Giorgio Testa è psicologo dell’età evolutiva e operatore teatrale. Occupatosi a lungo dei rapporti tra teatro ed educazione, ha fatto parte del Movimento di cooperazione educativa e ha diretto, dal 1997 al 2010, il Centro teatro educazione (Cte) dell’Ente teatrale italiano (Eti), struttura che si prefiggeva di valorizzare la conoscenza e la frequentazione del teatro sin dalla prima infanzia. Attualmente promuove a Roma il lavoro della Casa dello spettatore, nata per realizzare percorsi di formazione del pubblico di tutte le età e oggi a pieno titolo tra i progetti dell'Agita, ente nazionale per la promozione e la ricerca della cultura teatrale nella scuola e nel sociale.
La tua attenzione nei confronti del pubblico si è rivolta per anni ai piccoli, ai giovani spettatori. Mi viene in mente una frase che ripeti spesso quando si parla di teatro ragazzi: per chi lavora in questo campo la domanda è perché si sceglie un destinatario, non un genere…
Possiamo dire teatro ragazzi o teatro per l’infanzia e la gioventù. La sostanza non cambia. Il punto è che per dare un nome a questo settore abbiamo sempre dovuto tener conto del suo pubblico. Per me questo vuol dire che se sei un artista o un operatore teatrale e decidi di rivolgerti a un bambino, a un giovane, dietro al tuo lavoro non può non esserci un progetto pedagogico, un’idea degli effetti che l’incontro avrà sul suo percorso di formazione; né puoi permetterti il lusso di avere delle idee qualsiasi a riguardo. Altrimenti perché l’avresti scelto come interlocutore?
Come si educa un bambino al teatro, secondo la tua esperienza?
Per risponderti devo tornare un po’ indietro nel tempo, agli inizi della ricerca dell’Etiscuola (1997, ndr), quello che poi ha preso il nome di Centro teatro educazione e ai risultati che scuola e teatro raggiungevano allora dopo quasi trent’anni di battaglie politico-culturali. Tieni conto che nel 1995 veniva siglato il protocollo d’intesa tra il Ministero della Pubblica istruzione e l’Eti; un atto dalle ricadute importanti, perché l’educazione al teatro veniva riconosciuta ufficialmente come uno degli elementi della formazione giovanile.
A quel punto, io ho cominciato ad affrontare un problema considerato ancora meno di adesso: se il nostro scopo era quello di dar vita a un percorso educativo permanente, non potevamo preoccuparci solo di come promuovere la produzione degli spettacoli, dovevamo guardare anche alla promozione della visione. Il teatro ragazzi era una parte del discorso, non il tutto.
C’era da riflettere sulla teatralità in generale. E la teoria su cui ci si basò - valeva ieri ed è valida oggi per tutte le arti che abbiano come destinatario le giovani generazioni - si fondava su tre diversi momenti.
ll fare, perché per conoscere un altro linguaggio i bambini devono praticarlo, cosa che per noi voleva dire osservare da vicino tutto il filone delle pratiche teatrali a scuola. Al Cte le abbiamo sempre chiamate così perché in questo gruppo di azioni, oltre all’animazione e alle recite, rientrano anche quelle più funzionali; è il caso della maestra di inglese che insegna la lingua inscenando un dialogo, per esempio.
Poi c’è il vedere, e quando dico “vedere” mi riferisco a una frequenza non episodica, ma a visioni organizzate per gruppi di spettacoli, in modo tale che non si abbia la percezione di un evento eccezionale.
E ancora, ci dev’essere la possibilità di ragionare sul tipo di linguaggio e sulle sue differenze rispetto a tutti gli altri.
Tre momenti che richiamano un altro tipo di percorso formativo: quello degli educatori che si occupano della relazione tra il bambino e l’arte…
Qui sta la domanda di fondo, che è “come portare a vedere”, cioè come promuovere una visione intelligente che nel tempo possa dar luogo all’abitudine di frequentare il teatro amandolo. Con la consapevolezza che oggi, in modo più radicale rispetto a vent’anni fa, c’è bisogno di una riflessione su tutta l’educazione al vedere.
