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In cerca della drammaturgia. Il progetto Write di Caspanello, in Sicilia hello
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Il monastero di Mandanici, in provincia di Messina, si raggiunge risalendo una vallata verde e al contempo arsa, lasciando la costa jonica a Roccalumera. Come molti luoghi sopravvisuti allo scorrere del tempo, fra saloni al piano terra e corti interne aleggiano diverse storie, come quelle di porte murate che celano stanze segrete e fatti violenti. Di notte si scorgerebbe ancora oggi una lucina accesa in quella stanza cieca, nel silenzio. Il monastero, risalente al 1100 e ora passato alla gestione comunale, la scorsa estate è stato abitato da un manipolo di drammaturghi impegnati a dare sostanza letteraria e teatrale ai loro peculiari “fantasmi”, i personaggi del teatro. Sono stati in residenza per il Progetto Write, dal 4 al 9 luglio 2017, invitati dal direttore artistico Tino Caspanello, insieme allo staff  composto dall'artista e attrice Cinzia Muscolino, dal direttore organizzativo Gigi Spedale della rete Latitudini, dalla responsabile dell'osservatorio critico Vincenza Di Vita, dalle interpreti Antonella Babbone, Giorgia Karvounaki, Renata Salvadore. Si è trattato del greco Konstantinos Bouras, degli italiani Renato Gabrielli, Mario Gelardi, Niccolò Matcovich, del catalano Josep Maria Mirò, delle siciliane Margherita Ortolani e Sabrina Petyx e del francese Grégory Pluym. Anche altri teatranti che avevano preso parte alla prima edizione del 2016 sono stati coinvolti, fra questi Turi Zinna, Rosario Palazzolo, Saverio Tavano. Infine un nutrito gruppo di attori e attrici è stato selezionato per dare corpo e voci ai testi, in mise en espace serali al monastero e nelle piazze del paese (Mario Aversa, Milena Bartolone, Francesco Bernava, Tino Calabrò, Roberta Catanese, Marielide Colicchia, Domenico Cucinotta, Angelo D’Agosta, Mauro Failla, Alice Ferlito, Giovanna Manetto, Lelio Naccari, Alice Sgroi), coadiuvati e fotografati dagli studenti Adriana Frassica, Giusyrene Pellegriti, Marco Sergi del Dipartimento di Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Messina. Ai lavori ha infine preso parte anche il Prof. Haun Saussy dell’Università di Chicago. Dunque una decina di drammaturghi impegnati a scrivere per il teatro, collettivamente e individualmente, pensieri e poetiche in confronto reciproco. Con Write Tino Caspanello si è inventato un progetto senza eguali in Italia, che ha la capacità di dirimere l'eterna diatriba fra letterarietà del testo teatrale e sua “vocazione scenica”, perché in questo progetto sono presenti entrambe le dimensioni a nutrire vicendevolmente il processo di lavoro, mettendo la scrittura teatrale a stretto contatto con il suo pubblico. Gli autori progettano, pensano, scrivono tutti insieme e a coppie; ogni giorno una coppia di autori scrive due testi su un tema comune. Alle 16 arrivano gli attori e le attrici, dunque le parole progettate si caricano di intenzioni, vengono ascoltate, viste, verificate, “inventate” sulla scena e sotto la direzione degli stessi drammaturghi che divengono in qualche misura anche registi.
Nel presente articolo cerchiamo di raccontare quanto abbiamo osservato sul campo in Sicilia, invitati a fare parte dell'osservatorio critico diretto da Vincenza Di Vita. Senza pretendere di raccontare le giornate in forma diaristica ed esaustiva, cercheremo di mettere a fuoco alcune chiavi di lettura che permettano di discutere la drammaturgia teatrale, convinti che Write e la sua articolazione ci permettano di ragionare sul particolare arrivando al generale.



