Sabato 2 e domenica 3 dicembre hanno debuttato in prima nazionale i quattro spettacoli vincitori del Premio Scenario 2017, divisi tra il palcoscenico del Teatro comunale Laura Betti di Casalecchio di Reno e quello di Teatri di Vita di Bologna. Iniziata con 137 progetti valutati da 8 commissioni nazionali formate dai membri dell'Associazione Scenario, la XVI edizione del Premio ne ha visti ammessi 48 alle tappe preliminari di Udine (CSS Teatro stabile di innovazione del FGV, 20-22 marzo 2017) e Napoli (Teatro Bellini, 10-12 aprile 2017). In seguito sono stati selezionati 15 progetti per essere presentati in forma di studi scenici della durata di 20 minuti alla finale ospitata dal 10 al 12 luglio 2017 all'interno di Santarcangelo Festival. Gli spettacoli sono stati premiati da una Giuria presieduta dall'autore, attore e regista Marco Baliani e composta da Cristina Valenti e Stefano Cipiciani (rispettivamente Presidente e Vicepresidente dell'Associazione Scenario), Edoardo Donatini (Direttore Artistico di Contemporanea Festival, Teatro Metastasio di Prato), Lisa Gilardino (co-curatrice di Santarcangelo Festival), Pasquale Vita (coordinatore del Circuito Regionale Multidisciplinare dell'Emilia Romagna).
Hanno vinto il Premio Scenario 2017 ex aequo Bau#2 di Barbara Berti e Un eschimese in Amazzonia di The Baby Walk; per la sezione Premio Scenario Infanzia, quest'anno organizzato in via eccezionale insieme alle altre sezioni, Da dove guardi il mondo? di Valentina Dal Mas; e infine per la sezione Premio Scenario per Ustica I Veryferici di Shebbab Met Project. Ai vincitori di ciascuna sezione è stato assegnato un premio di 8.000 euro (ripartito in 4.000 euro per gli ex aequo) «come sostegno produttivo ai fini del completamento dello spettacolo». Gli spettacoli sono poi stati proposti, nella loro forma compiuta, all'interno della vetrina Generazione Scenario 2017, che si è rivelata un'indagine generazionale sulle relazioni sociali, sul concetto di marginalità e sulle difficoltà personali, superando confini geografici, linguistici e identità di genere. I quattro progetti portano avanti un'analisi sul confronto del singolo con il mondo circostante, cercando di evidenziare alcune contraddizioni del presente. Attraverso un linguaggio che tende alla costruzione coreografica della scena, in assolo o in gruppo, gli spettacoli presentano uno stile, un punto di vista e una resa performativa differenti. La ricerca sulle capacità percettive e sensoriali dell'uomo inteso come mente e corpo è il nucleo su cui si costruisce Bau#2; Liv Ferracchiati, invece, con Un eschimese in Amazzonia mette in discussione i rigidi modelli di genere di una società che non è così aperta come dice di essere; il percorso di formazione di una bambina alle prese con le piccole difficoltà volte alla conquista di sé è il racconto dello spettacolo Da dove guardi il mondo?; e infine la volontà di dare voce a chi non ce l'ha ma lotta per farsi sentire è la battaglia de I Veryferici. Le foto nell'articolo sono tutte di Stefano Vaja.
