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Teatro, il tempo dei mediatori hello
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Se scattassimo adesso una foto di gruppo per fermare in un’immagine i veloci cambiamenti in atto, il mondo del teatro italiano potrebbe riservare alcune sorprese, probabilmente non molto differenti da tanti altri ambienti culturali e artistici. Innanzitutto comparirebbe in numero inaspettatamente consistente una sfilza di operatori teatrali, tra questi: direttori di teatri, grandi e piccoli, responsabili di festival o di circuiti, produttori di vario tipo. In secondo luogo non sarebbe difficile scovare tanti “addetti ai lavori” seduti addirittura nelle prime file, che abbracciano qualche artista di turno e strizzano l’occhio a un collega vicino. Se non fosse per l’ingombrante presenza di sindaci e assessori alla cultura nelle stesse file, non sarebbe difficile scorgere in questi operatori una compiaciuta soddisfazione. La terza novità riguarda gli assenti, perché all’appello mancano i critici. Ci sono invece giornalisti, informatori, pubblicitari, uffici stampa. I critici, se ci sono, si muovono più nell’ombra e chi rivendica la propria autorevolezza solitamente non si accorge di essere rimasto ormai fuori dall’inquadratura.
Anche se di questi cambiamenti si parla poco, il nuovo orizzonte inizia a delinearsi abbastanza chiaramente. I rapporti di forza, gli interlocutori, gli equilibri sono mutati ed è inutile rimpiangere tempi ormai lontani, o peggio, far finta di nulla sbandierando vecchi riti e cerimoniali ormai stantii. La critica, così come accade nelle altre arti, finisce per dissolversi, auto-escludendosi o spintonata ai margini. I motivi, le responsabilità, i cambiamenti sono tanti, ma appartengono a un’altra storia. Qui si vuole guardare da un altro punto di vista, che è per molti versi complementare, vale a dire soffermarsi sull’ascesa di quelle figure che “stanno nel mezzo” e si occupano, a vario titolo, di mediazione. In poche parole la questione potrebbe essere questa: la trasformazione dell’operatore che si trova ad essere l’unico interlocutore della politica (un esercito di assessori, politici, funzionari), del territorio (parola chiave, bandiera di ogni discorso culturale) e degli artisti (in gran parte impegnati a percorrere strade individuali).
La sfida è grande, il ruolo delicatissimo. La presa di coscienza di un mutamento profondo e la derivante responsabilità del proprio operare sono le condizioni basilari per assumersi compiti molteplici tra cui: essere sponda (stimolo o freno) per i differenti “giocatori in campo”; saper concretizzare una visione culturale e artistica, dando aria e respiro alle cose; inventarsi un luogo e una qualità relazionale; costruire contesti nei quali il teatro diventi fondamentale incrocio di esperienze. Obiettivi sempre più difficili da raggiungere per la presenza ingombrante e miope della politica; per scarsità sempre maggiore di risorse economiche; per la rarità di proposte artistiche forti; per il contesto globale dentro al quale si muove anche lo spettacolo dal vivo; ma pure eccitanti perché tutti all’insegna del “costruire” e del riflettere continuamente sul difficile rapporto tra “pensiero e azione”. Nelle mani di un operatore culturale convivono perciò qualità organizzative, lucidità politica-artistica e sguardo critico. Evidentemente la complessità del ruolo implica un lavoro di squadra, con il coinvolgimento di figure con le quali confrontarsi e reinventare modi di rendere concrete le idee, di trovare risorse alternative, di instaurare rapporti quanto più possibile sani con la politica, di mettere a fuoco soprattutto una funzione pubblica che guardi oltre ai recinti e muri, solitamente eretti a difesa. Perché, soprattutto in questo momento storico, è compito dell’operatore anche il non chiudersi, cercando al contrario persone che lavorano nella medesima direzione, realizzando collaborazioni e contribuendo a nutrire un’area culturale più vasta. Tutto questo è tragicamente difficile, è vero; comunque a far fede non sono i risultati immediati, spesso determinati da tante variabili, bensì i metodi che si adottano. È sui metodi allora che varrebbe la pena discutere.
