Questo articolo fa parte di Speciale danza. Della piattaforma e altro a cura di Altre Velocità, in lavorazione da dicembre alla fine del 2012
Sono Francesca Pennini regista del CollettivO CineticO, compagnia che ho fondato nel 2007 come tessuto mobile di collaborazioni, partecipazioni e competenze. Ci occupiamo di arti performative in quel terreno ibrido e difficilmente classificabile che somiglia alla danza contemporanea, al teatro di ricerca e all’arte visiva senza però riuscire ad appartenere propriamente a nessuno di questi campi. Mi sono formata come danzatrice e ginnasta lavorando nell’ambito della danza contemporanea per Sasha Waltz & Guest, ma da sempre come autrice sono interessata all’eterogeneità disciplinare e al lavoro sul movimento con corpi provenienti da mondi differenti. Mi sono dedicata a varie discipline artistiche, principalmente legate alla visione, che ho praticato in percorsi paralleli e intersecati.
Tra disegno, scultura, video, musica la danza però ha sempre avuto per me un carattere estremamente attraente legato alla povertà dei mezzi necessari. Il giusto “grado zero” dell’avere il proprio corpo sempre con sè. Del poter praticare ovunque poiché si ha lo strumento addosso e attivo. Di non poter smettere di praticare poiché l’esistenza stessa del corpo lo mantiene attivo e non ne esistono silenzi se non quelli dell’attenzione. Una pratica basica e portatile come strategia contro la noia. Dalle danze di incroci, schivate e “partnering involontario” tra la folla cittadina a quelle invisibili che si possono fare durante la fila alla posta, fatte di partiture ritmiche per contrazioni di diaframma e pavimento pelvico. Dall’osservazione delle drammaturgie di distribuzioni spaziali tra i passeggeri della metropolitana alla collezione di esperienze percettive nel proprio inventario di possibilità, consentendo il recupero della sensazione del prelievo del sangue nella vita dei propri gomiti o dell’ustione nella densità dei propri gesti. Con gli studi coreologici il mondo intero si copre di informazioni di flusso, peso, spazio, tempo etc... generando un sistema di interpretazione dei fenomeni che esula il palcoscenico e può abbracciare l’intera sfera vitale. Il corpo è materia prima della danza ed è in pratica costante. Proprio grazie a questo rapporto a grado zero di strumenti e supporti la danza diventa una strategia di estensione, arricchimento, sfaccettatura non solo della sfera artistica ma dell’esistenza stessa dell’individuo. I corpi stimolati alla danza (non esclusivamente quelli dei danzatori ma anche quelli degli spettatori) sono potenziati, accessoriati nella vita stessa. Si tratta di applicazioni meccaniche (corpi danzanti ovvero più mobili, più forti, più coordinati, più allenati) ma anche e soprattutto di crescite sottili e creative (più consapevoli, più sensibili, più espressivi, più sensuali, più organizzati). Vedere e fare danza aumenta le connessioni neuromuscolari modificando sostanzialmente le possibilità di un corpo. Ma non solo, la danza è in grado di inventare nuove accezioni della corporeità stessa con la capacità di rivoluzionare gli aspetti politici del corpo e di generare corpi insoliti, diversi, nuovi.
Dunque andare a teatro è pericoloso.
Mi piace tenere sempre a mente (come autrice e come spettatrice) che non è possibile dare per scontato ciò che avverrà e che l’esperienza teatrale è viva, condivisa e potenzialmente deflagrante. Proprio poiché significativo il teatro è un luogo di rischio. Ci tengo a sottolineare il carattere attivo di tutti i soggetti coinvolti, non solo di chi la danza la fa, ma anche di chi la fruisce. Gli spettatori sono toccati dai processi di rivoluzione e crescita ma anche e soprattutto sono generatori di cambiamento.
