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Dipende da noi. Cinque spettacoli di Terni Festival 2012 hello
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Si arriva in città e, nel corso principale, ogni lampione reca cartelli promozionali di Up to you – Terni Festival 2012. Nella prima grande piazza venendo dalla stazione si erge un immenso gonfiabile: potrebbe assomigliare agli scivoli di gomma da luna park, ma avvicinandosi si notano cupole che paioni fiori, punte che sembrano comignoli, rigonfiamenti che descrivono un interno fatto di tante stanze. Proseguendo lungo la via ci si ferma in Piazza delle Repubblica, dove un gruppo di persone vestite di nero sta procedendo in fila indiana, come in marcia. Loro sono i Public Movement, collettivo israeliano che nel nome reca impresso quel tentativo di portare fuori il teatro dai teatri, verso gli spazi urbani.
Guardando il programma, e attraversandolo interamente per una sera, si ha l'impressione che Up to you sia stato quest'anno il festival italiano più europeo, almeno dal punto di vista della quantità. Le parole d'ordine: partecipazione, esperienza, sogno, meraviglia, dichiarazioni di intenti già espresse nel titolo della rassegna, “dipende da te”. Dipende da noi, quindi, sollecitati a fruire spettacoli che senza le azioni del pubblico non potrebbero avere luogo. Dai cento cittadini coinvolti da Ana Borralho e João Galante in Atlas ai bambini chiamati a divenire per una sera critici gastronomici (Eat the street), dallo spettacolo che non ha mai avuto luogo ma che impone agli spettatori di discuterlo (Generique del colletivo W) al teatro di operazioni lavorative in E.I.O di Maria Baroncea, Dragana Bulut, Eduard Gabia, in cui si può scegliere se agire “sulla scena” a fare o dalla parte di chi guarda. Già alla fine degli anni '90 il critico Nicolas Bourriaud parlava di Estetica Relazionale, spiegando come l'opera dell'arte stesse perdendo la vocazione a produrre oggetti, per spostare il suo fuoco nella relazione, nell'incontro. La sensazione di oggi, attraversando le proposte di Terni ma non solo, è di trovarsi di fronte a un forte disorientamento, a un'arte che fatica a trovare una sua posizione, oltre che a prenderla. Se abbiamo ormai introiettato le dinamiche partecipative della comunicazione mediatica, in cui è stato evidente uno spostamento del ruolo pubblico da semplice fruitore a creatore di contenuti, quale è stata la reazione delle arti della scena, per statuto fondate sulla relazione? Certamente una proliferazione di proposte “Up to you”, che già da molti anni sono al centro delle programmazioni dei festival europei. Eppure, preso atto di questo spostamento, a restare è un certo sentore di inconsistenza, come se ci fossimo troppo facilmente accontentati di una proliferazione di spostamenti formali, senza domandarci cosa si potesse celare dietro ai meccanismi, forse convinti che fosse nata una nuova forma mentre si stava “solamente” discutendo il fondamento delle arti sceniche, la relazione. 
I Public Movement ci chiedono di ascoltare delle coppie di opposizioni urlate al megafono, e di spostarci nella piazza in base alle nostre preferenze. Si va da annotazioni geopolitiche (Europei o Italiani? Israele o Palestina?) a note di colore massmediatico (Tiziano Ferro o Laura Pausini?), da autodefinizioni giocose (Sei intelligente o sei arrapato?) a scherzosità italianissime (Berlusconi o Grillo?). La lista di coppie, con i relativi spostamenti del pubblico, è tutto ciò che avviene in Positions: da una parte della piazza scegliamo Laura Pausini, dall'altra Tiziano Ferro, sospinti in rettangoli di spazio antistanti grazie a corde che vengono mosse a ogni chiamata. Qualcuno non sa decidere, o contravviene alle regole stando nel mezzo, ma è ripreso dagli attori che non ammettono una “non-scelta”: l'arte è in grado di cambiare la politica, o l'arte non è in grado? Eterosessuali o omosessuali? Perdoniamo o dimentichiamo? Per finire con un ammiccante logica binaria autoriflessiva: Questa è arte. Oppure: questa non è arte. Certo che si tratta di arte, solo che la domanda è mal posta. Ci si dovrebbe chiedere quanto tale operazione artistica sia in grado di dirci qualcosa di profondo rispetto alle nostre scelte, a quello che crediamo di scegliere. A quanta libertà mascherata crediamo di avere nell'attuale di consumi. Alle scelte che non immaginiamo più di poter prender nella bolla della crisi economica. Il dispositivo, fra l'altro sostanzialmente identico a quello messo in atto da Roger Bernat nel suo Domini Pùblic [la recensione di R. Sacchettini], è forse troppo semplice per andare oltre la soglia del gioco, o dell'intrattenimento.
Tornando sui nostri passi, ecco ricomparire il gonfiabile: si tratta di Exxopolis, un Luminarium del collettivo Architects of Air. Entrando dominano i colori accesi: verde smeraldo, rosso fuoco, blu marino. Ci si può sedere sulle pareti morbide, si può scattare qualche foto, osservare i bambini che corrono. Arte pubblica qui intesa come attrazione, per trascorrere una mezz'ora nell'incanto.
