Fotografare il teatro è un atto consueto, meno frequente è trovarsi di fronte risultati in grado di valicare il limite della documentazione per produrre immagini portatrici di senso. Non esiste un teatro così come non esiste un modo di fotografarlo, e ognuna delle due discipline ha insita la necessità di ribadire a ogni gesto il punto di vista al quale aderisce. Il teatro può procedere per interrogativi o accomodarsi su pacifici racconti, rivolgere richieste precise a chi guarda o scegliere di descrivere e approdare a circostanziate conclusioni. Il fotografo di teatro, a sua volta, può decidere di sostare di fronte all’opera in via illustrativa, documentativa, letterale, oppure entrarvi dentro e tentare di cogliere gli spunti manifestati, scivolando tra gli attori o spiando dalle spalle del regista, o ancora reagendo allo spettacolo con un altro spettacolo, con scatti che accendono nuove domande, scartando ogni possibile didascalia.
Nel lavoro di Enrico Fedrigoli è facile vedere come teatro e fotografia si incontrino in un punto preciso, verso un cuore esatto che batte puntualmente nella stessa area d’interesse: il vetro smerigliato non insegue orizzonti casuali, capitati accidentalmente di fronte al cavalletto, ma si muove dietro ciò che a sua volta è mobile, mai stanco, mai consolato dai traguardi raggiunti da questa o quell’opera. Sfogliando molti dei libri pubblicati negli ultimi dieci anni a proposito del teatro “di ricerca” è difficile non incontrare le fotografie di Fedrigoli, testimone dal 1994 di spettacoli che hanno segnato la storia del teatro italiano: residente a Sant’Ambrogio della Valpollicella (VR), dopo tanti anni dedicati alla fotografia di architettura e di paesaggio (i portfoli più importanti e più ricchi sono quelli su Berlino, sul Maghreb e il più recente su Ravenna pubblicato in Ravenna-viso-in-aria nel 2003), Enrico Fedrigoli si reca al Festival Interzona di Verona proponendosi come fotografo della manifestazione. In quell’occasione vede i lavori di Socìetas Raffello Sanzio, Fanny & Alexander, Masque Teatro, Motus, Teatrino Clandestino, nomi che poi ritorneranno negli anni successivi, insieme ad altri grandi artisti come il Teatro delle Albe, Marco Baliani e Francesca Proia, a posare per lui di fronte al suo banco ottico, strumento prediletto tanto per l’architettura quanto per la scena. Ecco dunque, da subito, due caratteristiche essenziali della fotografia teatrale di Fedrigoli: la scelta di sostare in una precisa area teatrale e di reinterpretarla attraverso il banco ottico, uno strumento tecnicamente complesso e “antico”, che impressiona immagini su lastre e richiede lunghi tempi di esposizione e di posa immobile.
L’occasione di questo articolo è la mostra ES, che si tiene dal 13 al 16 settembre al Festival Crisalide di Forlì diretto dalla compagnia Masque Teatro. ES sono le iniziali di Eleonora Sedioli, performer della compagnia Masque diretta e fondata da Lorenzo Bazzocchi esattamente vent’anni fa, nel 1992. Enrico Fedrigoli affronta alcuni degli ultimi lavori della compagnia, in particolare Just Intonation e Pentesilea, proseguendo alcune linee d’indagine sull’attore già presenti nei suoi lavori precedenti.
Nella sua ricerca fotografica [gallery a fondo pagina], Fedrigoli non si accontenta di restituire una o più immagini che siano rappresentati vede gli spettacoli su cui opera, ma da ciascuno di essi cerca di trarre una visione ulteriore che mai si pone a commento dell’immagine già data dal teatro. Se il teatro è di per sé il “luogo del vedere”, ciò che tenta di fare questa fotografia di scena è “vedere oltre”, ragionando sull’elemento principe della scena, ovvero l’attore e il suo corpo. Il banco ottico ha bisogno, per le sue necessità tecniche, che lo spettacolo si svolga appositamente per il fotografo: la sua sensibilità al movimento impedisce di scattare durante il flusso e richiede pertanto alla compagnia o all’artista di rimettere in scena una determinata visione. Il lavoro di Fedrigoli sfrutta al massimo questa necessità, cogliendo l’occasione di fare senza rifare, ma costruendo con gli elementi a disposizione fotografie in grado di contenere non una singola scena, ma un più diffuso significato di quell’opera. Accade così, più volte, che le immagini costruite da Fedrigoli non siano direttamente rintracciabili nello spettacolo: non esistono se non in trasparenza, invisibilmente, come derivate da una lettura complessiva che si radicalizza nello sforzo della composizione di una fotografia, dove gli attori agiscono in pose immobili non inferiori ai due minuti e per le quali l’intera squadra teatrale deve lavorare appositamente. Esistono poi lavori realizzati insieme ad alcuni performer fuori dalla scena originaria per affrontare uno studio diretto delle qualità di presenza e interpretazione di ciascuno di essi. Attori e attrici incontrano Fedrigoli in sessioni apposite nelle quali entrambi, fotografo e soggetto, tentano di manifestare un interrogativo preciso, nato di volta in volta dalla relazione che l’immagine in costruzione pone alle figure della scena.
