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Storie e gesti. Incontro con Virgilio Sieni hello
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Ripubblichiamo questo pezzo di Virgilio Sieni a cura di Rodolfo Sacchettini, uscito la prima volta sulla rivista "Lo straniero" n.191, maggio 2016.


Virgilio Sieni (ph Umberto Favretto)

Sono quasi dieci anni che Virgilio Sieni ha fondato a Firenze l’Accademia sull’arte del gesto, un progetto che guarda a danzatori e persone di tutte le età, dai bambini agli anziani. Quotidianamente negli spazi dei Cantieri della Goldonetta vengono elaborati e portati avanti tanti itinerari di avvicinamento e di approfondimento dei linguaggi del corpo e della danza. Nel corso del tempo sono state coinvolte centinaia di persone che spesso a più riprese hanno partecipato a veri e propri spettacoli. Oltre alle coreografie pensate per danzatori professionisti, Sieni ha infatti sempre di più potenziato i progetti che prevedono il coinvolgimento di amateur. Nel voler ampliare le attività e il numero dei partecipanti emergono con forza il desiderio e la convinzione di trasmettere un’esperienza specifica del gesto e un’idea di corpo. Basta elencare i titoli delle ultime azioni per  avere la percezione del “campo” di ricerca, che tiene assieme uno scavo nelle origini dell’uomo e uno sguardo al valore della comunità e della democrazia: Quadri della Passione, Brevi danze giovanili, Altissima povertà, Abbracci, Mar Rosso, Pietà, Agorà, Madri e figli, Origine, Annuncio, Esodo
Negli ultimi anni è diventato quasi impossibile stare dietro a tutte le invenzioni del coreografo toscano, perché le attività sono aumentate di numero e continuano a crescere. Senza contare poi l’incarico, dal 2012, di direzione artistica della Biennale di Venezia Danza, svolto con molta lucidità anche nell’indicare la ricerca di altri danzatori italiani e stranieri.
La quantità numerica dei progetti è poi andata di pari passo anche alla quantità del numero delle persone coinvolte, senza che le linee progettuali venissero snaturate, come invece accade molto spesso quando si fa i conti con un’iper-produzione. Alcuni lavori recenti hanno colpito proprio per un sapiente equilibrio tra una certa
grandeur dell’operazione complessiva e una sottile e raffinata attenzione al “micro”, al dettaglio, al singolo gesto. Ad esempio, in occasione dei settecentocinquant’anni della nascita di Dante Alighieri, Sieni ha realizzato nel Salone de’ Cinquecento di Firenze Divina Commedia_Ballo 1265. Inferno_Purgatorio_Paradiso. Il Salone, costruito durante gli anni eroici della Repubblica fiorentina e pensato per la riforma democratica di Savonarola, è stato così occupato e attraversato da oltre centocinquanta interpreti tra professionisti e non. Un grande “ballo”, dove a emergere con più forza è stato il Purgatorio, evocato come cammino comune e vero e proprio “esodo”, con il richiamo evidente alle immagini di oggi dei profughi e alle storie dei libri antichi. Un Purgatorio di sofferenza e dolore, ma anche di incessante laboriosità, nel procedere avanti nonostante tutto.
L’esperienza creativa di Virgilio Sieni, coniugando in maniera originale la verticalità – anche filosofica – della ricerca artistica all’esigenza sempre più forte di costruire comunità allargate, continua a rappresentare un esempio tra i più importanti e i più significativi, non solo in Italia e non solo relativo alla danza. Qui di seguito, sotto alcune parole-chiave, il frutto di una mia recente intervista. (Rodolfo Sacchettini)



Trasmissione
Credo che oggi non sia più sufficiente per un artista seguire la propria vocazione. Oltre a un lavoro di approfondimento e di studio costanti, è importante avere una predisposizione alla trasmissione, che è prima di tutto apertura verso l’altro.
Il processo di trasmissione può rivolgersi anche a una persona sola e non per forza alle masse. Decisivo è scavare nell’intimo, nel segreto di ognuno. È un’esigenza che sento sempre più forte ed è per questo che provo la necessità di uscire dal contesto del teatro e di concentrarmi sugli aspetti essenziali della trasmissione.

