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Fermarsi. Il teatro senza la politica hello
Published Date: 0000-00-00 00:00:00


Ero partito con l'idea di scrivere una lettera aperta a Elio De Capitani e Ferdinando Bruni. Cari Elio e Ferdinando, avrei scritto, avete visto cosa avete combinato? Avrei scritto a Elio e Ferdinando a nome del Teatro dell'Elfo ma pensando anche al Teatro Due, le strutture che hanno vinto il ricorso che prevede la cancellazione del DM 1 luglio 2014, ma il mio rivolgermi a loro era simbolico, a tutti infatti vorrei scrivere, o almeno ai tanti interessati alle sorti del teatro e della danza italiani. Cari dell'Elfo, avrei scritto, perché non avete tentato di costruire un percorso collettivo, perché non avete aperto una battaglia culturale, attorno al decreto? Perché, per esempio, partendo dalle relazioni finali delle Commissioni, ricche di annotazioni di lavoro e proposte operative, non avete provato a organizzare confronti, scontri, dibattiti? Perché i tentativi di mediare, modificare, correggere sono stati fatti in modo così frammentato, diviso, solitario? 

Stavo per scrivere poi è arrivato un Tweet di Franceschini. Dice che il Ministero si è appellato al Consiglio di Stato, il quale ha sospeso gli effetti della sentenza. Dunque: scongeliamo le erogazioni in attesa che il Consiglio si esprima. E se si esprime dando ragione al Tar, rimettiamo tutto nel congelatore?
 


Scrivo questa lettera guardando a un sistema teatrale italiano non così dissimile da una “politica” incapace di ascoltare, distante dalle scelte, dai pensieri, dalle azioni di chi quotidianamente fa vivere l'arte e il teatro. Questo balletto di ricorsi sentenze appelli non concede discussioni, manifesta l'assenza di confronto e condivisione, agisce per sé senza pensare agli altri. Manifesta l'assenza della politica. Agire per via giudiziale significa infatti puntare alla risoluzione del conflitto unilateralmente, senza mediazione, ottenendo un “no” senza sfumature, con l'effetto di cancellare tutti i “sì” che il comparto teatrale aveva ottenuto. In un paese in cui non cambia mai nulla, infatti, anche grazie al DM 1 luglio 2014 si erano create le condizioni per un avanzamento. Molte realtà che stimiamo avevano visto aumentare i loro contributi; l'accoglimento di alcune prime istanze di finanziamento fra gli under 35 aveva riconosciuto per la prima volta compagnie che lavorano da oltre dieci anni; alcuni Centri di produzione avevano visti premiati i loro sforzi con nuove risorse; la voce promozione aveva riconosciuto 15 realtà con parametri esclusivamente qualitativi (proprio uno degli assunti di base che il ricorso contesta, una riforma solo quantitativa); fra questi “sì” ce n'erano alcuni che stavano iniziando a dare aria, a indicare traiettorie di cambiamento. E ora questo “no”, ma ahimè anche questo appellarsi al “no”, è indice di un rigurgito conservativo, indice della temperatura di un paese certamente malato (come scrive Andrea Porcheddu). La malattia, però, mi pare sia solo in piccola parte negli algoritmi, nei cluster, nelle gabbie e negli obblighi di Nazionali e Tric. La malattia mi pare stia in larga parte nell'immobilismo, nella fatica a innescare meccanismi che producano un cambiamento. La malattia è non riuscire a sostenere adeguatamente la portata innovativa dei progetti, oltre alla legittima autorevolezza di chi conserva e tramanda le tradizioni. La malattia è non scommettere sull'innovazione, sul tentativo di spingersi oltre il noto e consolidato, a livello di strutture ma anche di linguaggi. Comunque sia, adesso è tutto sospeso dal Consiglio di Stato, dopo l'annullamento del Tribunale Amministrativo del Lazio.