I bambini possono essere fruitori solo se genitori e insegnanti li portano in teatro, quindi il ruolo dell’adulto in quanto mediatore culturale va affrontato. Lo dico anche da un punto di vista strumentale, perché si tratta di chi trasmette ai piccoli le pratiche del quotidiano.
Personalmente, credo che il primo passo di ogni centro teatrale stia nell’individuare gruppi di pubblico mediatore. Sul come farlo non ci sono ricette prestabilite, bisogna muoversi continuamente sul terreno dell’intervento e della ricerca. Certo, rivolgersi alle famiglie è un po’più complesso, ma il luogo da cui partire è sempre la scuola. Poi non dobbiamo dimenticare dell’adesione possibile di quanti stanno già cercando. Penso soprattutto a quella fascia di genitori tra i trenta e quarant’anni che si sta ponendo il problema di come educare voltandosi indietro, tentando un recupero dei passati modelli pedagogici.
Il secondo, invece, sta nel fornire loro i giusti strumenti per farsi carico dell’impresa.
In alcuni dei seminari da te rivolti alle maestre di scuole dell’infanzia ed elementari di Roma, ho avuto la possibilità di osservare la relazione tra adulti e bambini in teatro. La sensazione forte è che gli insegnanti a volte abbiano due difficoltà: fanno fatica ad accettarsi come spettatori di teatro ragazzi e non riconoscono la modalità di fruizione partecipativa dei bambini; non li lasciano reagire, a volte se ne vergognano. Quali sono i temi centrali da affrontare con gli educatori?
Il punto è che l’adulto si muove su due binari: è uno spettatore, ma allo stesso tempo deve saper riconoscere un altro modo di guardare, chiedendosi come entrare nel rapporto tra bambino e spettacolo, che a volte è paradossale rispetto a ciò che immaginiamo.
I nodi centrali riguardano il tipo di scelta, la gradualità della proposta e la responsabilità di cui ci facciamo carico quando scegliamo al posto di qualcun altro.
Se si invita o si porta uno spettatore a teatro - se ci si occupa di definire una programmazione - bisogna sapere come passare dalla visione di uno spettacolo (proprio quello!) a un altro, qual è il motivo che ci guida, come si dosano elementi di conoscenza e non conoscenza per sé e per gli altri.
Insomma, come si struttura ciò che abbiamo chiamato “didattica della visione”. Operazione che inevitabilmente porta ad affrontare la questione di come formare all’impresa l’adulto “mediatore”, cercando metodi utili per un suo avvicinamento non casuale all’arte. Tutti temi e riflessioni oggetto della ricerca del Cte, fino all’anno di chiusura dell’Eti (2010, ndr).
Dal 1995 a oggi, quali credi che siano i reali bisogni della scuola pubblica quando esce per andare a teatro, o lo ospita?
La società è cambiata, il rapporto tra le parti si è allentato. Sicuramente la scuola ha delle difficoltà interne legate alla gestione di un incontro che richiede capacità di scelta e competenze di fruizione specifiche. Preso atto di questo, forse dovremmo individuare gli insegnanti più sensibili, capire cosa impedisce loro di esserlo quando si parla d’arte, e da lì ripartire.
Ma sono convinto che tutto funzionerebbe meglio se si rifondasse un patto tra teatro e scuola, una sinergia tra istituzioni mosse dallo stesso interesse: il bambino in età evolutiva.
Chiaramente per la formazione estetica vanno stanziati dei fondi, varati degli atti legislativi.
L’Italia dovrebbe incentivare quella pratica ben strutturata in altre parti d’Europa per cui stage, crediti universitari e corsi di aggiornamento per gli insegnanti vengono associati alla fruizione del teatro nelle sue varie declinazioni, rendendola un’opzione garantita. C’è da pensare alle infrastrutture, a come la scuola raggiunge il teatro, e viceversa. Così come sarebbe utile che ci fosse una pianificazione ragionata della distribuzione teatrale e qualche struttura di riferimento centrale simile al defunto Eti. Gli spettacoli che si destinano ai cittadini dai 0-14, non possono restare relegati in una sola regione.
Questo eviterebbe che il problema pedagogico venisse discusso per compartimenti stagni, così come sta accadendo.
Negli anni settanta pensavamo a un sistema formativo integrato. A mio parere, qui si situa il punto di svolta. Bisognerebbe creare in ogni territorio una progettualità condivisa tra teatranti ed educatori, o meglio, tra tutti coloro che offrono arte alla scuola, compresi musei e biblioteche.