BAU#2 , di e con Barbara Berti (Premio Scenario 2017 ex aequo)
Dalla serie BAU - Coreografia del pensare
La realtà è molto più complessa e dettagliata di come la vediamo. Come quando osserviamo un cubetto di ghiaccio sciogliersi: ne cogliamo la trasformazione da solido a liquido, ma non percepiamo il movimento di miliardi di molecole, parte di questo processo. A rivelarcelo è una figura vestita di blu, seduta su una sedia nera sul palco, illuminata da una luce bianca proveniente dall’alto, che crea sul viso delle ombre deformanti. A un certo punto la figura lascia il microfono che teneva in mano, continuando a parlarci, e questo fluttua in aria come privo di gravità. Che sta succedendo? Proviamo ad ascoltare ciò che dice, ma siamo più concentrati a osservare quel magico effetto. La figura (Barbara Berti) si alza, e anche la sedia perde l’attrazione terrena e va a nascondersi in alto, insieme al microfono. C’è solo spazio vuoto: suolo bianco e sfondo nero. La danzatrice si muove in quel nulla con movimenti fluidi che disegnano linee rette, sembra trasportata da tante calamite che l’attraggono e la respingono. Nel mentre ci parla di tempo e spazio, dimensioni entro le quali il nostro corpo e la nostra mente si muovono, principi che si intrecciano inevitabilmente tra loro. Ce lo mostra performativamente, “entrando” nel suolo, integrandosi in quanto tempo, nello spazio. Le parole escono come un flusso, ma appena ci sembra di coglierne il senso, subito si interrompono, ritornano indietro, si ripetono, ricusano quanto detto. Il movimento pare seguire il discorso come se questo fosse il ritmo della coreografia; a tratti invece sembra essere la danza a creare la parola. La performer si rivolge a se stessa, ma quel “tu” è spesso ambiguo e lo spettatore si sente chiamato in causa, in particolare quando ci parla di “attenzione”: ci dice che la nostra mente saltella costantemente da un punto all’altro, attratta ora da questo ora da quello. Ce lo mostra attraverso l’uso delle luci, manovrate dalla figura in rosso alla destra del palco: in base a cosa esse illuminano, il nostro sguardo e la nostra attenzione si sposta dalla coreografa alla ragazza rossa, dal pubblico a un gruppo, da un solo spettatore al fondo del palco, dalla scena al buio totale. Sembra un esercizio di meditazione, una sorta di rituale orientale per renderci coscienti del funzionamento della nostra mente nel suo stretto e inscindibile legame con il corpo. È lo studio che ha condotto la Berti in questo spettacolo: analizzare il legame tra pensiero, percezione e corpo, il nostro essere materia e non-materia, tentandone una resa performativa e coreografica. Come il corpo si sposta nel tempo e nello spazio, principi relativi e limitati in quanto parte del reale materiale, così la mente viaggia in un tempo che semplicemente accade, e in uno spazio potenzialmente infinito perché ideale. La coreografa attraverso la pratica della danza cerca di sintonizzarsi con gli impulsi razionali e inconsci della mente, e ci invita a far altrettanto, ma non risulta così semplice per noi ottenere un tale coinvolgimento, un po’ confusi dall’alta concettualità della performance e un po’ incerti sull’effettiva possibilità che una simile pratica sia utile e recepibile al di là dell’esercizio e della ricerca performativa. Sul palco si fa penombra. La performer smette di parlare, sentiamo solo il rumore dei suoi movimenti nello spazio. Sparisce dalla scena. Davanti a noi solo il vuoto. Nella nostra testa vediamo ancora le infinite linee da lei disegnate, i fili intrecciati, spezzati e annodati. Vediamo un vuoto dominato dalle dimensioni di spazio e tempo in cui proiettare noi stessi. Ilaria Cecchinato
Un eschimese in Amazzonia (Premio Scenario 2017 ex aequo)
ideazione e testo Liv Ferracchiati
scrittura scenica e interpretazione Greta Cappelletti, Laura Dondi, Liv Ferracchiati, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli
suono Giacomo Agnifili
produzione Compagnia The Baby Walk
Con Un eschimese in Amazzonia il gruppo The Baby Walk completa la sua Trilogia sull'Identità iniziata con Peter Pan guarda sotto le gonne e Stabat Mater. Utilizzando come motore il tema dell'identità di genere, viene affrontato il problema di linguaggio che ricorre quando si parla di transgenderismo. Protagonista dello spettacolo, presentato, almeno nella forma, come un racconto autobiografico, è un “eschimese” in Amazzonia, un individuo fuori contesto inserito in un ambiente inospitale. L'eschimese è interpretato da Liv Ferracchiati, autore del progetto e persona transgender che già nel nome, privo di desinenza, manifesta la scelta di un “neutrum” che esula dal modello binario maschile/femminile. La sua controparte scenica, costituita da un coro di quattro elementi (Greta Cappelletti, Laura Dondi, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli), sottende il confronto eschimese/società e agisce attraverso dinamiche coreografiche e tableaux vivants. Il coro rappresenta la collettività che si fa massa, la cui gestualità si evolve in un climax di reiterazioni che porta ben presto a un collasso della forma estetica. I quattro interpreti, parlando spesso all'uniscono, diventano l'emblema di un mondo saturo di sovrastrutture, per nulla interessato a conoscere la vera storia dell'eschimese, la cui sola presenza in Amazzonia causa un cortocircuito nel sistema delle convenzioni sociali. Si crea allora un glitch, una ripetizione quasi ossessiva dell'unica domanda che può fare chiarezza: «sei maschio o femmina?».
