Mentre il destino sale le scale dell’Hotelofficina di Matteo Caccia, incontrando personaggi in fuga e in attesa, Virginio Liberti, regista della fortunata compagnia senese Egumteatro, anima una Piccola città con le miniature di una commedia piccolo borghese in due tempi, e il milanese Alessandro Genovesi, attore per alcuni anni sulla scena di Egum, lo tallona con Happy family, pungente commedia di spietata leggerezza, dove incontra una frastornata umanità con epidermica empatia e ironia complice. Tre, e altri 17 nella quarantottesima rosa dei finalisti del premio Riccione per il Teatro, appuntano ritratti di una società per tipi. Altri affondano sonde psichiatriche negli umori della ragione, respirando con l’internato Vincent Van Gogh L’odore assordante del bianco nei corridoi ciechi del carcere sanitario di Saint-Paul-de-Manson, ridipinti da Stefano Massini, o inseguendo La grande fuga di tre pazienti costretti a una particolare terapia di gruppo dalla penna di Arnon Debernardi, classe 1980, il più giovane della rosa, mentre tre donne abitano e corrodono di ricordi e soprusi le Pareti domestiche (Free climbing) di Sonia Arienta..
Massimo Salvianti, dopo Il permesso, finalista della scorsa edizione, custodisce nel disturbo psichico e nella memoria di Lina le amare ragioni di un gesto omicida, lungo un perimetro di prigionia mentale come in Scantu di Adele Tirante, dove il fremere dei nervi della protagonista tinge d’arcano un dialetto che risuona in un mistico altrove. Stessa cadenza, messinese, e compagnia, il Pubblico Incanto, di Nello Calabrò, che insinua il testo nelle crepe, o nelle piaghe, delle Muraglie dei riti della quotidianità nel retro di un ristorante dove tre donne al lavoro attendono il compiersi in sala dei consueti rituali della malavita. Compagni di scena, Adele Tirante e Nello Calabrò seguono le orme del regista Tino Caspanello, che con Mari aveva ottenuto il Premio Speciale “Bignami” nella scorsa edizione del premio, spettacolo promosso e apprezzato al Festival internazionale Santarcangelo dei Teatri nel 2003, e segnano un’altra meta nell’inquieta mappa della Sicilia di scena. La rosa è di sole e di mare anche in quest’edizione, con sette autori dell’irrequieto e fertile panorama della drammaturgia nelle regioni meridionali: quattro i partenopei, da Fortunato Calvino con Lontana la città, dramma di una Napoli minuta esposta alla furia della camorra, al testo vernacolare ‘Nzularchia del ventiseienne Mimmo Borrelli, dove tradizione e traduzione si intersecano in un codice cifrato e miniato, nelle cesellature linguistiche di un dialetto che gode di un’eterna giovinezza, mentre Mario Gelardi, già comparso nella rosa dei finalisti nell’edizione ’99 con Così leggero, firma a quattro mani con il trentenne Giuseppe Miale Di Mauro Becchini, quadro a quattro voci sui primi scomposti passi della vita adulta. Gelardi ritrova nella lista, con Infinity-Racconta la fine del mondo, Antonio Syxty, a sua volta segnalato nel ’99 con Il paradiso dei gangsters, come già nel 1993 e nell’edizione precedente, premio per la produzione per L’aquila bambina, con la regia di Luca Ronconi.
Più a sud, nella Calabria di Salvatore Arena Longa è a iurnata, dove l’emarginazione afflitta dall’usura e condannata dalla disoccupazione trova voce in un dialetto che preserva identità e dignità, la stessa radice che, passato lo stretto, Lina Prosa piega al Controllo fisico satatale, lingua e anima di un soldato dell’entroterra siculo, sradicato da un eroico quanto lacerante pellegrinaggio di morte in zone di guerra.
Da segno d’identità a complice d’intimità, il dialetto dei vernacolieri finalisti tocca anche altri lidi, con L’ultimo sarto romagnolo che monologa fra sé nel testo di Francesco Gabellino.
Se non mancano le angustie di crimini e violenze di atavica attualità, nella rosa figura la cronaca e l’eco di fatti di un passato recente: Ulderico Pesce riscrive a partire dalle testimonianze dei lavoratori della Fiat-Sata di Melfi i 21 giorni dell’aprile 2004 di FIATo sul collo degli operai in lotta per i diritti sindacali contro il sopruso aziendale, secondo le formule di un teatro di narrazione di consolidata vocazione civile. La denuncia suona acuta anche per corde più sottili, nel monologo Mariacane, in cui Ilaria Drago strappa alla cronaca l’atroce vergogna della violenza di branco, e raccoglie nella voce della vittima l’inviolabile tenacia della dignità umana.
Di diversa provenienza e curriculum, i venti autori coniugano in una rosa composita drammaturgia d’autore e d’attore, secondo una costellazione le cui coordinate assecondano gli assestamenti mutevoli di una drammaturgia per la scena e di una scrittura in scena. Con esigente e attenta curiosità il Premio Riccione per il teatro guarda quindi a una rigenerazione di linguaggi che ne indaghi e avvii nuovi percorsi, e la 48^ edizione registra il dato generazionale: all’anagrafe la rosa dei finalisti è per un terzo under trenta, come recita il requisito degli aspiranti eredi di Tondelli per l’omonimo premio, a dispetto della ben più esile percentuale dei 473 autori candidatisi.