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La critica. Un limite ragionevole hello
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Riceviamo e con estremo piacere pubblichiamo il contributo di Giulio Sonno, redattore della rivista Paper Street, nato dopo il convegno pistoiese "Il Teatro della Critica". La scelta di Sonno di pubblicare il contributo anche su Altre Velocità ci è parso un bel segnale di collaborazione al quale speriamo di potere dare continuità.
Dopo il convegno di Pistoia sono usciti alcuni contributi degni di nota, che linkiamo a fondo pagina.


Maurizio Cattelan, Untitled (Manhole), 2001

Dopo qualche momento di elaborazione, distacco e infine spontaneo ritorno, accolgo volentieri l'invito di Piergiorgio Giacché, Elisa Sirianni e Altre Velocità a proseguire il dibattito inaugurato dal convegno pistoiese Il teatro della critica dello scorso novembre. Perché? Ecco, il punto – e la natura di questo contributo – vuole essere proprio interrogarsi innanzitutto sul “perché”.

• Contro l'isteria dell'urgenza

Come accennavo, a premermi non è la presunta urgenza del tema: personalmente diffido sempre delle emergenze. C'è bisogno di critica? Certo, ma non “più di prima”, di pensiero critico c'è sempre bisogno. Non esiste un momento storico in cui si sia potuto affermare “ora ne abbiamo abbastanza, possiamo anche contentarci”. Parrà una boutade,  ma la minaccia "buona" dell'urgenza è una delle armi più pericolose di adesione coatta: incalzare a prendere una posizione solo perché la situazione sarebbe più grave del solito. Ma cos'è questo “solito”? il passato? e quale? da quando a quando? E siamo sicuri che il presente di x anni fa fosse allora come lo percepiamo ora che è passato?

Il pensiero critico è fondamentale sempre, perché fa fronte con lungimiranza (retro-spettiva e pro-spettiva) all'isteria dell'urgenza, attuando un processo (mini o macro, secondo l'oggetto in questione) di storicizzazione, vale a dire di relativizzazione temporale. Il pensiero critico è fondamentale proprio perché pone un limite all'illimitato. Illimitato, ad esempio, è l'illusione dell'indistinto “solito” o del “passato” di cui sopra; illimitato è il concetto di presunta oggettività, di verità assoluta, di bene, male, giusto, bello, utile, ecc.; illimitato insomma è ciò che ci illudiamo sia o fosse la realtà ma che di fatto è solo una nostra proiezione ideale (un soggettivismo  de-soggettivato, la trascendenza immanente, il grande altro, …).

Il pensiero critico interviene, allora, come ciò che individua, esamina, evidenzia e circoscrive l'ideale nel contingente e il contingente nell'ideale. È interessante notare, a questo proposito, che il verbo greco krino (da cui crisi deriva) prima di traslare ai suoi diversi significati figurati, stesse innanzitutto per l'operazione contadina di battitura dei cereali (la trebbiatura) e di separazione del grano dalla pula. E sempre nell'antica Grecia, la krysis era la divinazione dei sogni, la pratica di isolare “la visione” dai fumi del sonno e interpretarla, tentando di osservarla e comprenderla senza lasciarsi condizionare eccessivamente dal suo contesto di partenza.


Marcel Duchamp, Fontaine, 1917

• A cosa serve la critica?

Questo, per intenderci, è il mio vocabolario concettuale di base. Per me – per come la intendo e tento di praticarla – la critica è una pratica di de- e ri-contestualizzazione, di osservazione ironico-diffidente, di rallentamento e riappropriazione del tempo. Per rispondere alla tipica provocazione "A cosa serve la critica?”, direi “A emanciparsi dai condizionamenti”: un'emancipazione costante e perennemente irrealizzata. Emancipazione che, a ben guardare, nel nostro presente potrebbe rivelarsi particolarmente utile.

Ritengo, infatti, che una delle cause principali dell'impropriamente detta “crisi generale” contemporanea sia da individuarsi nel grande abbaglio democratico-neoliberista per cui “potere” (fare qualcosa) sia diventato sinonimo di “dover volere” (o ancor peggio “voler dovere”). Con l'immediatezza virtuale di Internet, poi, e la distopia del 2.0, il libero arbitrio ha subito un ulteriore grave colpo – come dire: perché desiderare qualcosa quando posso averlo ancora prima di immaginarlo? È per l'appunto il meccanismo seducente dell'illimitato. Non sorprende infatti, come è tipico dei cicli e ricicli della storia, che ultimamente gli individui stiano ritornando a imporsi dei limiti più stretti, raccogliendosi attorno a pratiche o ideologie che ribadiscono con più convinzione o severità ciò che si può (o dovrebbe) e ciò che non si può (o non si dovrebbe). Ed è facile intuire come alla base di queste controtendenze e/o alternative più o meno virtuose ci sia proprio un pensiero critico.