Un eschimese in Amazzonia (che il foglio di sala rivela essere una citazione di Porpora Marcasciano, attivista del MIT, Movimento Identità Transessuale) mostra come il contesto socio-culturale in cui viviamo ha bisogno di certezze e ciò che più teme è l'ambiguità rappresentata dall'eschimese. Nella lingua italiana il genere del sostantivo è maschile o femminile: perdere tale sicurezza, ritrovarsi di fronte al neutrum latino, significa dover ripensare al sistema di ripartizione dei bagni pubblici, e non è cosa di poco conto. L'eschimese si ritrova così a interagire con la società in cui vive per mezzo di una parola incerta che ha il sapore di un'improvvisazione, in contrasto con i codici di una collettività omologata. Poco alla volta, però, il protagonista acquista maggiore sicurezza nel relazionarsi con il gruppo-società: si siede di fronte al pubblico, si racconta senza più vergogna, flirta con una spettatrice seduta in platea, parla della sua sessualità e del suo rapporto con le donne, abbracciando inevitabilmente il cliché. La formula della biografia, utile per evitare di cadere in approssimative generalizzazioni, porta in scena una fisicità e un corpo, quello di Liv Ferracchiati, che si mostra senza apparenti finzioni. Nel finale il racconto si traduce in un susseguirsi di testimonianze attraverso cui ciascun attore del gruppo, abbandonati i panni della collettività (cambiano letteralmente costume), denuncia una forma connaturata e diffusa di pregiudizio, descrivendo la propria personale esperienza nell'incontro con “lui”, uno dei tanti eschimesi in Amazzonia.
La scena è vuota, fatta eccezione per i pochi elementi utili, l'illuminazione essenziale, se si esclude la parte in cui esplode l'anima “pop rock” dello spettacolo e i personaggi vengono enfaticamente illuminati dal fondo, in silhouette, come in un concerto di Vasco Rossi. Gli attori si schierano in proscenio sulle note della canzone Vita spericolata, ne recitano i versi come un mantra, rivolgendosi direttamente al pubblico. Il richiamo allo stile di Babilonia Teatri appare quanto mai evidente. Lo spettacolo è costellato di riferimenti legati alla generazione dei trentenni di oggi, di chi ancora cerca «una vita spericolata come quelle dei film», di chi ha fatto di Oliver Hutton il suo idolo dell'infanzia. Il protagonista riflette sulle lacrime di Lady Oscar, quelle della famosa scena censurata in Italia, e si chiede se siano dovute all'umiliazione per la violenza subita o alla non accettazione della propria fisicità messa a nudo. Domande lecite da parte di una generazione intenzionata a confutare l'idea che «una rosa non sarà mai un lillà», una generazione che sogna un futuro in cui anche gli eschimesi potranno vivere in Amazzonia e sentirsi a casa. Marzio Badalì
Da dove guardi il mondo? (Premio Scenario Infanzia 2017)
Di e con Valentina Dal Mas
E tu, da dove guardi il mondo? Danya vuole osservare ciò che la circonda da tutte le prospettive possibili, solo che ancora non ha trovato la chiave per metter ordine alle sue intuizioni e riconoscere gli insegnamenti che i diversi sguardi sulle cose comportano. Ha un puzzle con due pezzi mancanti e due sbagliati: lo rivela a «lassù», la luce che la illumina dall’alto, e immagina che da qualche parte nel mondo ci sia qualcuno come lei nella stessa situazione. Cosa manca davvero alla piccola Danya? Ha nove anni e non ha ancora imparato a scrivere il suo nome. Il suo è un cammino verso il raggiungimento di questo obiettivo, ovvero verso il suo «punto di allegria». A interpretare Danya è la danzatrice e coreografa Valentina Dal Mas, vestita con una maglia bianca macchiata di spruzzi di colore e dei pantaloni blu. Sappiamo che ha nove anni dal foglio di sala, dalla performance non è direttamente deducibile. La scena è quasi sempre in penombra, la poca luce è bianca e fredda; al centro del palco un banco di scuola. Danya si siede, apre il suo quaderno, prende dall’astuccio un pennarello e tenta di scrivere, ma si distrae: canta, balla, gioca. Ci riprova: quel che risulta è solo un pasticcio, tante linee intrecciate tra di loro prive di logica. I suoi compagni di scuola, tutti interpretati dalla Dal Mas, la prendono in giro per questa sua mancanza, così come per le sue stramberie di piccola sognatrice. Danya però non si dà per vinta: per raggiungere il suo «punto di allegria» si lascerà guidare da simpatici “amici” che le insegneranno il punto, la retta, il cerchio e come mettere insieme tutti questi elementi. Sono le basi della scrittura, ma anche sinonimi di fermezza, rigidità e fantasia, qualità che dovrà imparare a far convivere in se stessa per poter affrontare il mondo