In occasione della presentazione a Bologna dello spettacolo La rivoluzione è facile se sai COME farla (14 maggio 2016, Tpo), pubblichiamo un'intervista a Nicola Borghesi, regista e protagonista della pièce. La conversazione che segue riguarda il festival 20 30, rassegna costruita e rivolta a persone sotto i trent'anni che si è svolto a Bologna nel 2014 e 2015.
Lodo Guenzi e Nicola Borghesi
Dopo il successo della prima edizione (2014), il Festival 20 30 è tornato con una nuova domanda: "Rivoluzione?". Il progetto vuole coinvolgere principalmente la generazione di artisti teatrali che va dai venti ai trent'anni. Tra gli obiettivi c'è anche il desiderio di attrarre un nuovo pubblico che, in alcuni casi, diventa protagonista entrando in scena con il proprio vissuto. Sul palco dell'Oratorio San Filippo Neri di Bologna si sono alternate dal 19 al 28 novembre 2015 quattro giovani compagnie chiamate a mettere in scena uno spettacolo inerente il tema proposto e alcuni esiti dei brevi laboratori che ciascuna di loro ha condotto durante il festival. Per approfondire il progetto, abbiamo chiesto al direttore artistico Nicola Borghesi di raccontarci istanze e propositi di questa seconda edizione.
Come nasce Festival 20 30?
Dopo la prima collaborazione con la Fondazione del Monte per il progetto Il sogno degli artigiani di Michele Santeramo, portato nelle scuole e nato con la mia ex compagnia VicoQuartoMazzini, mi è stato chiesto di creare una piccola rassegna di giovani compagnie. L'istanza che mi ha maggiormente guidato nell'organizzazione del festival è stata mettere al centro il pubblico, coinvolgerlo, cosa che secondo me avviene sempre meno anche a causa di una certa tendenza da parte di alcune compagnie a parlare solo a se stessi o agli addetti ai lavori. Al contrario, è sempre fondamentale chiedersi: per chi lo stai facendo? Inoltre, le nuove realtà teatrali spesso vengono ignorate, non hanno un pubblico di riferimento, un contatto diretto con le compagnie più grandi, dunque viene a mancare il contesto e la forza necessari per crescere. Davanti a questa situazione, ho capito che bisognava trovare uno spazio e un tempo per costruire una comunità di riferimento che fosse in dialogo con il territorio. Il festival cerca di essere quindi un contenitore che non si limita solo a proporre degli spettacoli.
In tale conteso si inserisce anche Kepler-452, la compagnia nata nell'estate 2015 con il fine di dare una casa istituzionale a Festival 20 30 e che ha già una produzione in corso, La rivoluzione è facile se sai COME farla. Kepler-452 però non è formata da un gruppo fisso di persone... mi spaventa l'idea del legame, credo sia rischiosa. Scegliersi ogni giorno è l'unica strada per stare insieme per tutta la vita.
Per la nuova produzione di Kepler-452 sono stati coinvolti Quit The Doner (Daniele Rielli) e la band italiana Lo Stato Sociale. Come avete lavorato?
Sono allergico alla regia, quando questa s'impone come unico punto di vista al quale gli atri si devono adeguare. Mi affascinava l'idea che ciascuna delle persone coinvolte, competente in una specifica branca dell'arte, potesse portare una visione individuale che si sposasse con lo spettacolo. Ho chiesto a tutti di assistere alle prove per poi iniziare a fare delle proposte, io tentavo solo di cucire e armonizzare i diversi elementi. Il festival ha avuto successo grazie a queste collaborazioni eterogenee, tra cui voglio ricordare anche Calori & Maillard, collettivo di artiste che sta avendo un grande successo nel mondo delle arti figurative. Non si erano mai occupate di teatro prima dell'anno scorso e nella nuova edizione hanno curato l'opera Paysage rappresentata sulle locandine.
Il Festival 20 30 porta in scena molti esiti dei laboratori diretti dalle compagnie ospiti e da Kepler-452...
Esatto, volevamo che la nostra comunità fosse spettatrice ma anche protagonista in scena. Il modo migliore per realizzare questo obiettivo è stato per noi trovare un tema attorno al quale invitare spettacoli e far nascere laboratori teatrali, idea nata anche dopo aver visto le esperienze dell'ITC di San Lazzaro e del Teatro delle Albe. Abbiamo puntato sulla fascia d'età che va dai venti ai trent'anni, sia perché rappresenta una generazione che fatica a entrare in scena sia perché, paradossalmente, è esclusa da un dibattito di cui dovrebbe essere protagonista, nel quale prendono parola solo persone che hanno il doppio dei nostri anni, che scontano una mancata comprensione della situazione proprio perché non ne fanno parte, dando così un'immagine poco concreta e utile all'analisi. Abbiamo quindi deciso di far partire la discussione direttamente da noi ed è da tale decisione che deriva la scelta di prendere la rivoluzione come tema centrale. Durante i laboratori della scorsa edizione ho percepito, da parte di chi si è avvicinato al festival, l'esigenza di un cambiamento repentino e radicale della propria condizione.