Per arrivare al Caos, l'Opificio Ex-Siri divenuto da qualche anno il cuore pulsante delle attività del festival, è necessario attraversare il fiume della città e varcare la soglia di un grande cancello aperto, che segnale l'origine industriale della struttura. 
Tu_Two di Tamara Bartolini e Michele Baronio ci accolgono all'interno di un'autovettura ferma, con i vetri oscurati. Una ragazza occupa il posto di guida e un ragazzo quello del passeggero. Nell'oscurità udiamo un blob sonoro che spinge a riflettere sullo sfascio sociale, politico, antropologico del nostro paese. Da Pasolini a Benigni, le voci raccontano di una borghesia italiana allo sbando, di una coscienza critica che sta scomparendo. Dunque, che fare? Abbracciarsi, baciarsi appassionatamente, e così trovare le risorse per non mollare: parte una canzone d'amore, ci vien chiesto di agitare delle mini torce che ci sono state consegnate per colorare l'atmosfera, mentre un mini-amplificatore da abitacolo fa suonare una chitarra. Ritratto del fare artistico di oggi, con una nota malinconico-generazionale che sarebbe forse utile scrollarsi di dosso, per mettere in luce una ferocia qui sciolta in languidi riff.
Per fare fronte al disorientamento, come si diceva,  si sono messi in discussione i canoni della relazione teatrale, in molti casi reinventandola in contesti solitamente non di rappresentazione. In Tu_Two ci troviamo a condividere uno spazio angusto con gli attori, che tali rimanevano, mentre il Ciel del Catalano Jordi Galì evoca una naturalità e un artigianato che sembrano essere sul punto di scomparire. Si tratta di una semplice azione di trenta minuti, in cui a partire da lunghi bastoni di legno e da metri di corda il performer costruisce una struttura che s'innalza per 12 metri. Alcune domande possono effettivamente emergere, mentre s'assiste alla costruzione: di quanti manufatti stiamo perdendo l'esatta conoscenza relativa al funzionamento? Che cosa, ognuno di noi, saprebbe costruire partendo da zero? Quanto è importante costruire oggetti che “non servono a nulla”? Ma, anche in questo caso, a restare più di tutto è la fascinazione per una pratica, per qualcosa che forse non avevamo mai visto fare, ma che solo a tratti riesce a farci pensare.
Nel recente Stati di Connessione (Franco Angeli, 2012), Giovanni Boccia Artieri descrive il pubblico odierno come «post-spettatoriale»: mentre i mezzi di comunicazione di massa tradizionali intendono lo spettatore come terminale ultimo, punto finale della comunicazione, oggi tutti noi avvertiamo l'esigenza di «performare»: dagli User Generated Content alla sensazione ormai naturale e quotidiana di avere un pubblico in tutti i nostri atti (dai blog ai social network). Essere spettatori in ogni i momento della nostra vita ci ha abituato a considerarci costantemente “sulla scena”, a vivere e raccontare le nostre vite come eventi, agendo con la consapevolezza di avere una platea che ci guarda. È inevitabile che questa “rivoluzione” stia in qualche misura influenzando la produzione artistica, dal momento che i suoi effetti non possono che avere una ricaduta culturale. E, inevitabilmente, è nella relazione che si è indagato molto, spostando i confini del contratto, mettendo in discussione gli elementi di base della rappresentazione: lo spettatore e l'attore. Se gli anni zero possono essere “serviti” per prendere coscienza sulla natura della relazione teatrale, dall'interno della crisi dei '10 non sono sembrate ancora emergere idee che possano farci avanzare, che dalla presa di coscienza inducano a una qualche azione, a un qualche mutamento. Ci si sente parte di una comunità che riflette su se stessa, sulle regole che si è data per incontrarsi. E poi? Si trascorre qualche ora facendo cose che a teatro normalmente non si fanno, o vedendo azioni molto distanti da tutto ciò che è tradizione. Ma cosa resta? In molti casi poco, troppo poco. Eppure basterebbe che tornassimo a casa con un'ombra, con un sospetto. Almeno quello di un'ossessione a partecipare sempre e comunque, di una prescrizione a esserci e a rappresentarci che sembra essere divenuta naturale. Qualcosa che forse non stiamo comprendendo a sufficienza, e che proprio grazie all'arte vorremmo poter discutere per trarne conclusioni provvisorie.