Qualche mese fa si è costituito a Bassano del Grappa il Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea (C.Re.S.Co.), che riunisce per adesso una cinquantina di operatori. La discussione sui metodi e sulla messa a fuoco di una comune deontologia è stata posta all’ultimo punto dell’ordine del giorno. Il minimo comune denominatore appariva perciò non tanto il metodo del proprio operare, che veniva dato per scontato come “questione privata”, quanto la rivendicazione collettiva di alcuni diritti, in gran parte sintetizzabili in un auspicabile aumento di fondi (attraverso molteplici strategie). Di metodo si parlava pensando a problematiche esterne, in particolare suggerendo alle amministrazioni (soprattutto alle Regioni) una modalità trasparente per erogare i finanziamenti pubblici. Riflessione fondamentale e quanto mai condivisibile, che determinava però uno spostamento di asse non indifferente: l’occasione, pure interessante, di creare un coordinamento di messa a fuoco del proprio ruolo e di pressione politica si è alla fine ridotta a una legittima rivendicazione di diritti da parte delle realtà più piccole e legate genericamente al contemporaneo. E che tra tutte le “etichette” degli ultimi decenni, al posto di ricerca, sperimentazione, innovazione…, oggi abbia prevalso nettamente l’onnicomprensivo e generalista aggettivo “contemporaneo”, la dice lunga su un senso di appartenenza a un’area culturale che va scomparendo. La “nozione” di contemporaneo potrebbe avere il merito di scardinare la mistificazione di nicchie e sette che rivendicano a sé la patente di unici veri sperimentatori. Ma appare più spesso come un Cavallo di Troia che introduce da una parte, per fortuna, realtà piccole e vivaci in grandi teatri che necessitano con la crisi della prosa di qualche novità; dall’altra, purtroppo, alimenta un po’ drammaticamente l’abbandono di un’idea di minoranza, per l’adozione di logiche maggioritarie. Dentro il “contemporaneo”, come per l’arte visiva, può esserci un po’ di tutto, e le maglie sono talmente larghe che la categoria puzza tanto di marchio e di patina molto superficiale con la quale includere praticamente l’esistente, ad esclusione della peggior prosa dei vecchi teatri e forse delle iniziative marcatamente commerciali. L’esaltazione dei grandi numeri, del consumo culturale, del consenso di massa ha avuto una ricaduta anche in situazioni più marginali, anche a causa di una politica locale il più delle volte incapace di pensare a un discorso culturale.
Alla necessità di apertura, del tutto legittima quando la stanza rimane troppo a lungo chiusa e l’aria è viziata, il ruolo dei mediatori diventa quindi a dir poco fondamentale. Ma aprirsi a cosa? E in quale direzione? In questi ultimi anni si è puntato in modo indiscriminato sulla novità, reclamando il futuro come bene di consumo, sulla quantità, sui giovani (che fra l’altro costano meno), alimentando la nascita di una miriade di gruppi. In questi anni zero il maggior peso del ruolo dell’operatore ha coinciso, probabilmente non a caso, con l’esplosione, anche felice, di tanti gruppi. Questo connubio ha generato sicuramente alcuni elementi positivi: una certa attenzione alle residenze (e quindi ai luoghi e alla pratica di lavoro), un sostegno a incentivare l’auto-imprenditorialità dei gruppi (unica via di sopravvivenza), la realizzazione di alcuni progetti di osservazione dei processi artistici, con il confronto di più sguardi e il tentativo di creare un contesto possibile per incontrarsi. Non era mai successo che un numero così ampio di operatori fosse tanto pronto e tanto vicino nel seguire il fiorire di nuove realtà, anche perché non era mai accaduto che gli spazi e i luoghi per presentare i lavori fossero a tal punto “istituzionalizzati”. Ma il sistema procede in modo improvvisato e brutale poiché privo di una reale visione critica. Diversi operatori, a mo’ di paladini del mercato (quello teatrale, fittizio e drogato), hanno subito raccolto i fiori, molti dei quali pronti già a seccarsi. E questo provoca un profondo dispiacere, perché è un atteggiamento che va in direzione esattamente contraria a quella “passione” e a quella gioia per le cose nascenti, che ancora esiste e si avverte da più parti. La novità (vera!) risiede nel fatto che alcuni freni alle logiche di mercato potevano essere tirati, proprio perché non si sta parlando né dei baracconi immobili e polverosi dei vecchi teatri né delle scene sguaiate della televisione. 
Aprirsi ha voluto dire anche accogliere prodotti sempre più “medi”, semplificare le proposte culturali, con l’alibi del pubblico “che non è ancora pronto” e che va “educato” per gradi, nella convinzione che il confronto e la crescita non debbano mai creare conflitti o disapprovazioni, ma tutto deve essere assorbito serenamente, senza complicazioni e pericoli. Il mediatore è allora l’addetto alla sicurezza: spegnere i focolai, lubrificare l’incontro con il pubblico, pretendere che tutto sia chiaro e comprensibile. In questo senso non si promuovono i lavori semplici, ma quelli semplificati, spiegati, urlati, dove le forme sono tutte riconoscibili, i sentimenti sottolineati, il mistero abolito. Il teatro si fa comunicazione, perché la comprensibilità diventa un diritto del pubblico e l’operatore il suo strenuo difensore. L’equivoco del mediatore diventa esplicito. Mediare in altre parole significa abbassare il livello, essere interprete della medietà, l’antibiotico di tutti i contagi e le pesti di artaudiana memoria. Mediare con il territorio significa poi nascondere il più possibile le differenze, trovare spettacoli, parole, pratiche spendibili e comprensibili, lasciando una patina di “contemporaneo” che funziona sempre di più. Mentre la vera mediazione (tra artista e pubblico o territorio) dovrebbe essere proprio l’opposto: creare un terzo luogo più “in alto”, dove sia possibile immaginare l’incontro; realizzare un rapporto triangolare con la dimensione dell’arte, che abbia il sapore del rilancio e dell’invenzione, o almeno provarci. Ma se si guarda in ottica di “maggioranza” è naturale che questo tipo di mediazione sia considerata perdente e marginale.