1. Le tracce del terrorismo: Gelardi, Ortolani, Mirò
Il punto di partenza del lavoro di Margherita Ortolani e Mario Gelardi è l'immagine di un segno di bruciato a terra: ciò che resta dopo un fallito attentato in una banchina della metropolitana di Bruxelles.  Nel pomeriggio arrivano attori e attrici, sono un gruppo nutrito di giovani uomini e donne, prevalentemente professionisti. Gelardi ha deciso di partire da alcune chiacchiere di conoscenza, per poi distribuire le parti; Ortolani si è messa al lavoro dopo alcune brevi presentazioni, affidandosi più alla conformazione fisica dei presenti; prima i due drammaturghi si erano accordati per dividersi i “personaggi” a partire dagli attori: due donne e un uomo per il teatrante napoletano, due uomini e una donna per l'autrice e attrice di Palermo.
Per prima cosa Ortolani legge il testo, dal titolo L'uomo con la capra sulla testa, insieme agli attori e all'attrice, dice di “ascoltarlo” per la prima volta anche lei. Dice che nel suo lavoro ha affrontato più volte il tema dell'iconoclastia. Racconta l'origine del suo testo, introducendo le due immagini che lo sostanziano: la cancellatura dei segni di bruciato e un vecchino visto in Senegal che si era costruito una casetta di fortuna, sul cui tetto era sistemata una capra. Spiega qualcosa dei caratteri dei personaggi, di come li ha visti mentre li scriveva. L'”uomo uno” è indaffarato ma questo suo daffare cela una vacuità di fondo, la “donna” è isterica. Li qualifica dando un sostrato di immaginazione, poi li “ascolta” nei corpi degli attori correggendo la direzione via via, fornendo indicazioni di lettura. Il testo di Margherita Ortolani è un botta e risposta concreto e metafisico sulle tracce lasciate dalle cose, con l'evidente riferirsi alla traccia del corpo che esplode. L'andamento non è lineare, due istanze costruiscono uno spaesamento prossimo al grottesco. Da un lato l'uomo con la capra sulla schiena, dall'altro la presenza della donna isterica, intenta a ripetere frammenti di dialogo fino a “esplodere” in un crescendo vocale in cerca di amore ed evasioni. Dice di cercare solo sushi extensions e cucine fushion.
Le differenze fra i due lavori sono sostanziali, eppure viene naturale considerarli come due parti di un dittico. Spostandoci nello spazio antistante la corte centrale, si trova una chiesetta davanti alla cui facciata un diverso trio di attori dialoga attorno all'impossibilità di cancellare le macchie di sangue, battibeccando su una conseguenza apparentemente futile rispetto alle diverse implicazioni che seguono l'atto di un kamikaze (una signora deve passare, dovrà fare tutto il giro attorno?). Siamo distanti da tensioni plumbee realistiche, il principio di realtà emerge dopo la tragedia. Nel primo testo si vedevano ancora tensioni contrapposte in atto, qui in Anche dopo una festa c'è sempre qualcuno che deve pulire di Mario Gelardi tutto è accaduto, tutto è dichiarato, tutto “perduto”, conferendo così alla realtà una paradossale consistenza.
Il terzo giorno è la volta di Josep Maria Mirò, drammaturgo catalano quarantenne  tradotto in molte lingue straniere, abituato a concepire meccanismi drammaturgici a orologeria dove viene messa in discussione la capacità stessa del teatro di afferrare verità stabili. Il suo testo, L'intruso, mette in scena una coppia in vacanza in una città non precisata, inquieta perché durante il giorno c'è stato un attentato terroristico. L'uomo riguarda le foto scattate durante il giormo e nota la presenza di un giovane che ronza attorno alla sua compagna; le chiede se abbia parlato con uno sconosciuto, lei si stupisce poi risponde che sì, ha incontrato uno sconosciuto, ci sono state delle avances, ora ascoltiamo il suo racconto e sorge il sospetto che l'uomo misterioso possa essere il terrorista... tutto accade in un battere di ciglio, in una scrittura la cui superficie visibile è quotidiana e realistica e che nelle sue pieghe potrebbe nascondere il “male”, se i personaggi volessero fermarsi e ascoltarlo, scegliendo di indagarne la sostanza. Mirò legge e rilegge il testo con gli attori, li ascolta raccontare le “storie” che immaginano dietro le battute, alcune le asseconda altre le introduce lui stesso, scavando insieme a chi recita in cerca di una verità dell'interpretazione, che in questo caso è la ricerca di un'intenzione che suoni plausibile per il drammaturgo. Un vero lavoro di interpretazione del testo condotto con piglio dialettico e inevitabilmente maieutico.




