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Disoccupate le strade dai sogni hello
Published Date: 0000-00-00 00:00:00

Pubblichiamo una articolata riflessione di Graziano Graziani che parte da un riesame della stagione romana degli anni Novanta, con particolare riferimento all'esplosione di esperienze teatrali che agivano in luoghi non convenzionali. Il filo del discorso segue una più ampia riflessione sul teatro che oggi vive, e che è stata preceduta dagli articoli La realtà allo stato gassoso. Sul teatro degli anni zero e Teatro, il tempo dei mediatori, ai quali seguiranno altri interventi. 
 
***
 
Quello che segue è il testo dell’intervento che ho tenuto l’11 dicembre 2010 al convegno organizzato da Zoom Festival, presso il Teatro Studio di Scandicci. La sera prima ho riordinato gli appunti che avevo tirato giù per l’intervento, ma quando li ho riletti ho avuto un sussulto: ero stato chiamato a parlare del teatro che scende in piazza e il risultato della mia riflessione era piuttosto “conservatore”. Che mi succede? mi sono chiesto. E ho inviato le persone che partecipavano al convegno a darmi una mano a capirlo. Quell’invito è ancora valido.
 
 
«Disoccupate le strade dai sogni
e regalateci le vostre parole»
(Claudio Lolli – Incubo numero zero)
 
1. Quando Giancarlo Cauteruccio mi ha invitato a riflettere e a parlare del teatro che esce dai luoghi teatrali per andare nelle strade, sui tetti, nei luoghi non convenzionali – così come stanno facendo gli studenti e gli operai in queste settimane di protesta – ho pensato immediatamente agli anni Novanta. Sono gli anni in cui cominciavo ad occuparmi di teatro, a Roma partiva una stagione che si sarebbe definita all’inizio del decennio successivo, caratterizzata da un’effervescenza che impressionava soprattutto nei numeri: centinaia di compagnie e decine di spazi – occupati, privati, associativi – creavano una sorta di circuito indipendente che dava finalmente respiro a un mondo che non aveva accesso ai luoghi ufficiali e alle risorse pubbliche, sclerotizzate nelle logiche degli stabili e della commissione delle pubbliche amministrazioni. In questa polarità, che a Roma è schiacciante, non c’era posto per l’eccellenza e la sperimentazione.
 
2. Quella stagione nasceva da un imperativo: se non abbiamo accesso ai luoghi e alle risorse, il teatro lo facciamo ovunque, nei luoghi occupati, negli scantinati, nelle strade. Quell’imperativo, di natura politica, trovava in quegli anni l’appoggio delle teorie sulla postmodernità, che sostenevano determinate derive estetiche e influenzavano – ma in qualche caso sarebbe più corretto dire “infestavano” – le poetiche degli artisti. Tra gli imperativi di quelle teorie c’era la fuoriuscita dai luoghi deputati alla fruizione artistica, l’estetica del frammento, il gusto del patchwork come forma anti-narrativa, che anzi negava la possibilità di una narrazione. Collante di questi elementi un gusto per il pop nelle sue varie forme, che riunifica il gesto artistico dandogli una cornice glamour (non necessariamente di massa, ma sicuramente “cool”).
 
3. Di quella esperienza – che mi sembra simile e contigua al ragionamento proposto oggi, nel 2010, da Cauteruccio – mi resta una convinzione: i frutti maggiori quella stagione li ha dati quando si è stabilizzata, quando alcuni di quei luoghi sono diventati permanenti e hanno consentito alle realtà che li abitavano di crescere. Non a caso la generazione successiva, quella dei trentenni di oggi, quella che Palazzi ha chiamato la generazione T, è tornata molto volentieri e ragionare in termini teatrali. Un po’ perché quegli artisti si sono trovati una serie di luoghi già consolidati, e un po’ perché un luogo protetto come il teatro permetteva loro di tornare a sperimentare linee drammaturgiche complesse, che hanno bisogno di un’attenzione particolare da parte di chi guarda, una situazione protetta e dedicata, che per strada, nel teatro che deborda, nelle situazione “da battaglia”, è impossibile per questioni logistiche.
 
