Le recenti assegnazioni del Fondo Unico per lo Spettacolo vedono il progetto della nostra associazione, Crescere spettatori, escluso dai finanziamenti. Nel triennio 2015/2017 avevamo avuto accesso al finanziamento nell’articolo 43 del DM 1 luglio 2014, nei progetti di “promozione” e nello specifico nel comma dedicato alla “formazione del pubblico”. Nei tre anni precedenti avevamo sviluppato un progetto articolato in numerosi laboratori di educazione allo sguardo con studenti e studentesse delle scuole secondarie di primo e secondo grado, accompagnati da seminari di formazione per insegnanti, da un monitoraggio sviluppato su base sociologica attorno ai risultati e gli impatti del progetto (in collaborazione con l’Università di Urbino); abbiamo organizzato una serie di convegni, incontri, seminari sul territorio nazionale: da Messina a Palermo, da Bologna a Foligno, con l’intento di allargare una domanda di fondo: di che cosa parliamo quando parliamo di formazione del pubblico? Abbiamo lanciato un’inchiesta su scala nazionale, che avevamo in mente di portare a termine nell’arco del 2018. Abbiamo chiamato a raccolta artisti, operatori, sociologi, antropologi attorno alla necessità di un’educazione alla visione. I risultati di questi incontri sono diventati e diventeranno pubblicazioni che speriamo possano essere utili al mondo del teatro in generale, perché è grazie alle domande sul proprio operato che si progredisce collettivamente. Noi siamo convinti dell’esigenza della mediazione: condividere le proprie persuasioni, incontrare altri che possano riconoscerle, essere un po’ meno pochi. Come si debba mediare è la grande domanda da porsi oggi e nei prossimi anni, sfida al centro non a caso di importanti ricerche di settore. La nostra scommessa, nel triennio 15/17 era stata porci tale domanda sul campo, a contatto con i giovani delle scuole, per riportare qualche esito in contesti specialistici capaci di indicare delle possibili direzioni. Siamo convinti dell’esigenza della mediazione, ma abbiamo poche risposte alle domande sul “come”: come si resta spettatori allenando la visione? Quali strumenti servono? Come non “spiegare” l’arte? Come, al contempo, allargarne la portata? Come porsi una domanda sulla nostra rilevanza sociale, misurando l’efficacia delle risposte nel lavoro con i giovani? Abbiamo fatto questo, negli anni precedenti, e per toccare qualche ipotesi di risposta avremmo avuto bisogno di almeno altri tre anni. Siamo rimasti sorpresi e tramortiti dalla nostra esclusione, anche considerando il punteggio estremamente basso che ci ha assegnato la commissione di valutazione (55), a fronte di un progetto che solo un anno prima otteneva oltre 70 punti. C’erano tante nuove domande, afferenti anche a pratiche e orizzonti culturali diversissimi, ma perché un progetto che rappresenta la prosecuzione e il potenziamento di un percorso già finanziato è stato valutato in maniera così differente a distanza di un solo anno?
Al di là del nostro specifico caso, va detto che il settore definito “promozione” del DM dovrebbe fotografare una vitalità che gli altri articoli non riescono a segnalare: realtà piccole, progetti atipici, difficilmente incasellabili nelle tipologie legate a produzione e circuitazione. Si parla infatti di inclusione sociale, perfezionamento professionale, ricambio generazionale e formazione del pubblico. Progetti forse capaci di innovare per davvero, di segnare piccole strade che poi il sistema, nei suoi gangli più strutturali, potrà recepire e integrare. Ci pareva questa una bella novità del DM 1 luglio 2014, ma se questo può essere lo spirito, che senso ha imporre un numero chiuso di soli 20 progetti? Se fra le altre cose si invoca il “ricambio generazionale”, perché proprio questo articolo, a differenza degli altri, ha una limitazione così forte e a fronte di risorse davvero così scarse?
Da questo esito ci pare esca anche ridimensionata una delle nostre battaglie sulle quali ci siamo più spesi negli ultimi anni. Sia chiaro: non deporremo le armi, ma certamente diventerà tutto più difficile. Si tratta di pensare che la critica abbia tutte le carte in regola per assumersi la titolarità dei processi di audience development, formazione del pubblico e in generale di mediazione culturale. Per noi la critica non può più solo "scrivere recensioni", ma deve alimentare una cultura teatrale, spendersi per dare forza al teatro in cui crede. Una critica che prende parte, si innamora, si lamenta, piange, ride e si fa male. Una critica che quando è brava produce visioni di teatro. Una critica che incontra, discute, porta il teatro nelle scuole, dentro al giornalismo, nelle università... restando “pensiero critico”. Questa è la scommessa che abbiamo portato avanti negli ultimi anni. Organizzando miriadi di incontri, alcuni convegni, molti dibattiti... insomma provando a creare contesti, mettendoci costantemente in discussione, alimentando i dubbi sul lavoro nostro e di tutti. Non che la critica sia l’unica che possa dotare la formazione del pubblico di un peso culturale, ma certamente non deve starne fuori, perché per immaginare percorsi complessi ci vogliono voci molteplici: dal managament culturale alla progettazione, dalla comunicazione al marketing, dall’educazione all’economia della cultura. Avevamo creduto che la critica potesse fungere da “meta-disciplina” in grado di fare convergere queste e altre prospettive all’interno di processi densi e di lunga gittata. Siamo convinti di non sbagliarci, ma da oggi siamo un po’ più soli.
È chiaro che per mettere in atto questi processi ci vuole anche un nuovo pensiero professionale, serve cercare di dare nuovi contorni a una professione che non esiste più, strutturandosi come critici che mediano, divulgano e testimoniano. Ci abbiamo provato, insieme ad altre realtà con le quali abbiamo condiviso intenti e progetti (ateatro, Il Tamburo di Kattrin, Fattiditeatro, Stratagemmi, Teatro & Critica, fra le tante, raccolte anche nel raggruppamento “Rete critica”). Ci stavamo provando anche con l’impulso dei diciannovemila euro di finanziamento annui, che per noi corrispondono alla semplice ma decisiva possibilità – assieme ai contributi di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna e Fondazioni bancarie – che le persone che lavorano vengano pagate e che ci sia una struttura organizzativa essenziale composta da almeno due persone, struttura che adesso dovrà fare i conti con uno zero. In pratica il Mibact ha investito delle risorse per tre anni, risorse di tutti, su un progetto che per stare in piedi ha innescato una crescita organizzativa e di governance oggi azzoppata.
Siamo convinti che il “sale” del teatro italiano sia spesso rappresentato da realtà piccole, fragili, inclassificabili, ai margini e radicali. È compito del Mibac dotarsi degli strumenti adeguati per sostenere tutto questo.