2. Di che cosa parliamo, quando parliamo di drammaturgia?
Perchè in Italia i testi non girano, non si diffondono? Si lo chiede Tino Caspanello in incontri plenari organizzati la mattina nella chiesa del monastero. Durante le mattina ci si confronta, ci si conosce, ci si scambiano pareri e si scrivono appunti per un testo collettivo. Josep Maria Mirò racconta di progetti di valorizzazione di testi catalani che portano all'emersione dei nuovi autori: dopo i primi debutti se si ha valore si entra nel circuito ufficiale. Gregory Pluym racconta di un sistema francese molto protetto ma dove è difficile incontrare percorsi non nazionali. Nel prendere parte al dialogo riflettiamo sul fatto che in Italia la figura del drammaturgo che scrive testi preventivi ha via via perso pregnanza. La nostra è una storia di attori che scrivono, di scrittori di scena e di compagnia, di testi che sono già orientati a una vicina messa in scena. Dunque non “manca la drammaturgia”, al contrario! Manca la possibilità che questi testi vengano diffusi anche nella loro identità letteraria, oppure mancano gli incontri fra testi teatrali letterari con registi e compagnie, che quando non possiedono gli “scrittori” al loro interno sono portati a scegliere testi della tradizione. Renato Gabrielli sottolinea come questa sia una qualità del teatro italiano, una specificità che va vista come una ricchezza. Dal suo punto di vista di docente di drammaturgia (alla Civica Paolo Grassi) tale specificità sta producendo nei giovani la consapevolezza di potere essere alla bisogna sia scrittori-preventivi sia scrittori-registi. Ne è esempio diretto Niccolò Matcovich.
Trascriviamo qui una citazione di Ferdinando Taviani, nel fondamentale Uomini di scena, uomini di libro, 1995: «Il sistema teatrale rende di regola superflua o addirittura controproducente la ricerca drammaturgica. Si fa un gran parlare del bisogno di nuovi testi, ma nella realtà dei fatti questo bisogno non c'è: il teatro finanziariamente e istituzionalmente più forte si giustifica sempre di più come luogo della messinscena d'una letteratura drammatica preesistente, classica o anche contemporanea, purché preventivamente avvalorata da un prestigio letterario o dal dibattito culturale. Gli spettatori di questo teatro non sono affatto interessati alle novità drammatiche (come invece lo erano quelli del secolo scorso o d'inizio secolo) ma alla cultura del teatro, alla sua tradizione. Sono gli ensembles o i gruppi che operano fuori dal sistema maggioritario ad inventare ogni volta il senso ed il soggetto dei propri spettacoli attraverso una scrittura che però tende ad integrare il lavoro sulla pagina e il lavoro in scena, secondo criteri che non coincidono più con la produzione di pièces regolari». Allora Write diventa maggiormente interessante, e crediamo possa anche essere replicato come modello, perché è il concreto tentativo di “risolvere” senza mediare il conflitto storico tra tradizione attoriale italiana e autorialità puramente letteraria, un conflitto che abita costitutivamente e in modo manifesto il teatro italiano, come sostiene Dario Tomasello in una recente importante pubblicazione (La drammaturgia italiana contemporanea. Da Pirandello al futuro, Carocci, 2016). Qui in Sicilia le due istanze si mescolano nello stesso processo “istantaneo”, ascoltando l'uno parte delle ragioni dell'altro, mettendo in atto un processo creativo che porta i testi verso la scena e anche sulla pagina.



3. Fra le righe dell'ironia: Konstantinos Bouras
Il punto di partenza per i testi del secondo giorno è una poesia di Costantinos Kavafis, La città. Il lavoro con gli attori del drammaturgo greco, Konstantinos Bouras, vira da subito le parole del poeta verso iperboli grottesche. Le vocali si allungano, le voci declamano, gli attori sono invitati a eseguire gesti ampi, a esagerare i toni delle improvvisazioni. Ne esce una sorta di apologo sulla poesia, prima messa sotto accusa nella figura del drammaturgo per avere istigato la nascita di sentimenti negativi, per quanto rimasti a livello “mentale”, poi assolta e accolta in Sicilia, esempio di una terra che protegge. Un gruppo di squinternati personaggi organizza un improvvisato tribunale popolare che ha il compito di salvare il poeta. Così le parole di Kavafis, che recano il tormento dello sradicamento, diventano superficie per un divertissement con rincorse nel cortile, declamazioni e personaggi-macchiette. Viene da domandarsi perché si viri verso una tensione ironica che sembra non volersi prendersi del tutto sul serio. Per dire cose che “pesano”, dense, è prima necessario passare attraverso il viatico della leggerezza? Si tratta di una condizione necessaria per raccontare l'oggi, o è forse una specificità di talune proposte di teatro europeo? O è una condizione favorita da tale dimensione collettiva, in cui la scrittura deve emergere in brevissimo tempo come esito del processo di collaborazione di persone che non si conoscono? Renato Gabrielli appunta che queste condizioni di residenza favoriscono la nascita di meccanismi “giocosi”, che fungono in qualche modo da schermo. Perché per tendere verso la tragedia o la disperazione ci vorrebbe probabilmente più tempo.