Esodo
L’esodo è una comunità che cammina. Gli “esodi” – azioni coreografiche specifiche che costruisco con decine di amateur – presuppongono il camminare e sono movimenti antichissimi, oggi tornati molto attuali. Mi interessa guardare agli aspetti legati all’origine dell’uomo e soffermarmi sul gesto del camminare, che è proprio della nostra natura. Per un bambino è molto più facile camminare che stare fermo: rimanere immobili presuppone una conoscenza approfondita del proprio corpo ed è un gesto difficile e faticoso. Per l’atto del camminare sto portando avanti una ricerca dettagliata sulla postura della colonna vertebrale, su come tenere le mani, sul movimento del tallone e del metatarso. Il camminare può essere per l’uomo un atto rivoluzionario. Durante la camminata si attua tutto quello che è la dimensione della pietà, della sospensione, della commozione, dell’aiuto all’altro.
In un esodo – cioè in un popolo in cammino – questa intensità viene moltiplicata, amplificata. Perciò si può dire che durante l’esodo si manifesta tutto ciò che l’umanità può esprimere dal punto di vista della bontà o dal punto di vista della cattiveria. A me interessa analizzare il punto di vista della bontà. O per meglio dire vorrei partire dalla “cattività” del corpo – pensare ai corpi non preparati, a disagio, in crisi, sfiduciati, rotti – per giungere lentamente a una dimensione che possa prevedere l’accoglienza del gesto altrui, un’apertura, una liberazione, pur rimanendo sempre in una dimensione di krisis. Ovviamente non miriamo a una bellezza patinata, piuttosto guardiamo al raggiungimento di una consapevolezza del corpo, anche laddove sono presenti cesure, rotture, dislessie. Penso agli handicap e a tutto quello che ci arriva dalle tragedie della realtà. Del corpo cerco di attivare funzioni diverse, non direttamente finalizzate a uno scopo produttivo, perché in ognuno di noi sono riposte risorse straordinarie che vanno sempre considerate e trasmesse. Anche un corpo senza braccia e senza gambe può in qualche modo procedere. Per disattivare un corpo bisogna annientarlo completamente.

La sospensione delle macerie
Con questi esodi, con queste comunità, voglio guardare a tutti gli elementi considerati primari e smontarli, verificarli.  Rappresentare l’esodo è per me immaginare una “sospensione delle macerie”. La parte dedicata al Purgatorio nella Divina Commedia_Ballo 1265, che ho realizzato nel Salone de’ Cinquecento a Firenze, è un accampamento composto da undici quadri, cioè undici precise coreografie. A un primo sguardo tutta la scena può apparire come un caos, ma lentamente credo sia percepibile l’esattezza di ogni gesto, l’equilibrio della costruzione complessiva. Per decodificare questi movimenti è necessaria un’educazione allo sguardo, cioè affinare la capacità di vedere più a fondo le sfumature, i rilievi, i dettagli. La rappresentazione dell’esodo entra nell’idea di sospensione delle macerie, che non significa appiattimento, al contrario è la presa di coscienza dello sbriciolamento, del frammento. Tutto il mio lavoro parte da queste incrinature, per operare da bricoleur sulle articolazioni, sui gesti.
Le macerie del corpo sono per me la capacità di frammentare una serie di funzioni che consideriamo primarie e di trovare nuove soluzioni del corpo, attivandolo in maniera differente: una forma nuova e forse più autentica, come direbbe Heinrich von Kleist nel suo Teatro di marionette.  Si rende maceria tutto quello che pensiamo che sia strutturato, per poter ricominciare. Sono processi di studio soprattutto del danzatore, ma in parte anche dell’amatore e mi interessa in questa fase del mio percorso mettere assieme le due cose.

Quantità
Sul fronte produttivo la quantità dei progetti è spesso in stretta relazione con un elemento di necessità. Quando individuo un tema ho bisogno di andare a fondo e dar perciò luogo a tutta una serie di creazioni. Mi sembrerebbe stupido andare alla ricerca di sempre nuovi temi, senza prima averli sviscerati come si deve. Per me è importante trovare nelle vicinanze di un’esplorazione tematica una proliferazione di altre esperienze. Inoltre realizzare Quadri della passione a Reggio Emilia, poi farlo a Livorno, Pistoia, Parigi non significa riproporre la stessa coreografia in città diverse, cosa che non avrebbe molto senso, ma vuol dire proseguire un discorso, una ricerca. E la ricerca, anche nel suo procedere, è connessa al concetto di corpo. È come il gesto di un braccio che nella mia coreografia è frammentato in duecento movimenti differenti, interpretati contemporaneamente da sei danzatori. Diventa qualcosa di impressionante, perché suscita la sensazione della gravità, nelle sue sfumature, ed è tutto fondato semplicemente sui cedimenti articolari di quell’unico gesto, che si fa incrinato e frammentario. Allo stesso modo penso alla produzione.
La quantità riguarda poi anche il numero di persone coinvolte che, in alcuni casi, è molto ampio: a Marsiglia centocinquanta, a Firenze centosessanta. La proliferazione della ricerca è anche la proliferazione del gesto all’interno di questi ampi gruppi. Non sto trovando una metodologia specifica, ma semplicemente porto avanti una pratica che includa una sorta di trasmissione interna del gesto. In un gruppo di così tante persone si innesca un processo di trasmissione continuo. Ci sono gli amatori, i danzatori e gli assistenti che hanno una funzione fondamentale, perché hanno molta responsabilità nel passaggio della coreografia e devono avere nozione del corpo, della danza, ma anche una sensibilità più ampia che includa la storia dell’arte, l’architettura. Pure gli assistenti in questi lavori “crescono” moltissimo. Dunque la questione della “quantità” ancora una volta ci riporta al discorso della formazione, aspetto cruciale.
Oggi non esiste una formazione pubblica per la danza. C’è l’Accademia di Roma, ma è appunto un’accademia. Esistono alcune scuole prestigiose, come quella del Teatro alla Scala, ma non si trova un luogo pubblico che possa legare i linguaggi del corpo a uno studio umanistico più ampio, a una riflessione sui beni culturali e soprattutto sul paesaggio.