4. Per questo il ragionamento proposto da Cauteruccio ha risvegliato in me qualche fantasma. Da un lato mi veniva da aderire immediatamente alla visione politica che mette il teatro in parallelo a studenti e operai che salgono sui tetti e sulle gru, tanto più oggi che tanti teatri e festival stanno chiudendo o sono a rischio chiusura. Come dire: se non ci lasciate fare teatro nel teatro, noi non smetteremo e lo faremo ovunque. Atteggiamento encomiabile. Ma c’è un ma: non dobbiamo confondere un’esigenza politica con un’esigenza estetica. Il gesto politico con il gesto estetico. Se essi coincidono è solo per il breve lasso di tempo di un’emergenza; se dopo di essa continuano a coincidere, è probabile che si sia creata una sclerotizzazione che vede i “rivoluzionari” continuare a recitare per sempre la parte dei rivoluzionari, un po’ come dei Peter Pan che non vogliono crescere. Qualcosa che la storia politica dell’America Latina – una terra che ha espresso alcune delle narrazioni più affascinanti nella storia delle rivoluzioni mondiali – conosce bene, e che ha stigmatizzato in modo emblematico e grottesco: basta pensare alle mise militari con cui Fidel Castro ha continuato a presentarsi in pubblico fino alla soglia degli ottanta anni, affinché il presidente a vita non smettesse mai di impersonare il combattente; o al Messico dove il Partito Rivoluzionario al potere per oltre settant’anni è stato il più corrotto e conservatore nella storia repubblicana di quel paese.
Tornando al teatro, esso è certamente un atto politico, ma lo è sempre. Mentre una finalità politica può essere anche perseguita con un gesto estetico, ma non è necessariamente anche una finalità estetica. Estetica e politica sono in un rapporto che ricorda la metafora del maiale e delle salsicce: puoi fare le salsicce dal maiale, ma non puoi fare il maiale dalle salsicce… Allo stesso modo il gesto estetico – se realmente tale – è sempre anche un gesto politico, mentre il gesto politico non è necessariamente estetico.
 
5. Esiste un concreto fascino che i luoghi esercitano su di noi, su questo non ci piove, e l’idea di abitare con l’arte luoghi di solito destinati a tutt’altro, è affascinante. La “public art” ha prodotto moltissimi esempi, da questo punto di vista. Ma, anch’essa, ha subito un’evoluzione: se prima il fatto stesso di abitare la strada creava una rottura semantica – semplicemente perché nessuno lo aveva fatto prima, almeno in quel modo – ora questo non è più vero, tanto che eventi performativi e istallativi che hanno il compito di decorare le nostre città sono all’ordine del giorno nei bilanci delle nostre amministrazioni pubbliche. Oggi la public art ha raggiunto un grado di professionalità raffinato: tra le ultime cose che mi è capitato di vedere, in questo senso, ci sono gli spettacoli dei Public Movement e quello del catalano Roger Bernat (Domini Public), a Santarcangelo 2010. In entrambi i casi gli spettacoli contavano su una dotazione tecnica notevole, senza la quale non avrebbero potuto avere luogo, e presumibilmente avevano ottenuto delle autorizzazioni dal comune per fare spettacolo, oggetto – mi immagino – di complicate trattative con l’amministrazione pubblica. In questa situazione, più che un gesto rivoluzionario, vedo il normale corso burocratico di un evento d’arte.
 
