Nei teatri bolognesi, da qualche mese, capita di assistere a monologhi di giovani attori e attrici che precedono gli spettacoli. Il pubblico si reca in alcuni luoghi “ufficiali” del circuito cittadino, dalla stanca Arena del Sole al Teatro delle Celebrazioni, una sala privata con un cartellone prevalentemente commerciale. Prima che lo spettacolo in programma abbia inizio ci sono le presentazioni di Civile, progetto di Fiorenza Menni (Teatrino Clandestino) e della studiosa e organizzatrice Elena Di Gioia. Sono dei ritratti, dei racconti autobiografici scritti e provati durante settimane di lavoro precedenti. Gli attori e le attrici parlano della loro vita, della scelta di individuare nell'arte il proprio posto nella società. Qualche settimana fa, a Roma, questi ritratti “civili” hanno convissuto tutti nello stesso spazio, l’Angelo Mai Altrove, che da un anno e mezzo ha riaperto in zona Circo Massimo ed è divenuto uno snodo cruciale del teatro che vive.
In Italia, oggi, c'è un teatro che vive e uno che sopravvive, eppure è il secondo a garantirsi la quasi totalità di date, produzioni, finanziamenti. Mettiamo subito le cose in chiaro in questo primo atto di una rubrica che racconterà una scena spesso emarginata dai circuiti ufficiali: non stiamo parlando di “ricerca”, “innovazione” o “sperimentazione”, ma di percorsi artistici che sono il teatro che vale la pena oggi seguire, amare, criticare.
A tutto il resto possono tranquillamente pensare le sezioni spettacolo dei quotidiani, o i critici, giornalisti e gazzettieri che operano come se gli ultimi trent’anni di teatro italiano non fossero mai accaduti. Parleremo dunque di teatri presenti per tenere fede al nome che ci siamo dati quando nel 2005 abbiamo deciso di creare un gruppo di critici delle arti sceniche, “Altre Velocità”, perché per stare al passo di ciò che accade è necessaria una velocità differente, una temperatura che deve rifiutare (o almeno provarci) la melma di accettazione che ci pervade, la resa ai diktat della spensierata frivolezza che ci spesso ci assale, nessuno escluso.
A Roma le tre attrici e i due attori stavano mescolati al pubblico in uno spazio circolare e irregolare, con sedie su vari lati.
Civile sono cinque monologhi: si parla di responsabilità del fallimento, di adattamento alle condizioni di un’epoca, di rischio, ribellione, accettazione e mancanza di possibilità. Eva Geatti, Andrea Alessandro La Bozzetta, Alice Keller, Andrea Mochi Sismondi, Laura Pizzirani hanno inventato delle narrazioni basandosi su fatti realmente accaduti. Non stupisca la contraddizione apparente, perché i racconti dimostrano che non importa stabilire quanto sia veritiero ciò che ascoltiamo e vediamo, piuttosto conta quanto è “vero” ciò che accade, anche a discapito della verità dei fatti. Nel mezzo, dunque, c'è una forma.
Una delle attrici parla di sé in terza persona, riflettendo della necessità di darsi delle possibilità, di dubitare, di rischiare; nel frattempo monta ossessivamente una serpentina di cavi elettrici, infine sbuca dal fondo in tutù camminando sulle punte, coperta dalla vita in su con un sacco nero. Un attore si innalza al soffitto arrampicandosi con una corda, elevandosi al di sopra della superficie (della realtà quotidiana, delle proprie possibilità); dice di considerare l'adattamento una forma di intelligenza ma al contempo anela alla ribellione; un’altra racconta di essere stata invitata a una collettiva di giovani artisti sul tema degli spazi, lei vuole concentrarsi sulle tracce che gli uomini lasciano nelle case che abitano, si immagina a sessant’anni nel pieno della sua carriera, solo ben pagata e con la possibilità di raccontare degli altri e non solo di sé. Le zone più dichiaratamente autobiografiche, e meno filtrate da una forma, stanno forse nell'analisi delle condizioni di lavoro attuali, quando si dice che essere attori in Italia è quasi impossibile, a meno di non svendersi in progetti in cui non si crede, e in alcuni passaggi meno tesi a rilanciare nonostante le difficoltà, quando si afferma che il contesto non rende necessaria la presenza dell'artista. Queste zone, meno mediate e quindi più esposte, si prestano maggiormente a un dissenso di chi guarda, rivelandosi però anche latrici di quell'alterità necessaria al dialogo.
Oggi, in Italia, c’è un teatro che vive e uno che sopravvive. C’è anche un teatro “politico”, quando riguarda la polis, la comunità a cui si sente di appartenere, locale o globale che sia. Il teatro che vive, solitamente, è per statuto un teatro politico. Eppure – forse è giunto il momento di affermarlo – c'è anche un teatro un po’ più politico, un po’ più consapevole dell’urgenza dell'apertura. Questo è il caso di Civile: nella sua vocazione di incontro, quando tenta di uscire dal ghetto in cui viviamo per incontrare pubblici di altre stagioni; nella sua scelta di racconto biografico, quindi di comunicazione e condivisione, che però non si “abbassa” mai a un millantato livello di immediatezza in grado di arrivare “a tutti” – come fanno alcuni considerando stupidi gli spettatori – ma al contrario rilanciando attraverso la verticalità di una forma, cioè dell'arte. Civile è infine politico nella sua idea di trasmissione, merito della sapienza attoriale di una delle attrici migliori che abbia il teatro italiano: la parola attrice non basta a Fiorenza Menni, o almeno non le basta l'andare in scena; la Menni coltiva una persuasione che la porta a condividere tratti di percorso con artisti con meno esperienza, cosa oggi molto rara; il discorso sull'attore odierno è complesso e articolato, basti qui sottolineare che Civile rende perlomeno evidente che attorno a questa parola gravitano molte possibilità, se solo si avesse voglia di attraversarle. “Attore” sono tanti ruoli e molte responsabilità, oggi ancora più urgenti dato il proliferare di pseudoattori televisivi e di pseudoscuole recitative.
Si prova una strana sensazione, dopo aver udito le parole degli attori di Civile. I loro pensieri sono contraddittori, o comunque a tratti distanti, difficilmente compatibili tra loro. Invece accade che quelle diversità s’inscrivano in una visione molteplice e polifonica, che sa comporsi. I cinque monologhi spingono dunque a interrogarsi sulla stessa identità di chi si definisce attore, dentro e fuori l'arte. Attore, dopo Civile, è dunque chi riesce a sostenere le contraddizioni che ci attraversano. Attore è chi incarna un conflitto e ce lo rimanda senza banalizzarlo, senza costringerci a una scelta oppositiva, a una dinamica di reciproca esclusione: “Mi è stata data la libertà di scegliere di fare l'artista e ho deciso di farlo”. Quel limite tra ciò che si vuole e ciò che gli altri vogliono per noi, quella crepa fra scelta personale e imposizione esterna, quella lotta costante fra innalzamento e caduta dei nostri stessi desideri sta tutta qui, in questa frase ottundente. È significativo che sia un’attrice a pronunciarla, in uno dei pochi spazi di amore, di crisi, di contraddizione (di libertà) rimasti nella nostra società.