Un pianista esegue per dodici giorni 24 h su 24 John Cage, Morton Feldman, Erik Satie e altri; di notte, a Palazzo Re Enzo nel cuore di Piazza Maggiore, si proiettano film di fantascienza post-apocalittici; in uno storico teatro di prosa ormai lasciato in mano ai richiami del commercio è un programma uno dei coreografi di punta della ricerca europea. Nata dall'unione di Fisco e di Netmage, si presenta a Bologna la prima edizione di Live Arts Week, diretta da Xing. Alle soglie dell'apertura, abbiamo posto alcune domande a una delle curatrici della “settimana”, Silvia Fanti
Come siete passati dal concetto di “Spettacolo contemporaneo”, che descriveva le proposte del passato festival “Fisco”, a quello più generale di live arts?
Una decina di anni fa è stato fondamentale un primo spostamento. Dal concetto di interdisciplinare siamo arrivati a “indisciplinare”, che comunque faceva riferimento ad aree e tecniche in relazione alla nostra esperienza di operatori culturali. L'attuale live arts segna dei contorni che ancora una volta sfumano, in cui diventano più importanti le personalità artistiche piuttosto che gli “output”, gli oggetti. Lavorando sul contemporaneo le barriere cadono e non possiamo che parlare di arti viventi, segnate da una temporalità e da una spazialità, dall'esperienza di un accadimento. Live arts ci sembra una macrocategoria che racchiude tante forme di accadimento dal vivo. Per Xing è stato naturale arrivare a tale forma, che fra l'altro è un rilancio. Già negli anni settanta si parlava di live arts nelle sottocategorie della performance, formula che è poi uscita dall'uso comune. Nel catalogo del festival troverete una serie di manifesti che possono orientare rispetto a uno sguardo, a un percorso. Fra i tanti, ci attrae il concetto di “composizionismo”, che deriva da riflessioni sulla scienza e sull'attuale. Si delinea un quadro in cui è impossibile avere dei punti fermi, degli statement definitivi. Non è però bricolage, accostamento occasionale, ma spazio lasciato a differenze che convivono, all'eterogeneo. Live Arts Week ospita pensieri molto diversi dal punto di vista delle estetiche, ma anche come “caratteri”. Marino Formenti, che abiterà lo spazio Nowhere 24 h su 24, parte da una forma di “classicismo”, per poi metterlo in discussione. La scena di Anversa lavora sulla frammentazione, su dei reperti che potremmo chiamare neoarcheologici. Ben Rivers mette insieme fantascienza e primitivismo. Ci sono dunque degli spazi di invenzione, si tratta di vedere come le cose vengono accostate. Il risultato, in qualsiasi ricerca, non è stabilito a priori dall'inizio ma viene seguito nella sua processualità.
Quale, allora, il portato di differenza rispetto ai punti fermi hanno imposto le ricerche artistiche degli anni '90?
Si tratta di accettare l'esistente, ma con un discorso sul potere, sulla potenza. Esiste una forma di rafforzamento della presenza che non sia aggressivo? La sparizione, ma anche una capacità di sostenere sé stessi e le proprie idee. Non si tratta di programmi di governo, come succedeva nella avanguardie storiche, ma questo non corrisponde necessariamente a una debolezza estrema. La proposta sta nella compresenza, appunto. Una delle immagini che hanno scelto Cristina Rizzo e Lucia Amara per il loro progetto sugli “esercizi di grazia” è un grafico sul 2012, anno della convivenza, e sulla struttura del mare. Mi sembrano due immagini mentali interessanti, grosse dimensioni fatte di maglie infinitamente piccole.
Le ricerche artistiche e teoriche ci dicono quanto il concetto di opera si sia ampliato, e possa ritrovarsi in un pensiero, in una relazione. Anche pensando alla diminuita importanza degli “oggetti”, per usare le tue parole, che limite vi ponete per preservare la verticalità, la vertigine dell'opera? Se una certa idea “verticale” di opera d'arte è stata definitivamente erosa, come non disperderla nella totale orizzontalità?
L'assenza dell'oggetto appartiene all'arte concettuale, non è la nostra strada, non credo ci debba essere una sparizione totale. Dal mio punto di vista il focus è sul tempo. Sulla somma di microeventi individuali, in cui la posizione dello spettatore e del frequentarore è centrale. Non ci sono solo i segnali che l'artista lancia verso il mondo, al centro è l'esperienza di una processualità che comprende errori e debolezze e invita a tenere desta l'attenzione. Lusso è un'altra parola che userei: il palinsesto di Live Arts Week propone eventi con tempi dilatati (il film processuale di Hartmut Geerken dura otto ore, Formenti suonerà a Nowhere per dodici giorni) ma anche molto bruschi. Il nodo da affrontare, curatorialmente, sta nel saper fare i conti col tempo e con lo spazio dell'accadimento. Dopodiché non si possono dirigere completamente i fenomeni, ma creare le condizioni affinché accadano è possibile. Live Arts pone una domanda su una dimensione che definirei anticonsumistica. E questo riguarda la vita, la necessità di rallentare.
Occasionale è una delle parole che ricorrono nella presentazione del progetto, chiamando in causa una identità/tema astratta, forse totalmente “aperta” come Gianni Peng. E' una sfida al totale aperto? Quanta occasionalità può permettersi lo spettatore?
Non si tratta di caso, piuttosto di totale focalizzazione. Stiamo parlando di ricerche avanzate, non credo che tutto debba essere comprensibile da chiunque. Ci possono essere avvicinamenti naturali, progetti più accessibili e altri meno, questo sta nelle dinamiche di ogni curatela di un festival. Non si tratta di lavorare sul prototipo dello spettatore perfetto, ma sul tentativo di abbassare le aspettative di visione dello Spettacolo. Ives-Noel Genod farà un progetto all'Hotel Palace, lavorerà con le condizioni date, con un albergo in funzione, è una sfida alla sottile differenza o ambiguità che per lo spettatore intercorrerà fra le azioni nate dal disegno registico e il piano della totale realtà. Non è forse indispensabile una volontà di visione, certamente è necessaria molta attenzione, è un festival per non frettolosi, si tratta di sostare nei luoghi e di gustare le differenze.
Live Arts Week sembra proiettarsi nella dimensione protetta di Raum attraverso la proposta dei “Salons”, spazi in cui si mostrano ricerche in atto, non concluse. In questo contesto, che domanda vi ponete sulle ricerche artistiche cittadine e regionali?
Siamo da sempre più interessati ai formati, a una immediatezza di visione, più che alla ricerca di ciò che si muove in determinate aree geografiche. Raum permette di mostrare, di far conoscere percorsi autoriali più o meno maturi. Lo Spazio Carbonesi di Live Arts è dedicato a un tipo di ricerca simile, non a caso propone eventi al tardo pomeriggio o di notte, alle 23. Lo spettatore deve metterci un suo apporto, una “voglia”. Salons è una terminologia ottocentesca, legata alla pittura, noi l'abbiamo mutuata da Antonia Baehr, che nel suo percorso invita amici e conoscenti in una dimensione di esposizione intermedia. Mi interessa anche lo scarto temporale, trovo che certe parole vadano riabitate.
A Bologna mi pare di vedere una sorta di stagnazione. Xing, pur osservando da vicino ciò che accade in città, non è interessata specificamente a Bologna, anche perché tra Ravenna e Amsterdam c'è la stessa distanza temporale. Vedo esperimenti legati a talune forme di teatro non particolarmente vitali, probabilmente si tratta anche di un discorso relativo agli orientamenti, agli interessi di Xing.