Per i centri teatrali, o per i festival, ciò vuol dire produrre spettacoli e al tempo stesso cucire loro attorno progetti più ampi: dar vita al proprio teatro e contestualmente “accompagnare” la nascita del pubblico che a quel teatro si avvicina.
E visto che nell’“epoca senza risorse” chi abita il teatro ragazzi non può chiederle solo per sé, ma deve farlo in combutta con quanti hanno a cuore il problema della formazione, gli stessi artisti dovrebbero preoccuparsi di ricostruire un dialogo con la scuola, senza la quale il teatro ragazzi non esiste.
Le tue ultime osservazioni mi fanno venire in mente il titolo che quest’anno la compagnia Giallo Mare Minimal Teatro sceglieva per i due momenti di incontro tenutisi durante il festival “Teatro fra le generazioni” a Castelfiorentino: Il teatro ragazzi esiste? Da più punti di vista - non esclusa la mancanza di un discorso critico che ne dia una visione d’insieme - la domanda è un sintomo del presente. Ritorno a quel festival anche perché hai partecipato in prima persona agli incontri sulle esperienze regionali e nazionali di teatro ragazzi.
Momenti come quello di Castelfiorentino sono connessi a un bisogno di riflessione più ampia. Il fatto è che attualmente non siamo in grado di formulare una visione complessiva, piuttosto dobbiamo porre le condizioni per poterlo fare. Il teatro ragazzi esiste, ma è bene capire di cosa si sta parlando, raccontare ogni esperienza dandole la giusta collocazione. Personalmente credo che il nostro compito ora stia nel fare inchiesta, con umiltà. E nell’osservare, spregiudicatamente, cioè senza pre-giudizi.
Cerchiamo, noi che siamo coinvolti direttamente, di capire quali sono le politiche condotte dai centri teatrali o dalle singole compagnie; indaghiamo le trasformazioni avvenute nel tempo al loro interno.
Per me sarebbe molto interessante, per esempio, conoscere le vicende di gruppi storici che sono riusciti a definire un loro marchio di fabbrica pur mantenendo una qualità media costante.
Penso al Teatro delle Briciole di Parma che si è rinnovato immettendo nel proprio percorso produttivo giovani compagnie di ricerca, con il progetto “Nuovi sguardi per un pubblico giovane”; al Teatro Kismet Opera di Bari o a La città del Teatro di Cascina, con la sua tradizione di teatro civile per l’infanzia.
Per le compagnie di storia lunga, mi chiedo anche se e dove sia stato affrontato il problema della trasmissione...
Tema di cui si discuteva già negli anni novanta, dato che non risulta sia mai stato fatto in maniera organica. Rispetto all’oggi, invece, c’è da capire quale sia il peso del premio Scenario infanzia, rivolto ad artisti sotto i trentacinque anni d’età (premio a ricorrenza biennale bandito dall’Associazione Scenario, ndr).
Vorrei comunque fare una premessa fondamentale a qualsiasi tipo di discorso: è importante non creare barriere che indichino chi ha il diritto di parola. Perché può parlare di teatro ragazzi chiunque lo fa e comunque lo faccia, altrimenti viene meno tutto il ragionamento.
Imputi al sistema teatrale una certa chiusura da questo punto di vista?
Sì. Soprattutto credo ci sia una mancanza di comunicazione interna allo stesso settore. Alcuni gruppi continuano a sentirsi gli unici detentori della ricerca, si ammantano di ideologia e non conoscono la variegata realtà del panorama italiano. Atteggiamento che non giova al teatro. Non fa che tenere in vita le corporazioni dei felici pochi contro quelle degli infelici molti. Invece bisogna avere un’idea colta e complessiva della situazione. Questo significa anche sapere chi è, oggi, il bambino, e aprirsi al modo in cui lo formano tutti gli altri prodotti e “sguardi” pensati per lui da un mondo adulto.
* Articolo già pubblicato su "Gli Asini - Rivista di educazione e intervento sociale"
numero 24, novembre/dicembre 2014, Roma”
Per approfondire
casadellospettatore.org
agitateatro.it
gliasinirivista.org