Nel primo dei due laboratori a cura di Kepler-452, La rivoluzione è facile se sai CON CHI farla, ogni partecipante portava un suo rivoluzionario in scena. Sul palco si vedono uno spazzino, una ragazza madre, un immigrato che è riuscito a laurearsi in statistica, ecc... Davvero la rivoluzione può essere mostrata tramite queste figure? Non sono, forse, storie edulcorate che vanno a scontrarsi con il concetto stesso di rivoluzione?
Certamente c'è stato del buonismo ma il compito che mi ero prefissato era quello di fare semplicemente da testimone. Ho cercato cioè di sintetizzare, di far emergere i contenuti più forti tralasciando le ideologie, limando le tematiche che si sovrapponevano in maniera ridondante. Il mio ruolo era di “traghettare” i punti di vista dei vari partecipanti verso il teatro. Non abbiamo giudicato le singole scelte delle figure rivoluzionarie perché ciò che ci interessava era aprire insieme un immaginario comune. La rivoluzione è anche violenza, sopraffazione, guerra – argomenti che ho voluto tematizzare meglio nello spettacolo La rivoluzione è facile se sai COME farla – ma alla base c'è forse, ed è quello che ho percepito nel corso del laboratorio, un genuino desiderio di provare a immaginare le cose meglio di quello che sono.
Non hai sentito comunque l'esigenza di fungere da “guida” per i partecipanti, di offrire comunque una visione e un punto di vista diversi dai loro, pur nel rischio di cadere nell'ideologia?
Credo che l'unico a dover scegliere la strada da prendere sia lo spettatore. Ognuno, rispetto alle sue credenze, è libero di pensare quale figura sia la più rivoluzionaria: una persona di ventuno anni che ritiene sia giusto essere madre nonostante la giovane età; un ragazzo africano che, spostandosi in Italia, inizia a vendere fazzoletti e, per una serie di casualità, riesce a laurearsi in statistica; oppure il sarto che nel suo passato, oltre a partecipare agli scontri durante i comizi dell'MSI, non ha avuto la possibilità di studiare e nei ritagli di tempo legge Silone. È una decisione che riguarda lo spettatore: quando parlo con le persone che hanno visto lo spettacolo mi indicano sempre il ruolo che considerano più rivoluzionario e posso assicurare che non è mai lo stesso. Dopodiché, dal mio punto di vista, credo sia difficile non cadere nel giudizio e nell'orientamento ideologico. La mia funzione doveva essere solo selezionare e organizzare i temi che apparivano più forti e funzionali, anche se questo è già un atto di tradimento: inevitabilmente, è entrato un po' del mio pensiero.
La tematica delle nuove generazioni e delle loro difficoltà attraversa tutto il festival, sia a livello di contenuto degli spettacoli sia a livello di pubblico a cui vi rivolgete. Qual è il vostro approccio nei confronti del problema?
A livello organizzativo, il nostro progetto si pone certamente la questione di come di creare un gancio immediato con lo spettatore, perché spesso ci accorgiamo che gli spettatori giovani non hanno un pubblico abituale, come per esempio accade con gli abbonati dell'Arena del Sole. Stiamo parlando di persone che vengono strappate dalle solite serate e catapultate in teatro. In tal senso hanno giocato un ruolo fondamentale le Avanguardie 20 30, il gruppo più “militarizzato” all'interno del festival che quest'anno è stato parzialmente responsabile della direzione artistica (venticinque under 30 che hanno partecipato ai laboratori della prima edizione del festival e nel 2015 hanno scelto di selezionare insieme dopo visioni collettive uno degli spettacoli di Festival, NdR). Loro hanno cercato di capire cosa potesse attirare un ipotetico “coinquilino di fisica” che non va mai a teatro. Perciò, lasciami passare questo termine, lo spettacolo doveva avere un'attitudine “catchy” ma allo stesso tempo non aver paura di essere poco comprensibile o di costituire un esperienza “aliena” per lo spettatore. Sento di dire che si tratta di una sfida vinta. Credo che il progetto abbia alzato il livello di attenzione su qualcosa che solitamente è relegato nell'indifferenza quotidiana o mortificato dalla deportazione forzata del teatro scolastico che rovina intere generazioni.
Da un punto di vista più generale, Festival 20 30 è il mio modo per riflettere sulla situazione dei giovani nella società di oggi, soprattutto in un contesto lavorativo che offre pochissime possibilità. Con questa esperienza ho capito che non ci si salva restando da soli. La principale sconfitta della nostra generazione è che viviamo il problema individualmente, assecondando il punto di arrivo del progetto capitalista. Ci si dovrebbe, invece, incontrare intorno a dei temi e interrogarsi insieme. Lo so, è banale, ma non sono in tanti a lavorare per la costruzione di una vera e propria comunità. Credo fortemente che si debbano rifiutare radicalmente le tipiche logiche quotidiane cercando di inventarsene delle nuove, anche col rischio di non essere capito dal sistema con cui ci si relaziona, di passare per stupido e di restare ai margini.
Alessandra Corsini