Il tema affrontato con la danzatrice ravennate Francesca Proia è l’energia sprigionata dal corpo, trasmessa attraverso figure elaborate dalla disciplina dello yoga su cui si regge l’immaginazione della coreografa. Le fotografie create con Francesca Proia raccontano a chi le guarda non solo di un percorso dentro lo yoga, ma di un corpo allenato alla tensione, al coagulo di energie pronte a sbriciolare la separazione tra scena e platea, per costruire un corridoio di intesa, un flusso empatico che coinvolge direttamente lo spettatore. Questo portfolio, frutto di due anni di intenso lavoro, inaugura anche una specifica ricerca sul femminile, che prosegue negli anni successivi con il progetto “Tre attrici”, che coinvolge Chiara Lagani (Fanny & Alexander), Fiorenza Menni (Teatrino Clandestino) e Ermanna Montanari (Teatro delle Albe) e che si propone di mostrare la breccia di un “vissuto quotidiano” mantenendo la consapevolezza del proprio essere attrici, partendo da un elemento rubato alla vita vissuta per farlo esplodere in uno stato di massima presenza e massima espressione di sé nell’occasione costruita di un teatro intimo.
Quotidiano e femminile convergono nel lavoro che Fedrigoli affronta con Sara Masotti, attrice per Fanny & Alexander, Zapruder filmmakersgroup, e ora autrice di proprie produzioni: si ritorna al soggetto singolare, e il tema del vissuto è attraversato in maniera ancora più estrema, ricostruendo le fasi di una giornata ideale – il risveglio, la colazione, il bagno in piscina, il trucco davanti allo specchio – attraverso la lente di un delicato erotismo, che rendono quella quotidianità onirica e trasognata. Calata in ambienti fuori dal tempo, in stanze arredate con dettagli anni ‘50, vestiti che cambiano continuamente stile e uno sguardo al contempo spavaldo e languido, la Masotti è una donna fatale molto concreta e vicina, ma dalla mente imperscrutabile; è spiata e inseguita da qualcuno che vuole a tutti i costi carpirle dei segreti, e lei, pur non rivelandoli, non si nega il piacere di guardare negli occhi colui che la coglie nel mezzo dei suoi pensieri.
ES si pone (anche formalmente) come punto d’incontro tra più ricerche fotografiche condotte da Fedrigoli e si concentra sullo “stare in scena”; oltre a essere un’ultima tappa del percorso sul femminile, è anche un lavoro strettamente focalizzato sul corpo del performer: converge infatti nelle tavole di ES anche il lavoro svolto su tre soggetti maschili, gli interpreti di Heliogabalus di Fanny & Alexander: in entrambe le occasioni ci viene mostrato un corpo scolpito, che nel caso di Heliogabalus è amministrato dal buio da cui emerge e dall’intensità sentimentale di ogni volto, mentre per la sintonia si instaura con gli elementi scenografici della scena e i materiali di cui sono composti. La pelle della performer si fa ferro senza ruggine, e lei stessa diviene viva statua di bronzo, massa muscolare che non teme la competizione con macchine o architetture, il pianoforte aperto di Just Intonation o le scenografie di Pentesilea, oggetti di media e grande misura realizzati artigianalmente da Masque con legno, ferro e parti elettriche, macchine che “si muovono da sole” e che dialogano con la presenza della Sedioli, innescando la tensione di una lotta per la sopravvivenza, di una resistenza emotiva che si fa materia teatrale. E forse l’ES del titolo della mostra rimanda anche all’Es freudiano, quella componente psichica che pervade l’uomo e che trattiene pulsioni ed istinti di qualità erotica ed aggressiva. Questi elementi inconsci di ferocia si smascherano proprio nel mito di Pentesilea, eroina violenta e aggraziata, fanciulla cresciuta tra le Amazzoni e che fino alla morte conserva sul volto un irresistibile fascino, guerriera che nella rilettura di Kleist, a cui lo spettacolo di Masque si ispira, divora il corpo di Achille per amore.
La fotografia di Enrico Fedrigoli si staglia nel panorama delle immagini di scena per la sua capacità di distaccarsi dall’oggetto spettacolare, divenendo percorso di visione autonomo ma in aperto confronto con le opere che il fotografo conosce da spettatore. Complice di molti artisti, in particolare di Fanny & Alexander con cui ha stretto un sodalizio poetico e con il Teatro delle Albe per cui ha curato la realizzazione di numerose locandine e diversi reportage scenici, Fedrigoli propone una visione radicale e rallentata del teatro, muovendosi con il suo pesante strumento tra le sale italiane in cerca di immagini da costruire, da incidere su lastre che provvede da sé a sviluppare e stampare nel suo studio. Propone una visione fatta di nutrimento e di ascolto, trascorrendo intere giornate e lunghi periodi con l’artista che gli fa da soggetto. Propone una visione avventurosa e critica, senza accettare mai che il teatro sia solo ciò che appare, ma che possa essere attraversato fino a svelare qualcosa che si nasconde fra le scene, fra le maschere, da qualche altra parte oltre la sala teatrale.