Il paesaggio
Il paesaggio è costituito dalle gesta dell’uomo, per questo naturalmente non intendo il “bel paesaggio” da cartolina con i filari di vite americane, californiane, che non m’interessa. Per me il paesaggio è quello che ci porta la bellezza della conflittualità del tempo. Ero abituato ai filari fatti dai buoi, con il carro. Filari torti, ma costruiti con grande maestria. Tutto il territorio era molto lavorato, mentre oggi l’impressione è di una feroce industrializzazione; si passa dal paesaggio orribile delle periferie all’artificio delle belle campagne, il resto corre il rischio dell’abbandono. Di fronte a questi scenari sempre di più mi viene voglia adesso, quando mi propongono nuovi lavori, di investire le risorse nell’acquisto di pezzi di bosco, per lasciarli liberi, curare l’incolto.
Magari portare le persone dentro il bosco, a camminare. Basta un minuto nel bosco da soli, all’imbrunire, quando si avvicina la notte, e l’affievolirsi della luce ti mette in allerta. Se cammini da solo nel bosco riemerge una dimensione primordiale legata alla fragilità, alla paura, all’eccitazione. Tutto il corpo entra in una situazione fisica importante ed è questa, al netto delle mie esagerazioni e dei miei sogni, la dimensione che sto vivendo.

Lo spettatore camminante
Ho iniziato a far muovere il pubblico un po’ di anni fa quando ero impegnato nel percorso dedicato alla fiaba. Il pubblico camminava di stanza in stanza, di bosco in bosco, seguendo l’azione in modo lineare. Oggi invece sono interessato a creare scene composte da tanti “quadri” coreografici, situati in un ampio spazio, lasciando allo spettatore la possibilità di muoversi a trecentosessanta gradi. Le azioni avvengono contemporaneamente e la percezione è più simile al girare tra le sale di un museo. In realtà non voglio costruire un “museo vivente”, piuttosto cerco di costruire un luogo all’interno del quale l’azione coreografica possa essere fratturata dallo sguardo dello spettatore. Anche se in questi progetti c’è sempre una visione generale che tiene assieme i quadri coreografici, composti da due, tre o anche più persone.
Lo spettatore è lasciato solo con le sue problematiche, con le sue scelte e con la percezione evidente che le cose andranno comunque avanti e che non è possibile poter seguire tutte le azioni. Mi interessa il concetto di perdita, da leggere assieme al concetto di scelta: scelta di osservare qualcosa, di darsi un tempo, un punto di vista. Non è perciò importante vedere tutto, basta intuire la situazione complessiva. Al solito è un discorso che metto in parallelo con una riflessione specifica dedicata al corpo. Non importa che il corpo compia ogni gesto possibile, l’importante è avere la consapevolezza di un dettaglio. Poi il corpo farà i suoi compiti anche inconsci, neuro-muscolari. Come risonanze segrete altre funzioni andranno a modificarsi. Così in questi ultimi lavori mi piace sperimentare l’abbandono della totalità della visione e del punto di vista frontale. Lo spettatore si muove tra le azioni, sceglie il proprio tragitto, si ferma a guardare, e così la scena si trasforma in una città da percorrere, in un’idea “urbanistica” della danza.
In questi lavori si può scegliere di camminare, di sostare temporaneamente in un luogo, di sedersi per terra o sulle sedie posizionate ai lati della scena. Ci sono perciò dei gesti fondamentali da compiere anche per lo spettatore: camminare, fermarsi stando in piedi, osservare, sedersi in terra, girarsi, tornare sui propri passi, visitare luoghi già visti, cambiare punto di vista. Diventa una grande metafora della città, con le sue prospettive e i suoi luoghi.

