Incontriamo Giorgina Pilozzi del Collettivo Angelo Mai una sera nel maggio 2011 a Roma, in attesa delle presentazioni del progetto Civile di Teatrino Clandestino. Le parole della Pilozzi raccontano una storia, quella di uno spazio sociale che da subito diventa culturale e quindi politico. Una traiettoria che accomuna molti, e di cui l'Angelo Mai rappresenta un esempio importante non solo per la Capitale.
La prima cosa che vorremmo chiederti è di raccontarci la storia dell’Angelo Mai dalla riapertura della nuova sede in Viale delle Terme di Caracalla. Come è avvenuto il passaggio all’Angelo Mai Altrove?
Ci sono stati degli anni di buco tra il vecchio Angelo Mai e il nuovo. Dal vecchio spazio che avevamo nel rione Monti siamo stati sgomberati nel 2006 e ci sono state varie vicende prima di riuscire a entrare nella nuova sede, nell’autunno del 2009. L’altro spazio era un luogo occupato in cui eravamo entrati insieme a un movimento di lotta per la casa. è stato un esperimento appassionante: lì convivevamo con una trentina di famiglie in emergenza abitativa, era un luogo molto grande, un ex convitto. Mi fa sorridere ripensare a quando siamo entrati nel 2004: a noi che eravamo più giovani, più incoscienti, alla città sotto il veltronismo che sembrava essere illuminata. In realtà gli stessi identici problemi che avvertivamo in ambito teatrale, performativo e musicale, e che ci avevano portato ad occupare, esistono ancora oggi.
Quali sono i problemi principali di questa città?
Il nodo è questo: se a Roma si vuole avere attenzione rispetto alla scena contemporanea non si riesce a farlo se non in luoghi indipendenti, che siano occupati o autogestiti. C’è un grandissimo buco istituzionale. A pochi chilometri da qui c’è il Teatro India, uno spazio straordinario che dovrebbe essere il luogo deputato a promuovere la ricerca, nato con questo scopo, così come era nelle intenzioni di Mario Martone. In realtà non è così, per capirlo basta non solo scorrere il cartellone della stagione, ma anche notare quanto sia un luogo poco vivo per la città. Dieci anni fa il Teatro Valle aveva una programmazione attenta, si andava lì a vedere i Motus, o Marcido Marcidorjs... Da molti anni le cose sono cambiate. Per il resto Roma è costellata di moltissimi teatri privati che cercano di fare quello che possono, non solo in base ai loro gusti, ma anche alla dimensione delle sale: parliamo di sale storiche, molto piccole, che hanno una serie di limiti oggettivi.
L’amministrazione comunale si è sempre curata poco di questo mondo. In tutta la storia delle amministrazioni non si è mai riusciti a ottenere una forma di contributo per questi spazi. Per finanziare le attività a Roma si è sempre usato un escamotage poco funzionante: venivano indetti dei bandi per i quali spesso noi non eravamo idonei (mi sento di parlare al plurale perché ci sono tante situazioni diverse ma similari a quella dell’Angelo Mai). Un po’ di anni fa alcune di queste realtà si sono messe in rete. Noi facciamo parte della rete ZTL che comprende anche il Kollatino Underground, il Rialto Sant’Ambrogio, il Furio Camillo e il Triangolo Scaleno come compagnia organizzatrice. L’unico dialogo – molto positivo – che siamo riusciti a ottenere è stato con la Provincia di Roma per un progetto molto preciso, ZTL-pro, che è un progetto di produzione. Anche in questo caso, però, a livello di fondi strutturali che possano sostener il lavoro il buco resta aperto. A Roma affittare una sala prove per un giorno costa alle compagnie circa 100 euro. Così facendo un intero sistema teatrale, che è anche quello più vivo, viene annullato. O si va negli spazi occupati, dove attraverso un minimo contributo o uno scambio si riesce a provare, oppure si prova qui all’Angelo Mai, al Kollatino, o si provava al Rialto quando era ancora aperto. Non c’è davvero nient’altro. Accanto a questo problema produttivo c’è il rovescio della medaglia: Roma, questa grande metropoli così confusa, non ha più da molto tempo le sale per accogliere dei gruppi che girano in altre parti d’Italia. Non è facile qui vedere gli spettacoli di compagnie come Teatrino Clandestino o Fanny & Alexander; i Fanny li abbiamo visti a Short Theatre, ma solo grazie all’Accademia degli Artefatti, all’attenzione di Fabrizio Arcuri. Il meccanismo è abbastanza coatto da questo punto di vista: di un certo tipo di teatro si può vedere fin troppo, mentre tutta un’altra fetta è come se non esistesse. Io immagino che anche nelle università sia difficile lavorare sul teatro contemporaneo. Quando frequentavo il Dams qui a Roma avevo ancora la possibilità di andare a vedere degli spettacoli importanti per i miei studi, poi è finito tutto.