Tra le proposte di una sera, ciò che resta davvero utilizza meccanismi di visione frontali, in cui chi guarda sta seduto in platea. Ed effettivamente è proprio rivolgendosi alla platea che That's the story of my life, della spagnola Macarena Recuerda Sheperd, cerca di forzare i limiti per un sabotaggio, per una messa in discussione di ruoli e aspettative. Si racconta una storia d'amore. Una ragazza va in cerca delle tracce della madre, che non ha mai conosciuto, inizia a fare teatro e s'innamora di un uomo. Tutto però presto si consuma. La ragazza è la stessa Macarena, ma all'inizio la sua voce ci avverte: «Questa storia è autobiografia, quindi nulla è reale. Si tratta di una storia reale raccontata da menzogne». Nello spazio campeggiano due grandi tavoli, occupati da apparati audiovisivi che riprendono le azioni in tempo reale. Nessuno si alza, nemmeno la protagonista, perché tutto è ricreato attraverso dei teatri di posa in miniatura: piccole sagome di cartone a cui vengono apposti dei baloon dagli operatori, bigliettini da visita che porgono piccoli racconti e che vediamo riprodotti su un maxischermo sul fondo, video in stop-motion girati con la tecnica al nero in cui la sagoma della protagonista compie azioni minute nel boccascena di un teatro. In un flipbook, ripreso mentre vien sfogliato in tempo reale, scorre il «riassunto del mio lavoro performativo»: la ragazza lentamente si spoglia e ci guarda. In cerca della madre, una sera Macarena incontra l'uomo di cui si innamora. È seduto dietro a lei, in un teatro del tutto simile al nostro. Una delle telecamere sceglie uno spettatore in platea, a Terni, e il suo volto compare sullo schermo. Tutti lo vediamo mentre i baloon lo costringono a formulare apprezzamenti sulla protagonista. Si torna sui tavoli e viene aperto un libro pop-up, «Il mio lento processo di amarti». Le pagine scorrono lente, le sagome di cartoncino emergono sulla superficie e, pagina dopo pagina, il volto della Shepherd sorride, diviene trasognato. Tirando alcune linguette gli elementi della pagina si spostano: gli occhi si accendono, il cuore batte. Fino alla consunzione, all'amore che finisce, al ripetuto e inesorabile «dirti di no» della voce della performer, mentre vediamo una serie di fototessere che scorrono in video con l'immagine lentamente svanisce: «Dirti di no a fornirti un motivo, a provare di nuovo, a restare con te, a smettere di parlarti, a farla facile affinché tu mi odi, a continuare a essere noi, a giocare che non succede nulla, a che lui non esiste, a leggere gli stessi libri, alle tue storie surrealiste». Durante lo svolgimento, la performer è rimasta seduta, spesso dandoci la schiena, e ha preso il microfono solo per leggere la lettera della madre, che le consigliava di non avere fretta. Mentre i video a passo uno si rivolgevano a noi, suggerendo la corretta fruizione dell'opera: «Questo è il momento in cui tu ti commuovi».
In That's the story of my life possiamo vedere il meccanismo e la sua risultanza sullo schermo, siamo di fronte alla costruzione di un effetto e al suo contemporaneo svelamento. Il video invade, costringe uno di noi a divenire personaggio della narrazione, ma resta un elemento che replica qualcosa che accade altrove e che abbiamo la facoltà di vedere. Capiamo come si fa, come si ottiene, e così possiamo lasciarci andare a un trasporto emotivo che non gioca mai sporco, e che ci permette per davvero di partecipare.
Si esce da teatro stupiti, meravigliati, divertiti. Sapendo di avere assistito a qualcosa che mette in discussione una forma per allargarne i confini, per farla parlare, per fare in modo che si adatti come un guanto al discorso, al racconto che si ha da condividere. Allora, forse, il disorientamento dal quale siamo partiti può stare tutto qui. Nella difficoltà a far corrispondere i discorsi alla loro risultanza formale. Nell'insistenza su una partecipazione che non affonda quasi mai in un lato oscuro, che raramente sceglie di dichiarare una crisi. Una partecipazione che sentiamo un po' tutti come naturale, necessaria, inevitabile, ma che per adesso, almeno nelle arti sceniche, sembra avere prodotto novità più che altro sulla superficie visibile delle opere, quella più apparisciente. Come questo lato in luce possa contribuire a un ragionamento critico, possa in altre parole non solo assecondare lo spirito dei tempi ma metterlo in discussione, resta una domanda aperta e poco affrontata. Up to you, sebbene visto da questo parzialissimo osservatorio di un giorno (altre cronache su Krapp's Last Post e su Doppiozero), ha avuto il merito di fare il punto su opere “disorientate”, costruendo un panorama e in qualche modo assecondandolo. Le pagine finali del catalogo contenevano infatti un gioco: piccole sagome di un uomo e una donna da ritagliare, con a seguire un guardaroba da applicare a piacimento corredate da citazioni. Per gioco, si può diventare Che Guevara, Hitler, La Regina d'Inghilterra, il gruppo di hacker Anonimous e molti altri. Se si stia “solo” giocando a partecipare, o se le potenzialità critiche di questo spostamento verranno raccolte è la domanda da porsi oggi, magari rielaborando il quesito del festival: in che modo, per l'arte, dipende da noi? Terni prosegue la sua ricerca attorno ad Up to You anche nel 2013 e, c'è da scommetterci, resterà irrinunciabile momento per incrociare i movimenti delle arti sceniche europee.


di Lorenzo Donati


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