Amateur e professionisti
Li chiamo amateur, amatori professionisti, nel senso di individui che aprono al corpo come iniziazione. Sono persone che partecipano ai miei progetti e che dal niente si ritrovano a parlare intensamente di corpo, di gravità, di sguardo. Bambini o anziani, cittadini, performer, danzatori, attori, architetti, psicologi, archeologi, non vedenti. le persone coinvolte iniziano un percorso di esplorazione del corpo, che poi significa riflettere su come stare al mondo, su che atteggiamento tenere nei confronti dell’altro e dell’ambiente. Ascoltiamo assieme il tempo, con la sua durata; ma non c’è niente di new age, di trascendentale. Al contrario, con questi progetti, che vanno sotto il nome di Accademia sull’arte del gesto, si formano piccole comunità, con le quali intraprendo un percorso di educazione allo sguardo. C’è una gioia condivisa nell’accrescimento di una consapevolezza comune.
In parallelo prosegue il mio lavoro con i danzatori professionisti. I due percorsi però si stanno influenzando sempre di più. Il danzatore impara frequentando l’amatore una serie di tecniche altamente sofisticate sulla tattilità, la vicinanza, lo sguardo sull’altro, particolarmente interessanti sui corpi fragili e inesperti degli amatori. Viceversa l’amatore prende dal danzatore tutto quello che è un senso “altro” del corpo, la sua trasfigurazione e complessità. Sempre più spesso il professionista affianca il lavoro dell’amatore, seguendolo come assistente, sostenendo il percorso, ma anche nutrendosene direttamente. Pure le ultime produzioni sono influenzate dalla generosità di partecipazione dell’amatore. È un continuo travaso. Nei miei progetti futuri (tra cui una Genesi nel prossimo autunno) giocherò molto sulla relazione tra professionisti e amatori.

Popolare
Sto lavorando sulle “grandi narrazioni”, a partire dal racconto biblico. La cultura è la trasmissione non solo di storie, ma anche di gesti. D’altronde la nostra tradizione inizia con l’immagine di un uomo a braccia aperte! Nel racconto biblico ritrovo tutti questi elementi primari, che mi spingono sempre più indietro, a un’origine, quasi a camminare a quattro zampe, per procedere carponi e poi imitare i passi del bamboccio con la schiena eretta. Nei racconti biblici trovo le tracce primordiali dell’uomo, i suoi primi movimenti, i paradigmi del corpo e dell’uomo.
Questa corsa all’indietro ha a che fare anche con il concetto di “popolare”, una parola che uso spesso pure nei titoli di alcuni spettacoli, come per Cenacoli Fiorentini_ Grande adagio popolare, gli Adagi popolari. Parlare di “popolare” significa esigere un “popolo”, cioè manifestare un’urgenza, un’impellenza. Le nostre città stanno perdendo il popolo e sappiamo bene quanto sia repellente vivere in una città senza popolo. Così le nostre città diventano sempre più uguali tra loro: da un sistema sconquassato di periferie al centro, dai grandi magazzini a una jungla di prodotti. In questo percorso il popolo dove sta? Di solito nelle periferie, perché i centri urbani si sono svuotati, ma le periferie non sono predisposte. Insomma, parlare oggi di popolare è soprattutto un mettersi in ascolto, aprire le porte il più possibile, senza dispersioni.

Rito
Il rito lo definirei come una reiterazione, e poi sedimentazione, in forme simboliche di tutta una serie di tracce recuperate e messe in misura da una comunità. Ad esempio con il progetto Cenacoli fiorentini, che sono azioni pensate proprio per alcuni splendidi cenacoli, il gruppo di persone coinvolte viene suddiviso in nove quadri coreografici che ripercorrono alcune funzioni fondamentali, come la gravità, l’avvicinamento, la tattilità, l’ascolto. I Cenacoli è un progetto che si ripete e si rinnova nel tempo, acquista un carattere di serialità. È una percezione molto forte che emerge quando il progetto ha una ciclicità ben definita. Il carattere di “rito” oggi si allontana dall’idea di spettacolo, come lo intendiamo comunemente, cioè come superficiale rappresentazione di ritmi. Cerco di attivare dinamiche riconducibili al rito soprattutto nelle pratiche nelle quali il processo segue un andamento ciclico. Ad esempio nel progetto bolognese Cena Pasolini si svolgevano cinque ultime cene contemporaneamente. I gruppi tra di loro si vedevano, si conoscevano, si parlavano. Questa vicinanza crea risonanze nel lavoro e una reciproca trasmissione di esperienze. Nella costruzione di comunità la ripetizione del gesto coincide con la frequentazione, con la partecipazione attiva al progetto. Vedi le persone che tramite queste pratiche si rivitalizzano, “rinascono” quasi, cioè si attua quel che è il fine del rito, superare l’uomo precedente, per far nascere l’uomo nuovo. Questo concetto andrebbe trasferito, in senso “alto”, anche nella funzione dello spettacolo, che invece oggi semplicemente conferma il già noto. Lo spettacolo va a compiacere, non a trasformare.


di Rodolfo Sacchettini


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