Assunto il fatto che il teatro non avviene sul palco ma in quello spazio di mezzo, di relazione e interazione, che c’è tra la scena e il pubblico; allora questi due soggetti si modificano vicendevolmente. È una sollecitazione a due direzioni. Credo che l’artista debba prendere in considerazione lo spettatore in un ottica di stimolo e crescita reciproca con la necessità di “pungere” quello scarto che rimbalza tra le opere e i fruitori facendo avanzare entrambi a sfide nuove, alzando millimetro per millimetro la soglia di ciò che è possibile fare e guardare. Personalmente considero atto di apertura e generosità dell’opera artistica non l’offerta di un terreno riconoscibile ma la generazione di un fenomeno sismico in cui potersi perdere e reinventare. L’immagine dei miei possibili spettatori influenza in modo sostanziale la creazione.
Un bacino di spettatori chiuso, settoriale e in alta percentuale “professionale” (di addetti ai lavori) genera un circolo vizioso in cui le creazioni e le fruizioni si riflettono a vicenda. Dialogano sulla base di un vocabolario e di informazioni ormai condivise rischiando l’alimentarsi dell’autoreferenzialità e del sigillamento in un mondo di nicchia.
La natura degli spettatori modifica la natura delle opere e la lettura della loro esecuzione.
Per questo come autrice sento necessario attivare processi di formazione di nuovo pubblico non solo per quanto riguarda la vita economica e la sostenibilità della danza contemporanea ma anche per garantire l’esistenza stessa della ricerca in quanto stimolo e soggetto in dialogo al quale rapportarsi.
Esiste lo spettatore contemporaneo?
E se non esiste uno spettatore contemporaneo come può esistere una danza contemporanea?
Per riportare queste riflessioni verso le funzioni della danza vorrei raccontare l’esperienza della nostra ultima produzione, che trovo particolarmente significativa riguardo alle connessioni e le ricadute all’esterno del mondo coreutico. Per il progetto
Per forgiare ed allenare la loro attitudine e le loro capacità è stato ideato un percorso didattico accelerato ad hoc che ora stiamo esportando anche al di fuori della produzione di
[ FRUIZIONE COME FORMAZIONE PER L’AZIONE ]
Il primo principio di questo percorso consiste proprio nella fruizione come formazione. Il percorso di “addestramento alla scena” inizia con l’essere spettatori, condizione fondamentale per poter essere performer. Il calendario prove dei nostri nuovi arruolati comprendeva alla pari momenti di visione di spettacoli e lavoro fisico in sala. Li abbiamo portati a vedere generi differenti e modalità differenti di lavoro (dal festival sperimentale alla prova aperta, dalla ripresa di spettacoli di repertorio contemporaneo decine d’anni dopo a performance in live streaming su internet). In ogni occasione si lavorava su una modalità attiva con consegne specifiche, consapevolizzando i processi personali di elaborazione, cercando di dare densità e parola alla propria esperienza come spettatori, senza forzare una interpretazione del lavoro visto. Nessuno dei ragazzi coinvolti era abituato ad andare a teatro (le loro esperienze si limitavano alla visione di Plauto con le scuole medie o simili) e non solo la sostanza degli spettacoli, ma anche la vita stessa nel teatro e i regolamenti taciti ormai assorbiti erano novità totali... sono arrivati a chiedermi ad esempio per quanto tempo avrebbero dovuto applaudire!
Il confronto con loro è stato estremamente stimolante anche per me, poiché riuscivano a notare tutto ciò che veniva dato per scontato e, nonostante la mancanza di preparazione, hanno cominciato a dare parola a pensieri complessi e raffinati aumentando di conseguenza le sfaccettature delle loro possibilità di visione.
Nonostante non vengano abitualmente considerati un target di riferimento, gli adolescenti reagivano con estrema curiosità, fascino, divertimento e sete di stimoli diventando in breve tempo appassionati attivi e critici. La voce si è sparsa a rizoma e anche i compagni di classe e gli amici (addirittura i ragazzi che all’audizione non erano stati selezionati) hanno seguito il gruppo vedendo lavori di Antonia Baehr, Jerome Bel, Enzo Cosimi, Bill T. Jones, Sasha Waltz, Yasmeen Godder, Lutz Forster, Alessandro Sciarroni etc... come anche di giovani coreografi al primo studio.
Andare a teatro era fico.
Viverlo in maniera partecipata e di gruppo era fico.