Mi chiedo: ci sarebbe stato un diverso modo per arrivare a una soluzione condivisa, oltre al ricorso e all'appello? Un via non giudiziale, magari come nella mediazione sociale, dove un terzo senza interessi in campo tenta di dirimere le controversie delle due parti in causa? Io credo di sì, avremmo potuto usare questa occasione come formidabile momento di confronto o di scontro per capire a che punto è la notte. Per conoscerci, per mettere in connessione esigenze, interessi, necessità, impellenze. Avremmo potuto sentirci per una volta “collettività”. Qualcuno invero ci ha provato, come “Le buone pratiche” di Ateatro. Fondamentali discussioni attraverso incontri e convegni, percorsi insostituibili che hanno raccolto pareri, espresso critiche, proposto aggiustamenti. Come nel link che riportiamo di seguito, un'approfondito studio sugli impatti del Decreto dopo un anno dalla sua applicazione. I dati riportati, dove emergono per esempio l'aumentare delle produzioni ma al contempo il diminuire delle giornate lavorative (si produce di più, ci si stabilizza poco), sono elementi di certo preziosssimi per chi dovrà pensare al futuro del teatro italiano da un punto di vista legislativo


 

Un siffatto metodo di confronto, che prefigurerebbe una modalità di "modifica collaborativa", appare però poco compatibile con la via giudiziaria. Nero o bianco, questa impone, con l'effetto collaterale di ridurre in uno stato di semi-povertà i tanti non garantiti.

Spesso ce la prendiamo con la politica dei partiti, dei dirigenti, dei coordinatori che non ascoltano, non capiscono, non vogliono vedere. Eppure c'è anche una politica quotidiana, ci sono azioni e relazioni, ci siamo “noi”. Nelle nostre città usciamo da campagne elettorali dove chi come noi si occupa di cultura spesso è rimasto in silenzio, si è limitato a guardare o al massimo a esprimere  incoraggiamenti;  noi che facciamo cultura da tempo ci siamo fatti “scippare” il lessico, le prassi, spesso anche gli strumenti dalla politica, quella dei partiti che spesso non ascoltano, non capiscono, non vogliono vedere. Dimenticandoci che il nostro aprire spazi, incontrare pubblici, forgiare e mostrare strumenti sono uno dei modi di fare politica. Difficili, faticosi, non garantiti. Ce lo hanno fatto dimenticare, ma anche noi ci abbiamo messo del nostro, quando abbiamo smesso di agire “per tutti”, sopraffatti dalla mole necessaria alle personali sopravvivenze. Chi non ci si è ritrovato, in questi anni?

Poi, certo. A quanto si legge, il ricorso ha colto nel segno, riconoscendo al DM 1 luglio 2014 alcuni “vizi” che lo invalidano. Allora anche a Franceschini dovrei scrivere, e prima ancora a Nastasi, il direttore generale che era in carica al momento della scrittura del DM. Dovrei chiedere loro: perché questo Decreto sembra essere costruito con il cartone, così il primo vero temporale lo spazza via? Siamo un comparto minoritario, incapace di costruire azioni condivise che abbiano valore culturale e politico... a pensar male viene il sospetto che lo abbiate fatto apposta. A pensar bene viene comunque da allargare le braccia, la tentazione di lasciar perdere non è così lontana, che ci pensi qualcun altro. Chi ce lo fa fare?
Da dove scrivo: Capo VII – Azioni trasversali - Articolo 43 – Promozione – Formazione del pubblico

Il Dm 1 luglio 2014 ha riconosciuto Altre Velocità, l'associazione che ho fondato nel 2005, fra i soggetti finanziati con un progetto di formazione del pubblico. Si chiama Crescere spettatori ed è articolato in laboratori di sguardo nelle scuole superiori, monitoraggi con insegnanti, inchieste sulla formazione del pubblico, convegni e pubblicazioni. Chi ce lo fa fare? Mi sono spesso chiesto, trovando una parziale ma decisa risposta nel lavoro con ragazzi e ragazze di mattina, in classe. Un contributo ministeriale (ma anche regionale o comunale, quando c'è) è il riconoscimento che qualcosa che si sta proponendo possiede finalità pubbliche. Un incentivo, uno sprone, un monito, oltre che un sostegno concreto.