da più punti di vista senza confusione. Questi amici sono il temperino “Spigolo”, Fischietto, Schiuma da barba, e la frusta elettrica “Vortice”, ognuno posto ai quattro angoli del palco, attorno al banco, anche se li vediamo appena perché troppo piccoli e posti a terra. Danya imita per gioco ogni amico attraverso una danza che ne riproduce le qualità sia come segno geometrico sia come valore caratteriale: un movimento sincopato e sconnesso per Spigolo, rigido e lineare per Fischietto, morbido e circolare per Schiuma da barba. Al racconto di questi “personaggi” concorre anche la musica, tanto funzionale nella descrizione, quanto anacronistica per le nuovissime generazioni. Quando Danya intuisce che questi ingredienti messi insieme le permetteranno di scrivere il suo nome, ci riprova: seduta di nuovo al banco di scuola, è composta e concentrata. Alza il quaderno per mostrarci il risultato: ce l’ha fatta, ha scritto il suo nome! Attraverso il movimento coreografico e il racconto, Da dove guardi il mondo? ripercorre il processo di formazione di una bambina alle prese con i piccoli obiettivi della vita, il cui raggiungimento segue un percorso del tutto personale. Non importa come e quando, quello che conta davvero è trovare un «punto di allegria» e raggiungerlo, senza abbattersi e farsi influenzare dagli altri. Danya non appare in scena come una bambina “diversa”, come segnalano le note di regia, a meno che con questo termine non si voglia indicare l’unicità che caratterizza ogni individuo nel suo rapporto col mondo. Se fosse altrimenti, sarebbe una tematica affrontata con poca chiarezza e eccessiva superficialità. La resa performativa fatta di danza e parole, come un cartone animato, restituisce un effetto favolistico, tuttavia la poca luce in scena non permette di mantenere sempre viva l’attenzione. Il racconto è ricco di metafore non immediatamente desumibili, ma nemmeno così complicate da essere inaccessibili. Con il suo racconto Danya ci mostra la possibilità per tutti di raggiungere un «punto di allegria» e di vivere senza mai perdere l’entusiasmo, in un continuo sognare e meravigliarsi guardando il mondo con occhi sempre nuovi. Ilaria Cecchinato
I Veriyferici (Premio Scenario per Ustica 2017)
interpreti Lamin Kijera, Moussa Molla Salih, Alexandra Florentina Florea, Natalia De Martin Deppo, Youssef El Gahda, Matteo Miucci, Younes El Bouzari, Gianfilippo Di Bari, Camillo Acanfora
di Shebbab Met Project regia coordinata da Camillo Acanfora
drammaturgia coordinata da Natalia De Martin Deppo
visual artist Aurélia Higuet
organizzatrice e referente Angela Sciavilla
I Veryferici è il primo lavoro di Shebbab Met Project, un gruppo eterogeneo e multiculturale formatosi nell'agosto del 2016 all'interno di Cantieri Meticci. Lo spettacolo inizia con l'arrivo di una giovane donna (Alexandra Florentina Florea) che si presenta al pubblico esprimendo gratitudine per il premio assegnatole. Sembra stia parlando del Premio Scenario, mettendo in rilievo la natura finzionale e illusoria del teatro, e creando un gioco di rimandi interni che potrebbe aprire la strada a una riflessione critica sull'importanza del premio in sé, sul rapporto tra compagnie emergenti e istituzioni teatrali. Il Premio Scenario per Ustica è destinato agli spettacoli che trattano tematiche di impegno civile e sociale, ma riflettere retrospettivamente su come il teatro guardi alla periferia non sembra essere l'obiettivo de I Veryferici. La ragazza è una cantante, e apre una piccola parentesi biografica che dà il via a una serie di interventi attraverso i quali ogni interprete riporta una personale esperienza di marginalità. Da Bucarest a Casablanca, passando per l'Italia meridionale, Shebbab Met Project intende raccontare un viaggio nelle periferie del mondo, attraverso azioni coreografiche che rinunciano al rigore e alla pulizia dei gesti in favore di un caos magmatico.
La cornice all'interno della quale si raggruppano le varie scene è composta da una chiave tematica, quella della marginalità, e da una chiave stilistica, quella dell'elemento musicale, costretto a fare i conti con una tecnica non abbastanza affinata da sostenere tutto il peso della rappresentazione. Tale lacuna rischia di predominare sull'energia istintiva di corpi giovani e pieni di vitalità, che danno al pubblico ciò che hanno, senza inibizioni, benché questo non sia abbastanza. Alcune delle canzoni, presentate come i brani di un disco con cui la band I Veryferici spera di raggiungere le vette del successo, diventano così semplici abbozzi o tentativi, un gioco dichiarato da Shebbab Met Project, benché alla lunga risulti forse poco comprensibile.