Per tornare al salto che c’è stato nel passaggio dal vecchio al nuovo Angelo Mai, quando questo spazio ci è stato segnalato e poi assegnato da Veltroni, la nostra prima richiesta è stata forte. Poiché la struttura andava tirata su praticamente ex novo – era una vecchia bocciofila in ondulato di plastica – abbiamo richiesto a gran voce che, anche se il budget a disposizione era ridottissimo, chi avrebbe disegnato il nostro spazio non fosse un impiegato del comune ma un architetto scelto da noi, una figura che fosse in grado di immaginare una sala polifunzionale.
Vi hanno permesso di farlo?
Non è andata così liscia. Ci hanno sgomberato perfino dopo aver raggiunto un accordo: lo sgombero è arrivato come un fulmine a ciel sereno, perché l’amministrazione ci aveva dato la parola che di lì a sei mesi avrebbero concluso i lavori e ci saremmo trasferiti nel nuovo spazio. Invece una mattina mi sono svegliata con la polizia intorno.
Per noi c’erano due questioni fondamentali: una era quella di avere una sala che avesse dei requisiti per il teatro che ci interessava fare, vedere e portare in questa città. Inoltre per noi era importante rimanere in centro. Non per essere trendy, ma per un percorso di senso preciso. Se adesso si gira per il centro di Roma è ancora più chiaro, ma già dieci anni fa era evidente che questa città veniva svuotata a tavolino. È forte il legame tra quello che noi cercavamo e la questione della lotta per la casa: a Roma la situazione è molto grave, ci sono migliaia di famiglie senza una sistemazione che avrebbero diritto a una casa popolare. Tutta la grandissima area del centro è sempre stata abitata da strati diversissimi fra loro, grazie al fatto che c’erano delle case popolari. Un bel giorno queste case sono state cartolarizzate, la gente è stata letteralmente buttata fuori città, in provincia. Il centro si è svuotato, Trastevere, rione Monti sono diventati quel che sono. Per noi il fatto di rimanere dentro il centro significava ribadire, soprattutto sotto il veltronismo, che questa città non è solo quella delle bellezze archeologiche, della Notte Bianca, dei grandi eventi, ma è anche un luogo dove ci si può ancora veramente incontrare. Chiaramente nella nostra lingua uno degli incontri possibili può avvenire attraverso l’arte. Su questo punto abbiamo tenuto duro.
Dall'assegnazione alla possibilità di iniziare ad abitare il nuovo spazio sono passati molti anni...