4. Il complotto
Nel gruppo allargato di scrittura, che si raduna al mattino, il punto di partenza del complotto si presta per un ritratto d'ambiente attraverso personaggi tipici di una bizzarra commedia all'italiana da condominio. Una scrittura che nelle caratterizzazioni dei personaggi sembra guardare alla fiction televisiva con ipotetici antecedenti in certa drammaturgia nazionale-regionale. C'è il playboy ventenne ladro, ci sono la coppia che si è conosciuta al karaoke, l'erborista vegana isterica, il portiere filosofo, il badante che non parla l'italiano ecc.
Le discussioni attorno al cerchio dei drammaturghi procedono per aperture e specificazioni, assecondando le intuizioni di ognuno, i desideri, le proposte, le ipotesi. Quasi subito una domanda si fa largo: ma chi ascolta e guarda con chi si identifica? Con i personaggi che complottano o con quelli che subisono il complotto? Volendo tale prospettiva può essere ribaltata. I protagonisti della piecè collettiva sono artefici del complotto, o ne sono vittime? La risposta condivisa da tutti va nella direzione di un complotto difficile da incasellare, dove non è chiaro chi subisce e chi agisce.
A margine si può in effetti pensare da un lato all'impossibilità del complotto, visto in questo caso come opzione eversiva di un intero paese. Non è difficile pensare alla strettissima attualità, e ai discorsi di Wu Ming su movimenti politici come argine che hanno incasellato il conflitto impedendo che questo esplodesse in forme violente. In Italia l'opzione di una ribellione (di cui il complotto potrebbe essere preludio) non si concepisce, non si contempla. E pare in qualche misura significativo che questi drammaturghi vedano il complotto come una nebulosa indefinita.
Un complotto passivo è infatti quella sensazione nella quale quotidianamente pensiamo di essere tutti immersi, tutti tramano contro di noi per fini oscuri che ci escludono dalle stanze dei bottoni. Una delle tipiche post-verità di oggi. Dunque che gli spettatori si identifichino con chi subisce (e che i protagonisti subiscano) è condizione “quotidiana”, neorealistica forse. Stare dalla parte della vittima (Daniele Giglioli, Critica della vittima, 2016) ci assolve da una serie di responsabilità e spesso anche da doveri connessi a posizioni più attive. Stare dalla parte di chi subisce il complotto ci fa diventare immediatamente “buoni”.



5. La Sicila di Matcovich e Petix
Due sguardi incrociati parlano della Sicilia, o probabilmente elevano il riferimento geografico a orizzonte tematico. In un caso il viaggio anelato e mai messo in pratica, dentro a un ordine rituale dove il dialetto si fa l'unica lingua possibile per una pennellata antropologica. È il testo R.I.P. di Sabrina Pètix, nel quale il ritrovamento di un animale morto si fa diretta metafora di un presente immobile asfissiante, dove i figli hanno nomi dei santi venuti da lontano ma incapaci di scardinare un tempo fermo, dove il tempo che scorre fa immaginare un destino simile alla volpe che giace a terra. Sull'altra sponda c'è lo sguardo forestiero di Niccolò Matcovich, che consegna agli attori e attrici un testo pieno di reticenze, una pagina fitta di parole con una sola voce monologante. In Mi manda Nici c'è una donna che sostiene di essere stata mandata di “Nici”, parla di lui come se non ci fosse più, ricorda il suo incitare alla resa e la necessità di adottare uno sguardo da fuori che sappia osservare, vedere le cose accadere, e così svelare che al di là del monte non c'è nulla se non il mare. Una posizione, quella da dove si guarda in Sicilia, che rileva proprio uno scrittore non siciliano, quasi si avesse la necessità etica di dare forma al perimetro del proprio sguardo, per marcare la presenza di un orizzonte sempre occupato e che andrebbe «tagliato» per provare a guardare oltre. Anche se ad attenderci c'è il nulla.