6. Nonostante queste considerazioni, l’esigenza di un gesto politico pubblico e visibile resta un’evocazione forte. E – lo dico per inciso – lungi da me la tentazione di mettere in contrapposizione l’idea di un teatro che fuoriesce dal teatro con quella di un teatro che ha bisogno di tornare al palco, all’isolamento, all’elaborazione e al pensiero che chiede tempo e studio. Non voglio idealizzare né l’una né l’altra prospettiva. Sono però certo del fatto che la stagione debordante degli anni Novanta ha dato il meglio di sé qualche anno più tardi, quando c’erano luoghi per residenze, teatri veri e propri dove sperimentare una maggiore complessita drammaturgica. In fondo, ottenere quelle cose – e magari anche finanziamenti più stabili e dedicati alla ricerca – era l’obiettivo politico di quella stagione di rivendicazioni. Il teatro negli scantinati era il mezzo. Confondere il fine con il mezzo apre il rischio concreto di un’estetizzazione della rivolta, che è quanto di più lontano dalla rivolta come imperativo etico come la intendeva Camus. L’estetizzazione della rivolta ci spinge a recitare un ruolo: quello di un tipo di rivoluzionari che è pericolosamente contiguo ad alcune delle categorie merciologiche che la post-modernità ha trasformato in categorie estetiche: il “nuovo” e il “giovanile” (e per estensione il “ribelle” e il “rivoluzionario”). Ma questo meccanismo ci spinge dritti dritti verso una costruzione del reale mistificata, propria del linguaggio mediatico a cui, io credo, il teatro è oggi uno dei pochi baluardi. Un esempio emblematico di questo ce lo ha dato la seconda intifada: un giornalista (non ricordo il nome) riportò di come, per le strade di Gaza, una situazione tranquilla di bambini che giocavano per strada si trasformò di colpo, davanti alle telecamere delle emittenti internazionali, in una scena da guerriglia urbana – davanti alle telecamere occorreva mettere in scena la rivolta, per sostenere la propria causa, perché «il mondo deve sapere». Io credo che il teatro debba sempre essere cosciente che il suo opposto, oggi, è questa costruzione della realtà – perché con la sua millenaria riflessione sulla finzione e la verità oggi il teatro è il luogo deputato a smascherare i meccanismi di costruzione mediatica della realtà. Per altro occorre ricordare che “l’estetizzazione della politica” è una pratica che appartiene intimamente ai regimi fascisti: a sottolinearlo era Walter Benjamin, che affermava che la risposta dei regimi comunisti a questa pratica era la «politicizzazione delle estetiche». Ecco, io penso che oggi il teatro, stretto nell’arco di questi due estremi che la società contemporanea ha ereditato, debba tornare ad essere qualcosa d’altro, e cioè ad essere il luogo del pensiero, il luogo di un discorso sul mondo svincolato dalle teorie e dalle pratiche politiche. Un luogo dove esercitare la riflessione e il dubbio.
 
7. Così – per cercare di schiarirmi le idee – sono andato a ripescare una delle mie letture dell’epoca, Richard Schechner, antropologo e regista americano. Perché la parabola del suo pensiero mi sembrava illuminante all’epoca, ma credo che oggi lo sia ancora di più. Schechner parte negli anni Sessanta con un adesione al terzo teatro, alla performing art, nella convinzione che il teatro sia qualcosa che va oltre l’ideale del teatro occidentale borghese, qualcosa connesso al rito, all’evento, che ha a che fare con il vero e non con la finzione, la messa in scena. Questo all’inizio degli anni Settanta. Ma a metà degli anni Ottanta il suo pensiero è mutato: il suo lungo viaggio di pensiero (e non solo) nell’universo della performance lo ha lasciato senza i punti cardinali con cui aveva intrapreso il viaggio. Nell’arco di questo viaggio Schechner guarda con interesse alle nascenti teorie sulla post-modernità, affascinato da una concezione fluida e policentrica della vita e dell’arte, che rompe con la rigidità dei grandi racconti dell’Otto-Novecento. La sua è un’esigenza politica, così come lo era stata l’adesione al terzo teatro. Ma compie un errore molto semplice e comune: crede che il rovesciamento di certi presupposti “negativi” producano necessariamente il loro contrario “positivo”. Ovviamente non è così, non necessariamente.
 
8. In un saggio dell’inizio degli anni Ottanta – La rottura del contesto performativo. Un discorso moderno sul post-moderno – Schechner spiega ciò che si aspetta dalla postmodernità rispetto ai fallimenti della modernità in modo tanto chiaro e analitico che vale la pena ripercorrere alcuni punti del suo decalogo. «L’ipoteticità postumanica e postmoderna che stiamo incominciando a sognare ora» presenta per Schechner questi aspetti chiave:
 