Dibattere, confrontarsi, farsi destabilizzare (“destabilizzante” era l’aggettivo più gettonato per descrivere l’effetto dei lavori) era un eccellente sabato sera. Un’esperienza prima nuova, anomala e sconvolgente poi sempre più affine e articolata.
[ MIMESI COME ESERCIZIO DI PRESENZA SCENICA ]
Il secondo principio affrontato – e che credo significativo per il carattere immersivo della danza nella vita e negli spazi al di fuori di quelli “dedicati” – consiste nel lavoro performativo in luoghi urbani ed in sistemi regolati complessi (come ad esempio “la piazza”) in modalità completamente mimetica. L’esecuzione ad esempio di un materiale coreografico determinato (“fissato”) in un contesto specifico in modalità mimetica costringe a modulare la propria presenza in maniera sottile. Performare in un ambiente urbano senza “disturbarlo” (ovvero senza essere rilevati come performer o come elementi anomali) richiede grande consapevolezza e permette di avere un feedback diretto dal contesto sull’efficacia della propria esecuzione (se si risulta anomali l’ambiente reagirà). Alcune volte abbiamo proposto vere e proprie missioni da portare a termine nella propria vita privata. Durante il percorso i ragazzi hanno eseguito delle partiture coreografiche in modo mimetico in classe durante le lezioni (filmandosi con il cellulare dall’astuccio), al supermercato, a tavola con i genitori, in piazza e addirittura durante spettacoli di altri artisti. La pratica performativa via via diventava parte della loro vita e influenzava la loro lettura del mondo circostante. Inserisco tra parentesi una piccola provocazione: considerando le abilità tipiche di un performer e il tipo di attitudine che stavamo stimolando (ovvero: l’allenamento fisico, la capacità di gestire e guidare l’attenzione dei propri osservatori, l’interazione con un contesto regolato – anche urbano – sia seguendo che rompendo le norme attive, la gestione delle emergenze continue, la capacità di improvvisare, il recupero di materiali improbabili e appartenenti a campi diversi, la coordinazione perfetta di tempo e spostamento anche in relazione agli altri, la capacità di attingere e “rubare” partiture fisiche molto velocemente, etc...) ci siamo chiesti a quale altro lavoro o figura professionale potesse somigliare il Performer.
Un criminale.
Essere performer è un allenamento per diventare criminali...
Un discreto piano B per il futuro e un ironica constatazione sull’inquadramento lavorativo di artisti e danzatori! Chiusa parentesi con un mezzo sorriso.
[ CINETICO4.4 ]
Un altro punto di forza del percorso è stato l’impiego del dispositivo cinetico4.4, un gioco da tavolo che abbiamo brevettato l’anno scorso e che permette un esercizio creativo, performativo e osservativo finalizzato ad un’indagine e una messa in discussione dei ruoli [autore, perfomer, spettatore, “spiegatore”] facendo emergere le scelte personali con una modalità ludica e permettendo un’analisi concreta e divertente di un microcosmo teatrale (alcuni di voi lo conoscono e hanno avuto modo di giocarci attivamente).
Cinetico4.4 è stato usato con persone appartenenti agli ambiti più disparati, con età compresa tra i 10 e i 60 anni circa, da contesti di psicologia del lavoro alla vera e propria formazione professionale di danzatori e coreografi. La comprensione del funzionamento delle parti coinvolte arricchisce l’esperienza teatrale di uno spettatore, moltiplica le possibilità di lettura.
[ ENIGMI CORPOREI E CODICE CINETICO]
Infine, l’ultimo punto, riguarda il lavoro sui corpi di non danzatori. Per me hanno avuto sempre un fascino enigmistico di scoperta, lettura e comprensione. Proprio questa veste da rebus e la cura per la specificità di ciascun corpo ci hanno portati a sviluppare il codice cinetico, un metodo di composizione ed elaborazione di materiali coreografici che consente di filtrare il corpo interpretandolo per gradi di libertà articolare e di riorganizzarne coordinazioni nello spazio e nel tempo.