6. I drammaturghi, i personaggi, la scrittura, gli spettatori
Uno scritto per il teatro deve rispondere alle domande della letteratura e anche alle domande della scena, e viceversa. Sono parole, quelle per il teatro, che possono avverarsi a patro di confrontarsi anche con la messa in scena. Non “solo” con la messa in scena, ma anche. E viceversa. Le parole per il teatro hanno un altrove, un “di più” della loro superficie che prende vita quando viene incarnato. Write sperimenta questo assunto. Gli autori progettano, pensano, scrivono e le loro parole si caricano in tempo reale di intenzioni, vengono ascoltate e mostrate. Se ci fosse il tempo per un lavoro successivo le parole probabilmente cambierebbero ancora, alcune sparirebbero, altre nascerebbero. In ogni caso il processo non può dirsi completo sino a quando la parola non viene portata di fronte a qualcuno che la osserva, di fronte a un pubblico. È quanto avviene la sera, nella piazza del paese, a Mandanici, o nella corte del monastero, dove si presentano i testi di fronte a spettatori accorsi per incontrare i drammaturgi venuti dall'Italia e dall'estero. Un evento che il paese attende fremendo, un incontro fra un pubblico di non addetti ai lavori e dei testi di drammaturgia contemporanea internazionale,  un'eccezione nel nostro piccolo mondo teatrale e che Write sperimenta e mette in atto nel concreto, senza mediazioni. Questo "formato" riesce a interrogare la stessa identità della scrittura teatrale, e allargando il campo alla finzione teatrale e artistica tout court: stare a contatto con degli scrittori-drammaturghi nel momento in cui danno forma ai loro personaggi porta a domandarsi che cosa stiano immaginando, quando scrivono. Da dove provengono le qualità dei personaggi? Del rapporto fra attore e personaggio molto si è scritto, vengono in mente le famose dichiarazioni per esempio di Leo de Berardinis, che avvicinava la sostanza del lavoro attoriale alla sua autobiografia, sostenendo che il personaggio servisse in qualche modo per “accendere” e dare corpo alla biografia dell'attore (e non viceversa). «Se sapessi qualcosa di loro non avrei scritto il testo» è una delle più note dichiarazione di Samuel Beckett. Quale è il legame fra personaggio e biografia dei drammaturghi? Chi sono i personaggi, per i drammaturghi? Degli alter ego? Dei doppi? Delle controfigure? Degli estranei? Quale è la sostanza della finzione?  Queste e altre domande sone emerse nella pratica quotidiana di Write, una delle più grandi doti di un progetto il cui meccanismo può essere preso a modello.




7. Un'intimità impossibile. Gabrielli e Pluym
Quasi tutti i testi prodotti, come anche la scrittura collettiva, si sono orientati su questioni legate all'attualità e agli orizzonti della cronaca. Quasi a dire che un tentativo di scrittura teatrale collettiva non possa che occuparsi di problemi generali, non privati, forse anche manifestando l'impossibilità di occuparsi di questioni che attengono la sfera personale. Il privato che si fa via via sempre meno sondabile e stabile. Nel breve Destinazione raggiunta di Renato Gabrielli è messo in scena un meccanismo stringente dove chi legge ascolta un dialogo fra una narratrice esterna, una protagonista e la voce del suo navigatore. Sta guidando verso una destionazione non specificata per raggiungere una persona che supponiamo essere lontana. L'arrivo a destinazione mette in discussione quanto si pensava della narrazione fino a quel momento, imponendoci di domandarci se la visione diametralmente ribaltata che ora si palesa sia quella più corretta. In ogni caso si descrive una relazione di coppia dai contorni opachi, offuscati, forse impossibili.
Il francesce Gregory Pluym sfrutta invece l'espediente metateatrale per mettersi in scena in forma di un personaggio che fuma descritto da due voci riconosciute come “1” e “2”, impegnate a raccontare le gesta quotidiane dell'autore e le sue malferme emozioni, tormentate e trasognate come ogni francese. Ci vorrebbe il sole della Sicilia per asciugare la pioggia di Parigi  utilizza l'acqua come metafora di una tensione alla malinconia e alla poesia, un male di vivere che solo la secca tensione descrittiva icastica siciliana potrebbe prosciugare. Il testo sembra un semplice gioco metateatrale e invece finisce per mostrare il controluce di un rapporto di coppia finito male, in una giornata piovosa di novembre. La coppia non è più al centro del racconto perché prima è necessario ridefinire gli elementi sintattici che permettono la narrazione, recuperando una funzione sociale per il teatro. In fondo, e per concludere senza terminare, quello che Write sta facendo abitando una particella del nostro mondo.


di Lorenzo Donati
 

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