Un tempo si diceva “sporcarsi le mani”, si parlava di una “critica militante”. Oggi dovremmo parlare di “critica missionaria”, e l'iperbole si potrebbe adattare anche ad altre figure che lavorano nello spettacolo dal vivo. Dobbiamo però avere chiaro di non essere eroi, né di volerlo diventare. Ci sono dei limiti che dovremmo imparare a non superare, cominciando a guardare altrove, anche ad altre aree, discipline, situazioni non teatrali dove spendere le nostre energie, iniziando a “dire di no”. Non siamo così importanti. Quello che facciamo è piccolo, di certo guardiamo al “grande”, al teatro tutto, ma restiamo sempre piccoli, forse necessari ma piccoli.
Quotidianamente capita di incontrarci, di condividere pensieri con colleghi coetanei e non solo, persone che hanno ben chiaro in testa cosa si deve fare per riportare il teatro e le arti sceniche in generale un po' meno ai margini. Compagnie, attori, artisti, danzatori, coreografi, persone che frequentano workshop in giro per l'Europa e altri che li organizzano nei piccoli spazi cittadini a disposizione. Hanno chiaro, abbiamo chiaro cosa fare e anche come farlo, solo che non è possibile farlo. Troppe sono le strutture intermedie con le quali interfacciarsi, i mediatori dai quali ottenere contratti, collaborazioni, permessi. Troppi i direttori di strutture, festival e rassegne che a parole concordano, poi si ritraggono quando si alza il tiro, perché non ci sono soldi, dicono, tranne che per lo stipendio di chi tiene in piedi la macchina delle tante fortezze vuote. Allora accade che si finisca quasi sempre per fare solo “qualcosa” di quanto si era immaginato, adattandosi ai contesti, cioè alle risorse esigue o nulle; qualcuno a volte ti permette di attivare un progetto, un altro te ne fa fare un pezzetto da un'altra parte... e a forza di ridurre, rivedere, scalare, trasferire si rischia di trasfigurare completamente l'obiettivo. Ne vale ancora la pena, dunque? Dobbiamo consumarci fino all'osso, adattarci ai fazzolettini di spazio che restano, di anno in anno sempre più piccoli, sempre meno garantiti? Forse ci stiamo sbagliando, stiamo impiegando le nostre migliori energie in qualcosa che i nostri stessi colleghi fanno fatica a riconoscere.

Parlo di me perché è quello che tutti i giorni faccio, ma penso ai mille tentativi che quotidianamente devono inventarsi dei modi per sopravvivere e che provano portare il teatro un po' meno ai margini, (i progetti di Stratagemmi, Teatro & Critica, Il Tamburo di Kattrin, i laboratori e percorsi attivati da Massimo Marino, Andrea Porcheddu e molti altri colleghi, gli incontri di Ateatro ecc). Certo non è l'annulamento o la sospensione di un decreto che cancella tali tentativi, eppure questo sentenziare-sul-decretare-che-poi-in-appello-si-sospende credo ci debba interrogare tutti. Penso ai percorsi che sollecitano la nascita di comunità di spettatori. A chi accoglie e sostiene gli artisti, aprendo gli spazi per residenze, un anello insostituibile per la produzione. A chi tiene aperte le sale, organizza rassegne e stagioni provando a non fermarsi ai linguaggi consolidati. A chi dirige le strutture, anche quelle più grandi, cercando però di rinnovare, aprire, sperimentare, offrendo agli spettatori domande vere, mettendo chi guarda di fronte alle questioni di oggi attraverso linguaggi non pacificati, non “fermi”. Mi pare che questi progetti il DM 1 luglio 2014 stesse iniziando a sostenerli. Forse siamo di fronte a un bivio. Anche qui, però, non c'è nulla di eroico. E proprio per questo occorre domandarci: chi ce lo fa fare? A chi serve? Forse è meglio tornare a fare “solo” gli spettatori, solo gli artisti, solo i programmatori di stagioni e festival? Noi che scriviamo dobbiamo dunque tornare alle “semplici” recensioni, come nel '900, così da alimentare un brusio di fondo che rischia di confermare lo status quo? Perché è di questo che si sta parlando: non di me, non di “noi” ma del teatro stesso e della possibilità che fra qualche decennio sia un po' meno ai margini. Sapendo che adesso, qui, c'è un teatro “annullato”, “illegittimo”, “sospeso”.

Forse, come scriveva Massimo Conti di Kinkaleri su Facebook qualche giorno fa, dovremmo fermarci. Raccogliere motivazioni e incrinature. Ritrovarci in uno slancio collettivo ma con pensieri e desideri netti, e dargli corpo. Capire cosa si può fare, collettivamente. Sostenere e diffondere percorsi e progetti che indicano simili direzioni, ma anche discuterli, metterli in crisi. Dividerci e litigare per costruire. Altrimenti, da soli, forse non ne vale più la pena.
 

 


di Lorenzo Donati
 

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