Aprirsi vuol dire aderire a reti e network, a circuiti e collaborazioni. Solitamente queste “reti” prendono corpo da premi, progetti europei o simili. In questi casi può avvenire di tutto. “Fare rete” è un altro degli slogan più abusati. Le alleanze a volte vengono stipulate prima di costruire il contenuto dei progetti, i modi della gestione rimangono non di rado confusi, le logiche di appartenenza risultano prioritarie. In questi casi al primo posto non ci sono nemmeno le esigenze del pubblico, ma gli accordi tra operatori. Il mercato a cui si aderisce è completamente involuto e ripiegato su di sé. Segue le logiche della sopravvivenza con uno sbilanciamento spesso molto netto tra l’alimentare la struttura e l’investire realmente sui progetti. Il “fare rete”– unica reale possibilità per affrontare l’attuale crisi economica – si è rivelato non di rado un bluff, perché è pensato come sistema di microalleanza funzionale a qualche spicciolo da portare a casa e solo in secondo luogo come costruzione condivisa di un progetto.
Gli anni zero hanno visto insomma l’affermazione netta degli operatori teatrali con il conseguente allontanamento della critica, ritenuta, con qualche ragione, non più una sponda necessaria, ma un ulteriore strumento di promozione. Ci sono state tante eccezioni, soprattutto là dove si è ritenuto importante un occhio esterno che seguisse i lavori, con un’apertura generosa anche a diversi giovani. Ma sono state delle meritevoli eccezioni, anche numerose per un certo periodo, dentro a una condizione comunque piuttosto mutata, dove l’importante è “che se ne parli”; cosa viene detto interessa relativamente, anche perché a comandare è l’opinionismo diffuso e la chiacchiera imperante. 
Tra le tante manifestazioni di questa dittatura della chiacchiera, sorprende che sempre più spesso riscappi fuori il modello della casalinga di Voghera. E questo lo si trova in bocca perfino agli artisti. Ma la casalinga non è qui una sorta di strumento di liberazione dai cerebralismi degli addetti ai lavori, al contrario si rivela una sorta di difesa contro le critiche che vengono mosse. Si tratta solo di un tic verbale, eppure la dice lunga sulle discussioni che circolano. Di fronte alla critica più feroce e articolata, in bocca all’operatore e pure a qualche artista affiora, in risposta, la figura della vecchia nonna, di cui si rivendica con orgoglio la terza elementare, e che, guarda caso, ha assistito allo spettacolo in questione, rimanendone profondamente commossa. La fantomatica nonna, ma a volte è la sua badante rumena, si aggira per i teatri più inaspettati, frequenta adesso anche le performance più assurde e concettuali, e tutte le volte esce in lacrime dalla commozione. Questo diffuso tic vorrebbe rimarcare la purezza dei sentimenti e la verginità delle sensazioni, un appello implicito a non farsi troppe domande, a lasciarsi andare alle emozioni: il pensiero critico pecca per eccessiva analisi e mancanza di cuore, rivelandosi perciò miope e fuori luogo. Tutto così si trasforma in chiacchiera, opinioni, pensieri personali, un sottofondo continuo di rumori che si scioglie nel liberatorio applauso, tornato metro importante per misurare temperature di gradimento e di consenso.
Se non arrivassero continuamente tagli economici e se non fosse diffusa una comprensibile frustrazione potremmo parlare davvero di un piccolo “trionfo” dei mediatori, ormai interlocutori privilegiati anche degli artisti che, in questo rapporto, sono evidentemente sotto scacco; anche se, a dire il vero, gli artisti non sembrano manifestare particolari disapprovazioni o almeno forme di ribellione, preferendo quasi sempre percorrere strade individuali di sopravvivenza più o meno sofferta. Senza contare poi che tantissimi artisti sono pure operatori, gestendo festival o teatri, e sono davvero pochi quelli che, partendo dalla propria esperienza, riescono a ripensare un ruolo di mediazione, senza cedere alle pratiche più diffuse di scambi e narcisismi vari.
Sarebbe davvero ingenuo pensare che questo cambio di equilibri non abbia delle ripercussioni profonde anche sulle realizzazione delle opere artistiche. Rimarrebbe un’ingenuità e un errore di valutazione non da poco, se è vero che «l’organizzazione pratica del teatro è nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si può turbarla senza turbare e rovinare il processo espressivo, senza isterilire l’organo “linguistico” della rappresentazione teatrale», come ebbe a scrivere Antonio Gramsci nel lontano 1919. C’è da augurarsi che l’operatore culturale sia profondamente cosciente di giocare un ruolo chiave in questa partita, certo difficilissima, ma per altri versi pure esaltante, per la possibilità, nel disordine comune, di re-inventarsi un “modo” di agire concretamente e di affrontare i grandi cambiamenti.
 

di Rodolfo Sacchettini
 

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