a) è policentrica, e in questo policentrismo «l’esperienza – il flusso – sostituisce l’analisi. Questo policentrismo richiede la costruzione di sistemi sacri e globali». [Ora, la globalizzazione realmente avvenuta è quanto di più lontano dal sacro si conosca, come rilevava qualche anno prima Pasolini; eppure a Schechner sembrava più che normale trasferire quella che era una sua "speranza" – il sacro – sull'opposto di ciò che, correttamente, gli sembrava stesse precludendo la realizzazione del sacro stesso: la modernità umanista e positivista. Inoltre l'idea di sostituire l'analisi con il flusso, oggi, in epoca di flussi mediatici che mirano a mistificare qualunque tipo di analisi critica, ci appare una prospettiva assai meno allettante]
 
b) «Nell’età moderna la gente poteva tranquillamente parlare di assoluti. Nell’età postmoderna ogni serie di rapporti genera trasformazioni valide relativamente alla specifica relazione». [A Schechner pare desiderabile, giustamente, il superamento dei pensieri monolitici del Novecento, ma non ha percezione di quanto il cosiddetto "pensiero debole", oltre ad aprire una prospettiva di tolleranza, renda estremamente difficile "osare pensare il mondo", come ha rilevato l'artista Gregorio Botta].
 
c) «L’uso dei molteplici canali di comunicazione che vanno al di là dell’umano. Ogni cosa, dai codici genetici ai laser, al linguaggio del corpo, ai pulsanti, sembra ‘dire’ qualcosa. Un aspetto della totalità del senso». [Certamente questa 'totalità' del senso è oggi un aspetto acquisito della scena contemporanea, a dimostrazione che l'analisi di Schechner cavalcava interrogativi reali della riflessione artistica di quegli anni; ma il recupero dell'umano e dell'esperienza di questa dimensione, in un mondo dove ogni esperienza è "mediata" alla fonte, è invece oggi uno degli interrogativi che agitano con forza la scena della contemporaneità].
 
d) «Da tutto ciò consegue l’integrazione fra pensiero verbale e non verbale. Poiché il pensiero non verbale non è codificato, si scoprirà prima o poi che la nostra specie può usare diverse forme di pensiero. [...] La danza è un buon modello». [Anche questo presupposto è ormai assimilato dalla scena contemporanea, ma ci sono voluti decenni prima di capire che ciò che interessa di questo ragionamento non è la sua esposizione teorica sulla scena, quanto la sua applicazione all'arte del teatro.]
 
e) «L’interculturalismo sta sostituendo l’internazionalismo»; e ciò secondo Schecher può avvenire perché «assistiamo all’evento di un mondo regolato dall’informazione». [Se il superamento del concetto di nazione è oggi un dato acquisito, il termine "informazione" è invece sotto la lente di ingrandimento più per il suo ruolo di omologazione delle culture che per quello di «libera scelta tra le culture» che prospettava Schechner].
 
9. Questa disamina di un saggio datato 1981 non ha lo scopo di smontare una riflessione vecchia di trent’anni (e che, trent’anni fa, aveva indubbiamente il suo valore). Per altro lo stesso Schechner si rendeva conto delle possibili derive delle sue “speranze” quando scriveva «Può darsi che questa mappa spaventi. A me sì, qualche volta. Potrebbe appartenere a una società totalitaria, o a un mondo orwelliano. Ma potrebbe anche essere liberatoria». Rileggere quell’approccio, tuttavia, è utile a metterci in guardia dalla facile operazione che siamo sempre tentati di fare riponendo tutte le speranze di cambiamento in ciò che, semplicemente, è opposto a ciò che non ci piace, o che ci è precluso. Dietro un atteggiamento simile c’è forse entusiasmo, ma c’è anche il rischio di una povertà d’analisi – e paradossalmente è stata proprio la riflessione sul post-moderno a metterci in guardia sui rischi del “pensiero binario”. Eppure oggi, trent’anni dopo, ci troviamo impantanati nell’empasse di democrazie dell’alternanza sempre meno rappresentative delle aspirazioni dei propri popoli.
 