Le vicende sono state lunghissime, anche perché un altro problema fisso di Roma è quello della sovrintendenza archeologica. Per loro era impensabile, al di fuori di ogni veduta europea, che in un parco archeologico potesse nascere un teatro. Per loro il teatro era una struttura “inutile”, soprattutto in questa zona, dove sarebbe stato meglio radere tutto al suolo per farne un’area pisciatoio per cani. Noi ci eravamo incaricati di seguire il progetto direttamente, insieme a Romolo Ottaviani, un architetto straordinario che ci ha accompagnato nonostante le difficoltà. Romolo veniva dall’esperienza di Stalker, aveva lavorato con comunità rom e curde: ha avuto grande apertura e sensibilità, ha capito che tipo di comunità eravamo e che luogo creare per noi. Hanno poi bloccato i lavori mille volte, hanno fatto degli scavi, e ogni volta dagli scavi decurtavano i soldi con i quali dovevano terminare lo spazio. Poi c’è stata la vittoria di Alemanno, e qui ancora non c’era nulla. Hanno sospeso tutti i lavori pubblici per riaprire gli appalti. In quel preciso momento abbiamo davvero pensato che non saremmo più riusciti a farcela. Invece ci è arrivata la comunicazione ufficiale di ripristino dei lavori. Il posto ci è stato confermato, ma di fatto abbiamo ricevuto una struttura senza porte, senza finestre, senza pavimenti, senza nulla. Alla fine di ottobre del 2009, quando abbiamo riaperto qui, era in effetti una straordinaria e romantica capanna in un parco. All’inizio abbiamo dato una gettata di cemento sul pavimento per poterla vivere; siamo riusciti a fare qualche porta, qualche sbarramento, abbiamo messo del cellophane alle finestre e così abbiamo deciso di aprire. Il primo anno la programmazione è stata costruita con un mese o al massimo due mesi di anticipo. Di volta in volta, essendo noi completamente autogestiti e autofinanziati, cercavamo di capire quanti soldi avevamo raccolto per sistemare lo spazio, e come andare avanti.
Il vostro percorso è sempre stato caratterizzato da una gestione orizzontale, composta da molte persone...
Qui siamo in tanti, siamo un collettivo molto ampio, composto da chi fa teatro, da chi si occupa di architettura, da molti musicisti, da studenti e attivisti che hanno interesse a sostenere la causa. Una cosa era chiarissima per noi: per molto tempo avremmo lavorato tutti gratis con l’obiettivo di avere un teatro il prima possibile. Per la programmazione del primo anno sono arrivati tanti musicisti anche da fuori a suonare qui per sostenerci. Per quanto riguarda il teatro abbiamo collaborato con il Rialto, perché risale a quel periodo la sua chiusura. Unendo le forze siamo riusciti a salvare la loro rassegna per la quale si erano già impegnati. Poi sono venuti i Motus con il primo contest del progetto su Antigone. Abbiamo resistito finché nel giugno 2010, dopo la chiusura stagionale, con tutte le possibilità che avevamo racimolato, ci siamo messi a lavorare con l’architetto e dei macchinisti. Volevamo che questo spazio fosse costruito da tecnici, perché ci interessava che, pure se in questa ambientazione industriale, Il nuovo Angelo Mai avesse delle caratteristiche teatrali. Così abbiamo iniziato a costruire quello che vedete adesso: un palco modulare removibile, la tribuna, il pavimento di legno, le luci.
La stagione di quest'anno si è aperta con Bizarra di Spregelburd/Cherubini, un progetto che ha avuto parecchia attenzione...