• Maturare il pensiero critico

Ora. Una buona domanda potrebbe essere: come coltivare e "sfruttare" al meglio il pensiero critico? In primo luogo riconoscendolo, poi accogliendolo. Per riconoscere il pensiero critico ci vuole un buon allenamento: bisogna infatti essere curiosi e rifiutare qualunque idea univoca di certezza. Il pensiero critico non serve infatti né a dirimere questioni né a sentenziare ma a problematizzare.

Man mano, poi, che si prende confidenza con esso, distinguendolo attentamente da tutto ciò che è opinione o pensiero non disinteressati (cioè di interesse), sarà il caso di accoglierlo negli altri e praticarlo a nostra volta. E questo è il passo più difficile, perché – tanto più in clima di tensione socio-economica –riconoscere e allontanare i nostri stessi condizionamenti e al tempo stesso fidarci dell'onestà critica altrui, richiede notevole fermezza.


Marina Abramovic, Rest Energy, 1980

• Critica vs. non-critica

Senza cadere nella trappola dell'idealizzazione, si può allora distinguere, per cominciare, ciò che è critica da ciò che non lo è (senza alcun giudizio morale, beninteso). Se l'abito non fa il monaco, la veste editoriale non fa il critico. Concretamente: i consigli della settimana, le classifiche, gli encomi, le invettive, le tirate poetico-sentimentali, le descrizioni prolisse e via dicendo, non sono – a mio avviso – critica ma informazione generica, oppure letteratura, cronaca, giudizio appassionato, consigli per gli acquisti; essi, cioè, non esercitano né stimolano pensiero critico, invitano piuttosto alla rapida fruizione o all'adesione. Ma la critica non consiglia spettacoli – suggerisce visioni.

Fatte le debite distinzioni, c'è poi la critica effettiva, che in maniera più o meno riuscita, più o meno coinvolta, più o meno vanitosa, più o meno attendibile tende appunto a problematizzare: incide lo spettacolo, separa la pula dal grano secondo giudizio, offre un'interpretazione, stabilisce relazioni, stimola dubbi, pensieri, curiosità.

Sfatiamo allora qualche luogo comune. La critica non deve piacere o dispiacere, quello tutto al più è lo stile in cui viene espressa (ma si tratta di altra questione). Anche da lettori, infatti, dovremmo sempre avere altrettanto spirito critico per cogliere e capire a nostra volta ciò che è grano e ciò che è pula: fa un gravissimo errore, ad esempio, chi condanna a priori (le critiche di) Franco Cordelli per i suoi toni imperiosi e tranchant; per quanto stilisticamente discutibile, ciò che egli scrive pur merita di essere vagliato.


Paul McCarthy, Tomato Head, 1994

• La funzione critica

La critica, poi, non dovrebbe neanche creare consenso ma complessità. Chiaramente ognuno tende ad affezionarsi a una firma piuttosto che a un'altra – sacrosanto –, pur tuttavia non dovrebbe mai condividerne aprioristicamente le osservazioni sulla scorta di una tacita intesa emotivo-intellettuale-ideologica (“mi è "piaciuto" una volta, mi piace sempre”). Spesso, invece, ci si muove sull'onda del consenso facile, della fidelizzazione "furbesca": purtroppo non sono rari i casi di parzialità o dubbia indulgenza delle penne critiche o sedicenti tali che a volte sembrano guardare più al proprio tornaconto (il numero di lettori/sostenitori/follower, di vendite, di clic, di “mi piace”, di condivisioni, insomma di approvazione e visibilità) che al contributo reale che offriranno tanto ai lettori quanto agli artisti; così come non pochi sono gli artisti recensiti o gli operatori teatrali ospitanti che guardano alla critica prima di tutto come a un servizio di autorevole promozione "gratuita" e/o appagante celebrazione, fregiandosi di scampoli di articoli o ritagli di tamburini (di quella stessa carta stampata perennemente accusata di decadenza) alla rincorsa di vanagloria.