10. Vorrei concludere con una nota sul futuro. Perché l’esortazione a scendere in strada ha sicuramente di buono il fatto di essere uno sprone al riprendersi il futuro. E’ il futuro la vera cosa negata all’attuale nuova generazione di teatranti; la prospettiva che non esistano più luoghi, risorse e in definitiva prospettive per le nostre professionalità di attori, registi, organizzatori, critici. E a preconizzare la fine della storia, e la conseguente scomparsa del futuro, sono state proprio le teorie sulla post-modernità. La previsione era corretta, in fin dei conti, occorre solo capire se di ciò ci compiacciamo o se a ciò ci rivoltiamo.
La nota sul futuro con cui vorrei chiudere è ancora una volta una citazione da Schechner, o meglio, una citazione di una citazione. Nello stesso saggio l’antropologo statunitense riporta lo stralcio di una lettera sul futuro che gli scrisse Fredrick Turner, editore e scrittore di fantascienza – una delle categorie ancora oggi più titolate a parlare di futuro, a mio modesto avviso. All’epoca le nubi che si addensavano all’orizzonte avevano la forma a fungo della catastrofe nucleare, ma se noi sostituiamo questo termine con la locuzione “crisi economica” ecco che quelle considerazioni ci parlano ancora, e con estrema lucidità.
 
«Siamo in grado di fare precise profezie [...]; la profezia è la stessa cosa dell’azione. Anzi, più semplicemente, dipende dalle nostre azioni quale delle alternative si avvererà. Il futuro non esiste ancora e la consapevolezza di ciò ci rende uomini pubblici e ci impone una sorta di impegno sociale. Perché se le cose vanno male, siamo noi i colpevoli. Il pretesto dell’impotenza non regge, il potere che hanno gli altri è creato dall’immagine che noi abbiamo di esso e nient’altro. Possiamo cambiare questa immagine, sostituendovene un’altra più attraente. Se saremo distrutti da una catastrofe nucleare o ecologica, la causa non sarà imputabile deterministicamente alla tecnologia, a un istinto innato o a una cospirazione delle potenze economiche militari della storia. Sarà perché l’abbiamo scelto, collettivamente, e l’abbiamo scelto perché ci sembrava il futuro più bello, più bello perché lo abbiamo immaginato così. L’arte ha la funzione di esaltare e di salvare il mondo, di immaginare altri futuri che non prevedano il götter-dammerung1 del suicidio di massa. E non faccio appello a leziosi principi morali o non violenti.
Questi non fanno altro che accrescere il desiderio del proibito. Nella fantasia, la maggior parte degli ecologisti freak sono degli assassini di massa. Amerebbero ripulire dalla faccia della terra lo sporco, complicato, sconvolgente, pretenzioso, amabile cancro dell’umanità. L’olocausto nucleare attrae perché sconvolge la storia. Senza grandi sforzi di immaginazione, rende di colpo la nostra generazione più importante di quella di Omero, di Cristo o di Shakespeare. È l’ultima distruzione edipica, l’ultimo concerto punk.
Vuoi sapere cosa penso che accadrà se noi, gli artisti e i creatori di tutti i campi, non facciamo niente? Penso che saremo distrutti perché ce lo siamo proprio voluto.
È una cosa così a buon mercato! […] Meglio questo che dover inventare, pensare, amare, lavorare, rischiare. L’olocausto nucleare è sicuro come la morte. Sai esattamente a che punto sei. È un futuro senza variabili: l’ideale marxista/capitalista».
.
Note:
1. Il götter-dammerung è il mito germanico in cui si descrive la distruzione del mondo e degli dei in uno scontro finale con le forze del male, miti ripreso nell’Anello dei Nibelunghi (nota di Valentina Valentini, curatrice del volume La teoria della Performance, Bulzoni, 1984, dove è contenuto il saggio).

di Graziano Graziani
 

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FESTIVAL

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Osservatorio sul teatro ragazzi

14 - 22 ottobre 2017
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Crisalide
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ottobre 2016
Vie Festival 2016
Arti sceniche internazionali e italiane

22 settembre - 2 ottobre 2016
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Crisalide
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Contemporanea Festival 2015
Le arti della scena

Febbraio - aprile 2015
Nelle pieghe del Corpo
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ottobre 2014 - marzo 2015
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Santarcangelo · 14
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Santarcangelo · 13
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SANTARCANGELO •12
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Arca Puccini - Musica per combinazione
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