Il testo di Spregelburd lo conoscevamo da molti anni, perché conoscevamo Manuela Cherubini che lo stava traducendo. Abbiamo deciso di investire in questo progetto insieme a Psicopompo Teatro e a fattore K di Giorgio Barberio Corsetti. Ci piaceva l’idea di impegnare tre mesi continuativi della stagione con la messa in scena di un testo nato in Argentina durante un momento di crisi che ha unito tra loro gli artisti. Ci interessava inoltre che gli attori che avrebbero lavorato al progetto potessero avere dei contributi, delle paghe regolari; che fosse anche un progetto politico. Assumendoci tutti gli sforzi economici e i rischi del caso per noi è stato importante riaprire, non solo con un teatro, ma con un progetto che fosse in controtendenza. Come a dire: c’è la crisi, ma se ci riusciamo noi, in realtà quanto si potrebbe fare in più? Durante i tre mesi di Bizarra, che sono stati molto fortunati, abbiamo costruito la seconda parte della stagione. Volendo raccontare dal nostro punto di vista cosa stava accadendo e dire quello che per noi significava aprire un teatro in questo momento, abbiamo deciso di invitare qui quelli che per noi – in alcuni casi di fatto, altri idealmente – erano dei fratelli più grandi, dei precursori e forse anche degli ispiratori del nostro lavoro. Abbiamo deciso di intitolare la stagione “Hai paura del teatro?”, in maniera un po’ provocatoria rispetto a questa città che è sempre sonnolente, anche al di là dei problemi istituzionali. La programmazione è stata inaugurata da Fanny & Alexander e finora abbiamo ospitato Pietro Babina, i Motus, Michelangelo Dalisi, Fiorenza Menni, Federica Santoro e alla fine ci saremo noi con Bluemotion, che è il nostro progetto a cavallo tra teatro e musica. È uno dei due progetti che sono nati in questi anni, insieme a quello esclusivamente musicale Collettivo Angelo Mai-Orchestra Mobile di Canzoni e Musicisti, gruppo che è stato in turné e di cui abbiamo prodotto un disco.
È molto interessante l’arco che hai descritto. Al punto in cui siete, con un portato esperienziale molto forte, e quindi competente, credi che questa vostra esperienza possa essere un modello sia dal punto di vista estetico che dal punto di vista della gestione, e quindi politico? Di cosa avrebbe bisogno per crescere?
Per noi sarebbe importante fare di questo spazio un luogo di autoreddito in cui una serie di figure professionali che lo gestiscono o che qui si stanno formando possano trovare il loro spazio. Ci interessa molto anche la questione della formazione, che qui avviene in maniera molto diretta: nel giro di un anno abbiamo visto dei giovanissimi imparare moltissime cose e diventare per noi indispensabili. Io penso che questi luoghi debbano essere fonte di lavoro. Non sono della vecchia scuola che crede che negli spazi sociali non ci debba essere autoreddito, anzi. Esistono delle forme di lavoro che sono molto creative e nascono durante la crisi, una crisi che schiaccia tutti e non prende affatto in considerazione noi che siamo dei lavoratori della conoscenza. Io credo che prima o poi le amministrazioni dovranno fare i conti con la ricchezza che questi spazi costituiscono nelle città; spazi che non sottraggono nulla ad altre realtà, perché sono endemicamente delle cose diverse: non entreranno mai in concorrenza con un teatro istituzionale, né tantomeno con un locale commerciale. Sono dei luoghi di terzo paesaggio, preziosissimi, che esistono ed esistono da molti anni, e che hanno cambiato a più battute le sorti culturali di questo paese. Parlo dei movimenti che sono alla base di questi luoghi. Se non fosse nato in quel periodo un movimento, che oltre all’Angelo Mai ha visto il Rialto Sant’Ambrogio, il Kollatino e tutta una serie di situazioni muoversi in questa città, forse tutto questo non avrebbe senso. Io non credo molto nei casi isolati, stelle cadenti che subito si bruciano, ma credo tantissimo nel lavoro in rete. Di cosa abbiamo bisogno? Che un giorno in questa città, per noi e per altre realtà, siano previsti dei fondi strutturali per la gestione degli spazi. Questo significa abbattimento dei costi vivi, delle bollette, nuovi accordi con la SIAE. È assurdo che dalla SIAE un posto come l’Angelo Mai sia considerato come un teatro, al di là di tutta la questione su copyright e copyleft, su cui si potrebbe aprire un altro dibattito. Se non si pagano i diritti i gruppi non possono ottenere l’agibilità e così, ahimé, nel paradosso diventa politico persino il rapporto con la SIAE. Per noi è una questione spinosa e per questo motivo dico che dal punto di vista istituzionale questi spazi dovrebbero avere un riconoscimento che ne certifichi la natura differente. Prendiamo il caso della somministrazione di cibo e alcolici, per la quale siamo (e non solo noi) regolarmente considerati come banditi. Fu Veltroni a etichettarci come gente che vuole invecchiare vendendo la pasta senza fare lo scontrino... una semplificazione eccezionale, non trovate?! Certo che la vendiamo senza scontrino, altrimenti come invitare Motus o Fanny & Alexander? Come costruire una stagione teatrale senza organizzare delle feste o dei dj set?
