti (come Sergio Colomba che, dopo aver presenziato dal’85 al 1991, è riapparso lo scorso anno dopo un buco di cinque edizioni), ritorni (Luca Doninelli e Mario Fortunato che annoverano tre partecipazioni a testa negli ultimissimi anni), novità (Roberto Andò, Giorgio Pressburger, Edoardo Erba, Renata Molinari che, anche se variamente coinvolti nelle edizioni precedenti, compaiono per la prima volta nella giuria del 2003) e due neofite assolute: Ottavia Piccolo e Ludovica Ripa Meana. Nonostante l’originalità di queste due ultime partecipazioni, entrambe vantano un curriculum che ne motiva a buon diritto la presenza in quest’occasione: l’esordio tutto teatrale della Piccolo che fa la sua prima comparsa a teatro a soli dieci anni con la regia niente meno che di Squarzina (ma collaborerà anche con Strelher, Visconti e Ronconi) e che dopo la messinscena di classici (da Alfieri a Shakespeare a Tomasi da Lampedusa), ultimamente si è interessata alla drammaturgia contemporanea con la fortunata interpretazione, insieme a Ivano Marescotti, di due testi di Roberto Cavosi, tra cui quel Bellissima Maria, vincitore nel 2001 - prodotto con la collaborazione dell’ERT, del Comune di Riccione e di quello di Cattolica in occasione della prima Stagione del Premio - e il recente approdo di Ludovica Ripa di Meana alla drammaturgia, per cui conta ancora solo tre titoli variamente spartiti tra una tragedia, una commedia e un monologo, ma che indurrebbero a pensare già a una consapevolezza non casule dell’eclettismo della scrittura teatrale.
E se è vero che gli indirizzi sempre meno specializzati della scrittura favoriscono oscillazioni tra il giornalismo, l’editoria, il teatro, la narrativa, è da considerarsi un fattore davvero arricchente la convergenza di questi orientamenti disparati all’interno di una commissione il cui nocciolo duro ruota comunque intorno alla critica e alla regia prettamente teatrale. A questo si aggiunga la provenienza in parte cinematografica di Roberto Andò, quella principalmente didattica e diversamente pratica di Renata Molinari, Sergio Colomba e Giorgio Pressburger, ma anche l’esperienza di quest’ultimo all’Istituto Nazionale di Cultura di Budapest, come di Mario Fortunato a Londra, che portano il vantaggioso contributo di un confronto con la situazione estera. O la presidenza di Renzo Tian alla fondazione “Theatre des Italiens”, già commissario straordinario dell’ETI e nella giuria di altri importanti premi di drammaturgia tra cui l’“Ugo Betti” e il “Diego Fabbri”. E ancora la qualificazione assolutamente drammaturgica di Edoardo Erba, che è autore teatrale riconosciuto, pubblicato e tra l’altro già segnalato da Riccione nel 1997 e nel 2001.
La premiazione finale non è che il momento culminante del lavoro che impegna da maggio questo interessante e multiforme team. Alla lettura, l’analisi, la scrematura incrociata dei 473 testi concorrenti seguirà la riunione preliminare di settembre in cui estrapolare la rosa di una ventina di finalisti, fino alle premiazioni della giornata finale, per un totale di 10000 euro da spartirsi tra i vincitori (3/4 il Premio Riccione - escluso il ricco budget di produzione di 30000 euro per l’allestimento – e ¼ il “Tondelli”) cui si aggiunge quest’anno il contributo di 4000 euro messi a disposizione dalla C.G.I.L. per festeggiare cent’anni dalla sua nascita e destinati all’autore che si distingua nell’approfondire argomenti e tematiche di carattere sociale e concernenti al mondo del lavoro.
L’altra novità del 2005, già collaudata in realtà la scorsa edizione “per ricordare una grande attrice e un’amica”, è il “Premio Marisa Fabbri” che si inserisce accanto al “Premio Speciale Bignami” “a indicare un’opera particolarmente impegnata nella ricerca di un linguaggio aperto e poetico”. Mentre è giunta al suo nono anniversario l’istituzione del “Premio Aldo Trionfo, destinato a quei teatranti – artisti della scena o della pagina, singoli o gruppi, studiosi o tecnici – che si siano distinti nel conciliare opposti, coniugando la tradizione con la ricerca”, conferito la scorsa edizione al regista Egisto Marcucci, e per l’assegnazione del quale la giuria sarà integrata in quest’occasione dal Direttore di Riccione Teatro, Fabio Bruschi, e da Giorgio Panni, Tonino Conte e Emanuele Luzzati del Teatro della Tosse di Genova.