Al contrario, il pensiero critico, superando le categorie di piacere e di bello, dovrebbe aiutare a infrangere questa esasperazione della vanità. L'elogio appassionato fa un pessimo servizio, sempre: prima lo si capisce prima si potrà avere un sano dibattito critico condiviso. Perché? Perché una critica non è un certificato di approvazione, né una bolla da untore, né tantomeno un giudizio assoluto: è una di tante possibili opinioni. E opinioni diverse, anche diametralmente opposte, possono tranquillamente convivere, anzi, devono farlo. Come mai allora c'è questo terribile vizio al pensiero unico? Della lotta alla Ragione (cioè di chi la vuole avere)? Cosa ne è della tanto ventilata democrazia, della diversità? Cosa ne è della dialettica?

Il dibattito critico non dovrebbe mai, a mio avviso, toccare la sfera emotiva – se non per il fatto che siamo fatti tutti di carne e nervi e ci appassioniamo –; personalmente fatico molto a capire che senso abbia giudicare pesantemente da una parte e offendersi dall'altra se non a portare avanti uno spassoso ma sterile gioco macchiettistico di società, che altro non è se non un fatuo passatempo alla stregua della cronaca rosa – attrae molto ma dura assai poco.

• La reazione critica

È chiaro, vivendo nel libero mercato, ormai ci siamo abituati tutti al meccanismo dell'offerta speciale, dell'imperdibile, dello scandaloso, della promozione invadente che reclama la nostra attenzione, insomma di quel sensazionalismo che di fatto tiene davvero poco in stima la nostra intelligenza. Ma scartarsi da questo inesauribile flusso di stimoli non è impossibile né sono necessarie conoscenze o mezzi particolari; basta semplicemente fermarsi e chiedersi: “Ne ho bisogno? Mi interessa davvero? La mia è una fruizione compulsiva o consapevole?” Come scrissi recentemente la prima maniera di esercitare il pensiero critico è quella di non-fare, di rifiutarsi cioè di agire secondo una logica incalzante di domanda-risposta: praticare l'arte di non leggere (un articolo, un sms, una mail, un post) così come l'arte di non vedere uno spettacolo, un film, una puntata, una mostra, una partita, e via dicendo: perché tanto il mercato (ché di mercato di attenzioni si tratta) produce volutamente più di quanto riusciremo ad acquistare/fruire, cosicché all'ennesimo richiamo – sia per desiderio o per senso di colpa – non sapremo resistere. Ecco, il pensiero critico serve a porre un limite consapevole: a scegliere con la propria testa e non per induzione: a stare di fronte all'illimitato e a non sentirne la vertigine.


Yves Klein, Le saut dans le vide, 1960

Ben vengano i convegni, gli incontri con gli artisti, i laboratori di critica e quelli di formazione del pubblico, ma credo che innanzitutto abbiamo bisogno tutti quanti, individualmente, quotidianamente, di esercitare l'arte scomoda del pensiero critico – su di noi e sugli altri.

Qualche esempio?
Accogliere le vere critiche disinteressate e muoverne di sincere a nostra volta.
Sospendere il giudizio immediato.
Esprimere un'opinione solo e solamente quando ne abbiamo maturata una.
Rinunciare all'immediatezza e recuperare la lentezza.
Rifiutare l'agire per dovere e adottare l'agire secondo coscienza.
Distaccarsi pervicacemente dal meccanismo del consenso, della svendita e del sentimento effimero: uno spettacolo non è necessariamente riuscito solo perché il pubblico lo applaude né è di poco valore solo perché piace a tutti; così come una critica non è dura solo perché fa domande scomode, né tantomeno è brillante perché incensa chi ci piace o stronca chi non ci piace. L'unica critica "buona" è quella che ci porta a riflettere.
Insomma, il pensiero critico serve a emanciparsi: a scegliere e non a essere scelti: a coltivare sani dubbi e non a lucidare certezze.

Non sono un amante delle citazioni, ma per concludere vorrei fare un'eccezione. Se, come scriveva Walter Benjamin nell'Angelus Novus, «uno dei compiti principali dell'arte è stato da sempre quello di generare un'esigenza per la cui piena soddisfazione non è ancora giunto il momento», uno dei compiti principali della critica, allora, sarà quello di intercettare tale esigenza e saperla filtrare.

Giulio Sonno

 

 

Su Il Teatro della Critica, leggi anche il nostro report

Il Teatro della Critica, un racconto del convegno di Pistoia 

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Scene Contemporanee: #Focus. Il teatro della critica: il teatro delle soluzioni?
Fattiditeatro: Con senso non è consenso. La rivoluzione è nella relazione (promemoria ottimista e nonostante il Natale)
Dramma.it: Il teatro della critica 
Rumor(s)cena: Critica e critici:una dialettica aperta a tutti 

   

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