L'esempio che porti è significativo. Sembra che ormai abbiate raggiunto un buon livello di riconoscimento e frequentazione. Fare le feste e i dj set basta per produrre reddito?
Sì, ma in maniera relativa. Siamo ancora alle prese con i lavori, vogliamo che lo spazio prima di tutto diventi sicuro e mettere tutto a norma. In questo momento abbiamo deciso di investire il più possibile su questo aspetto, quindi la questione del reddito è lenta, lentissima. Però siamo sereni: ci abbiamo messo un anno a costruire quello che vedete, ce ne metteremo altri due per completarlo e migliorarlo. Quello che ci sta più a cuore è che questo spazio resti davvero un bene per la città, e siamo stufi dei soliti discorsi che ci accusano di rivolgerci solo a un pezzo di città. Va bene! Anche questo pezzo di città ha pur diritto a una vita diversa che non sia su Facebook nella solitudine del proprio appartamento! Dal vecchio Angelo Mai si è creato un gruppo foltissimo. In questi luoghi esiste ancora il tempo di parlare, di incontrarsi, di ritrovarsi a distanza di tempo.
Spesso il valore aggiunto di luoghi come questo, rispetto al semplice svago da pub, diviene talmente alto che molti li preferiscono. A parità di socialità, è chiaro che i luoghi di cui parliamo hanno una marcia in più. Forse è quando si crea questo zona intermedia fra libertà di progetto e giusto rientro commerciale che un luogo autogestito comincia a dare fastidio...
Se dovessimo pensarla dal punto di vista istituzionale resterebbe però il fatto che un locale è qualcosa di privato, attiene a uno specifico diverso. L’Angelo Mai in realtà non è nemmeno un luogo pubblico. Questo è uno spazio comunale che ci è stato assegnato, per il quale paghiamo un canone. Ciò che ci distingue da un luogo privato è una vocazione a essere “comune”: non si tratta di essere aperti solo a più discipline, ma di provare a far girare storie, persone, idee... e metterle anche continuamente in discussione, proprio perché le si vuole condividere. Qui dentro non ci sono barman professionisti, siamo noi che facciamo i cocktail (non a caso qui costano la metà). All'ingresso non ci sono buttafuori, ma noi stessi che facciamo i turni. Per noi è come se questa fosse una comunità. C'è gente che arriva e che parte, che ci passa per un giorno oppure si ferma per un tempo più lungo.
Ragioniamo per ipotetici modelli di gestione. Da una parte abbiamo l'imprenditore puro, attento al guadagno, dall'altra una via istituzionale che ben conosciamo anche per le sue devianze e storture. In mezzo c'è questa possibile terza via, che viene sostenuta “al minimo” e per tirare avanti deve per forza guadagnare. Certamente la prima e la seconda non sono condannabili a priori, dipende sempre da come vengono concepite e gestite. Per esempio ci sono alcuni spazi privati che hanno percorsi “illuminati” e di qualità, pensiamo al Bronson e all'Hana-bi in Romagna...
Credo che sia tutto misto e meticcio. In Italia ci sono degli spazi che hanno una storia simile alla nostra, che sentiamo vicini. Pensiamo al S.A.L.E. Docks di Venezia, che si occupa più di arte contemporanea ma che sentiamo fraterno. Ci sono dei circoli Arci che reputiamo vicinissimi, mentre non riusciamo a dialogare con altri luoghi che sulla carta hanno la nostra stessa identità. Per quanto la nostra programmazione sia peculiare da tanti punti di vista, io sento molto vicina la sala Vittorio Arrigoni, l'ex Cinema Palazzo appena occupato a San Lorenzo, che nasce da un movimento popolare. Basta entrare lì per avvertire un'aria di condivisione epidermica.