Se l'illuminazione è carente – manca di sinergia con gli attori – misurati e ben contestualizzati sono invece la scenografia e i costumi. I Veryferici si travestono da supereroi indossando mantelli fatti con i sacchi della spazzatura, ma lo specchio della società li riflette come «super errori» che dalla vita ricevono soltanto sonori ceffoni. La scena appare spoglia, sostenuta da una fila di sedie che trovano diverse applicazioni ma nascondono potenzialità inespresse. Un grande telo di plastica fa da fondale, spesso da separé, tappezzato di sacchi come il collage di una discarica che alla fine i Veryferici strappano via in un raptus distruttivo, rimanendovi sepolti. Sull'opacità del telo vengono disegnati, con l'uso di un proiettore, elementi utili ad arricchire la scena, a contestualizzarla. Il tratto luminoso di Aurélia Higuet crea quartieri periferici, palazzi e finestre di ogni sud del mondo, dove persino un lampione in due dimensioni, col suo fascio di luce, può interagire con una figura in carne e ossa. La struttura drammaturgica, però, veicolata come un carosello in cui si alternano brevi interventi individuali e parti cantate, si mostra fin troppo frammentaria. Pur accettando la forma di una vetrina esperienziale, si avverte la necessità di un pensiero omogeneo in grado di legare insieme le parti con il tutto. Sia la regia che la drammaturgia, affrontate collettivamente, tradiscono l'assenza di una cifra stilistica chiara. Il potenziale de I Veryferici è quello di racchiudere in un unico contenitore un insieme fecondo di culture, dialetti e linguaggi teatrali diversi, la difficoltà sta nell'imbrigliarli e direzionarli lontano da un lavoro che rischia altrimenti di apparire amatoriale. Marzio Badalì
In questi anni abbiamo cercato di osservare da vicino gli esiti del Premio Scenario, una delle pochissime occasioni di crescita che il teatro italiano offre ad artisti all'inizio del lavoro. La serietà del percorso parla da sola perché garantisce alle compagnie selezionate un tragitto a tappe, uno sviluppo e che non brucia gli esiti. Anche per questo forte è la tentazione di “usare” i ritrovati del Premio come una lente per parlare di tutto il teatro italiano emergente. Operazione in parte legittima, e che anche qui su Altre Velocità abbiamo tentato di fare (qui le cronache delle edizioni 2011, 2013 e 2015), sollevando dubbi e questioni capaci di parlare per il tutto; nella consapevolezza che un siffatto procedere sia anche sintomo di una forzatura, in assenza di altri contesti affidabili per osservare ciò che nasce. Molto frammentata, infatti, è la galassia di occasioni dove si muove chi sta iniziando: dopo Scenario, la ricerca di linguaggi “freschi”, dei futuri nomi per un sistema che sta tornando registico-centrico o semplicemente dei gruppi trentenni necessari per completare programmazioni a costi contenuti sono i principali motivi che impediscono di riflettere dotandosi di griglie legate esclusivamente alle poetiche. Se potessimo utilizzarle liberamente, nell'ultima edizione racconteremmo di esiti ai quali vorremmo chiedere un maggiore raffronto con l'altro da sè, in cerca di uno spaesamento linguistico che porterebbe le opere in zone meno garantite. Si "proteggono" molto, questi linguaggi allo stato nascente: facendo i conti con un immaginario televisivo che è tratto identitario biografico ma che forse è giunto il momento di contestare, per evitare che diventi gabbia (Un eschimese in Amazzonia), oppure innamorandosi di un concetto dai contorni affascinanti ma che forse non è ancora sufficiente per diventare "discorso", e dunque linguaggio (BAU#2); tale annotazione ci pare lavori anche per scelte più tradizionali, quando si incorpora un personaggio e si prova a tratteggiarne i contorni rivolgendosi a un pubblico infantile (come in Da dove guardi il mondo, che racconta una storia in modo onesto e convincente, ma forse rischiando di forgiare un mondo che rassicura, con un modo teatrale che fa altrettanto), o quando si eleva a linguaggio l'enfasi dell'emarginazione (I Veryferici). Ci piacerebbe allora porre alcune domande agli spettacoli visti: Cosa c'è fuori dal tuo linguaggio e che può dialogare con esso? Che cosa “ti mette in discussione”, a livello di costruzione teatrale? Quale è l'alterità che nella tua poetica tieni sulla soglia, e che si potrebbe provare a fare entrare? Lorenzo Donati