Attraverso questi principi chiave i ragazzi del progetto
iniziato ad esistere nelle loro quotidianità. Sono stati le “cavie” di un progetto condiviso e supportato da tante realtà italiane1 che non si è concluso con il debutto e le successive repliche ma sta diventando una pratica trasmissibile e ha generato l’avvio di progetti analoghi con nuovi adolescenti in in Italia ed Europa.
Per il mio sentire si tratta di un investimento che in questo periodo storico ha un grosso senso, sia ad ampio che a piccolo raggio. A questo proposito e per chiudere il mio intervento legato alla fruizione e agli effetti della danza vorrei leggere una parte di un testo che ha scritto Demetrio, diciassettenne performer di
«Questa esperienza, iniziata per gioco, si è rivelata una sorpresa del tutto inaspettata. Venendo alla prima audizione, non avrei mai immaginato di poter fare parte di questo progetto, ma soprattutto non mi interessava neanche farlo. Forse per volontà del destino sono stato preso, e da lì è iniziata questa grandiosa avventura. Dico grandiosa non per esagerare, ma perché la considero effettivamente tale: infatti oltre ad avermi insegnato aspetti fondamentali di una performance teatrale come la presenza scenica, la cura di ogni gesto, ecc... mi è servita e mi ha aiutato molto in svariati aspetti della mia vita, anche in quello sportivo. Grazie a questo progetto e alle sue modalità di lavoro sento di essere maturato profondamente. Per quanto riguarda l'aspetto psicologico, sento di avere aumentato la mia consapevolezza e di essere più sicuro di me; sto imparando anche a lavorare in un modo (piu' professionale) che prima non sarei assolutamente riuscito a perseguire ed infine anche a rispettare e venire incontro alle esigenze di tutti i miei compagni in questa avventura. Per quanto riguarda l'aspetto fisico il progetto mi ha veramente aiutato tanto: sono migliorato proprio grazie ad esercizi del tutto estranei alle mie esperienze precedenti, che mi hanno fatto stimolare parti che prima non sapevo neanche esistessero. Mi è piaciuto tantissimo l'approccio ad alcune sequenze di danza e di yoga. Non sapendo cosa fossero, ma avendone solo sentito parlare avevo una gran dose di pregiudizio, poi mi sono dovuto ricredere perché è una pratica fighissima che penso mi aiuterà molto anche nella scherma! Oltre ad avermi aiutato in tutti questi aspetti, questa esperienza mi ha fatto conoscere un mondo nuovo, il mondo del teatro: ambiente che mi piace veramente tantissimo, penso più di ogni altro fino ad ora conosciuto. Sono infatti sicuro che anche al termine del progetto vorrò restare vicino a questo mondo, anche se non da performer diretto sicuramente come spettatore abituale. Inoltre la possibilità di fare residenze è stata fenomenale, luoghi in cui si lavora duro ma ci si diverte anche come non mai e si condivide la vita insieme a fantastiche persone che considererò importantissime per il resto della mia vita. Gli spettacoli fatti mi hanno dato molto: mi hanno fatto conoscere uno stato di adrenalina che non avevo mai sentito prima, nemmeno durante finali schermistiche, è uno stato assurdo di carica che poi esplode positivamente – in genere – sulla scena. Dicevo prima che mi aveva migliorato anche dal punto di vista sportivo, perchè anche se mi allontanerà, a volte, da allenamenti o gare, mi ha dato una maturità di testa e una carica interna fondamentale. [...] Vorrei concludere con un augurio: spero veramente che questa esperienza sia solo all'inizio perchè non vorrei mai smettere di viverla, però anche se dovesse finire, perchè purtroppo finirà voglio che tutti sappiano che è stato una delle migliori esperienze di tutta la mia vita. Carico marcissimo!!! [ D.V. ]»
Francesca Pennini
1Un ringraziamento particolare va ai partner del bando Ripensando Cage che hanno sostenuto e creduto in questa scommessa: l’Università La Sapienza di Roma in collaborazione con la Fondazione Romaeuropa, L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino, Armunia/Festival Inequilibrio, CSC Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa ed alle realtà esterne al bando: Teatro Comunale di Ferrara, Festival miXXer del Conservatorio di Ferrara, Festival Il Giardino delle Esperidi.