Torniamo alla vostra programmazione teatrale. Prima hai usato l’espressione “fratelli maggiori”, sulla quale ha forse senso spendere qualche parola in più. I gruppi che avete chiamato sono stati da voi per una settimana intera, proponendo laboratori, feste, dj set...
Noi siamo dei grandi fan dell'adolescenza, come abbiamo dichiarato nella presentazione della stagione. L’idea stessa di fratello maggiore ha a che fare con l'adolescenza. Quando sei adolescente ci sono delle figure che ammiri e consideri inarrivabili. Così in questo paese ci sono delle compagnie teatrali che ci hanno segnato, e che a volte facciamo anche fatica a definire tali, perché non sono solo teatrali. Molti di noi sono spesso stati a Santarcangelo e quello che ci ha sempre colpito dei gruppi emiliano-romagnoli è il modo in cui sono riusciti a coniugare la ricerca estetica con dei percorsi di azione che definirei politici, senza mai sottrarre senso alla scena e al rapporto col pubblico. Trovo che sia qualcosa che ha molto a che fare con l'interrogativo sul presente che tentiamo di aprire qui, attraverso gli incontri e le iniziative. C'è poi stata l'opportunità di conoscere alcuni di loro (a parte gli Artefatti, ovviamente, che sono a Roma e hanno avuto un ruolo importante nel deserto degli ultimi anni). Io per esempio ho collaborato con i Motus per il progetto su Antigone.
Abbiamo pensato che portare a Roma questi gruppi fosse importante per creare pubblico. Da una parte ci sono dei giovanissimi che stanno studiando, che hanno iniziato da poco il Dams e ne sanno poco o nulla, i professori in molti casi non parlano di questi gruppi. Dall'altra parte c'è tutto un certo pubblico romano, un po' più attivo, che si è disabituato a incontri un po' più radicali, e ha bisogno di ricostruire un quadro generazionale. É importante per noi, attraverso le opere, mostrare che qualcosa è successo e continua ad accadere, e ha il suo peso sul presente. Ci siamo resi conto che questo ragionamento, per noi così chiaro, per molti oggi non è affatto scontato. Quando oggi vediamo qualcosa a teatro non possiamo non riflettere su come certi percorsi siano stati aperti più di quindici anni fa da questi gruppi, almeno a livello di ragionamento. Abbiamo pensato che per proporre una stagione non potevamo che partire da qui, dalla nostra identità, dal teatro che amiamo, che ci interessa, dal teatro al quale siamo grati. Ci sembrava significativo però che gli artisti non portassero con sé solo un'opera. Volevamo che avvenisse un incontro reale con un pezzo di città: con chi vuole fare un laboratorio, o con chi vuole partecipare a un immaginario più festoso.
Concludiamo con la programmazione musicale. A Roma non manca l'offerta, come vi siete orientati?
All'Angelo Mai ci sono tanti musicisti, alcuni indipendenti, altri che riescono anche a girare nel mainstream. Facciamo tanti concerti e sono i gruppi stessi, quando vengono qui, a chiederci di portare dei progetti particolari, sperimentali. I Marta sui Tubi, per esempio, hanno proposto il loro progetto Arte sui Tubi. C'è poi un nostro progetto, curato da Francesco Forni e Armando Pirozzi, che si chiama Caracallas Total Show. Ogni mese c'è un tema e una band residente, formata di volta in volta da musicisti diversi e da ospiti che vengono da tutta Italia. Ci sono attori e scenografie. I musicisti vengono prima a fare le prove, si tratta di collaborazioni informali tra musicisti di band diverse. In generale, il nostro orientamento è sempre più verso il site specific. C'è infine un pezzo di programmazione musicale che ci portiamo dietro dal vecchio Angelo Mai legato agli improvvisatori, artisti che lavorano su scala nazionale. Si tratta in ogni caso di qualcosa di molto organico, quasi mai ci sono eventi o concerti completamente scollegati dal resto della programmazione.