«Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società». Questa frase di Rita Levi-Montalcini è il perfetto preludio alla conversazione con l’attrice triestina Marta Cuscunà. Lo spettacolo È bello vivere liberi! Un progetto di teatro civile per un’attrice, 5 burattini e un pupazzo, di cui Marta è autrice e protagonista sola in scena, è il primo della “Trilogia sulle resistenze femminili”, a cui seguono La semplicità ingannata. Storia per attrice e pupazze sul lusso d’esser donna e Sorry Boys. Dialoghi su un patto segreto per 12 teste mozze. Spettacoli che hanno in comune il tema di genere, la scelta di raccontare storie realmente accadute, la commistione di linguaggi – dal teatro visivo (pupazzi e burattini) al teatro di narrazione civile – e l’interpretazione magistrale dell’attautrice.
È bello vivere liberi! racconta la storia di Ondina Peteani, prima staffetta Partigiana d'Italia deportata ad Auschwitz (n. 81 672); le notizie sulla sua vita sono tratte dalla biografia ufficiale scritta dalla storica Anna Di Gianantonio a quattro mani con il figlio di Ondina, Gianni Peteani: È bello vivere liberi! Ondina Petani. Una vita di lotta partigiana, deportazione ed impegno sociale.
Marta, ci puoi introdurre il tuo lavoro spiegandoci perché proprio questa vicenda, perché proprio Ondina?
Sono molto legata a questo spettacolo perché è il primo che ho scritto. Ho scelto la vita di Ondina, mia conterranea, quando ho letto il libro per la prima volta, perché vi ho trovato un’immagine nuova della Resistenza, un’immagine più realistica e piena di speranza, completamente diversa da quella che avevo appreso dai libri di scuola. Ho trovato nei suoi racconti momenti di gioia, condivisione e anche di divertimento; evocazioni lontanissime dal contesto cupo che sicuramente vivevano e che lei non nasconde, ma che non si esauriva così. L’altro motivo di interesse è quello di genere: Ondina è stata doppiamente rivoluzionaria nella sua scelta, in quanto donna. Infatti, nonostante il contesto di cui stiamo parlando, il pregiudizio morale era – ed è ancora oggi – duro a morire, e di fronte ad esso purtroppo anche gli ideali che serpeggiavano tra le file partigiane passavano in secondo piano. Ho scelto la sua storia perché oggi ancora di più sono convinta della necessità di esempi come il suo, per noi, per i giovani, perché abbiamo perso quell’entusiasmo e la fiducia nell’impegno politico.
A un certo punto del racconto abbandoni lo stile narrativo per lasciar parlare burattini e pupazzi; i primi per raccontare il tradimento di un compagno e i secondi per raccontare le pagine più dolorose della vita di Ondina. Perché questa scelta?
I pupazzi possono parlare di temi importanti, a volte meglio di noi attori. Portano finzione in un contesto che non è tale e paradossalmente ne restituiscono la verità. Non a caso ho evitato di proporre immagini tratte da documentari dell’epoca, ho preferito non proiettarle perché sono la prima a cui danno fastidio. I pupazzi, invece, superano i limiti degli attori: non avrei mai potuto impersonare Ondina nel campo di concentramento, non posso rivivere in scena qualcosa di così grande da non poterlo neanche immaginare, sarebbe stato troppo finto. Così ho deciso di costruire un pupazzo per la scena della reclusione. Io impersono Ondina fino al momento della deportazione e qualche minuto dopo manovro ben visibile dal pubblico, un pupazzo che mi rappresenta. Lo sdoppiamento non è casuale: Ondina racconta di essere sopravvissuta al campo proprio in questo modo, sdoppiandosi, come se ci fossero due Ondine, con l’una a guardare l’altra in prigionia nei campi di concentramento. Quando è uscita da “sopravvissuta”, per tutta la vita si è portata dietro il marchio dell’orrore; non ha mai nascosto quel numero tatuato sul braccio, lo stesso che, una volta impresso, le aveva spezzato qualcosa dentro. Per questo ho pensato alla scena del pupazzo che si confronta con una mano gigantesca coperta da un guanto nero, mano che le usa violenza, la manipola, le strappa vesti e capelli, rompendole fisicamente il braccio, simbolo della marchiatura.
Per quanto riguarda l’episodio più leggero della spia che tradisce Ondina e i suoi compagni, ho recuperato un fatto realmente accaduto. Il tradimento aveva generato sfiducia in tutti i paesi che aiutavano i partigiani e quando venne eliminata la spia, per diffondere la notizia senza farsi scoprire fu creato un testo drammatico da diffondere in tutti i paesi... a portarlo in giro furono proprio dei burattinai, una coincidenza che non potevo ignorare.
Il testo ha subito evoluzioni dal 2009 a oggi?
A livello di scrittura e di messinscena non è cambiato niente, cambia sempre invece il modo in cui io “ci sto dentro”. Le cose che accadono intorno a me, a noi, non mi lasciano indifferente – come ad esempio la morte di Giulio Regeni – e immediatamente portano il mio lavoro su un altro piano. È tutto così contemporaneo, così urgente ancora. Quando ho debuttato vivevo delle ansie, perché mi stavo buttando in un progetto del quale non potevo prevedere gli esiti. È il primo testo che ho scritto. Adesso, a distanza di otto anni, riesco a goderlo; sono in una fase del lavoro diversa, più matura, in cui mi posso immergere totalmente all’interno delle azioni concentrandomi sul racconto che porto in scena.
La Storia, quella con la “S” maiuscola, è molto presente. Una storia che racchiude al suo interno molte forme di sé: da quella territoriale, alla storia del Teatro e dei suoi linguaggi (vedi pupazzi e burattini), ma anche la storia dell’uomo (in fondo la prime tracce di espressione teatrale le possiamo ritrovare nella nostra infanzia, quando giochiamo con i pupazzi o ci improvvisiamo attori). Quali sono gli snodi del tuo lavoro al riguardo?
Ciò che più mi interessa delle vicende storiche che porto in scena è che, essendo storie vere, parlano di utopie che sono state realizzate. E perciò ci possono fornire una doppia carica; qualcuno le ha fatte davvero e in condizioni molto più difficili delle nostre. Ondina era sotto una dittatura, mi sono chiesta: se ce l’ha fatta lei a 17 anni perché non dovremmo farcela noi?
I pupazzi hanno una risultanza pazzesca per cui, più mostri la finzione più sono paradossalmente credibili, emozionali, così tanto da lasciarti portare da loro. In tutti i miei spettacoli, i pupazzi arrivano in un momento ben preciso, in cui i protagonisti e le protagoniste perdono la libertà e si trovano alla soglia entro la quale devono decidere se lasciarsi manipolare da chi ha tolto loro la libertà o riscattarsi in modo impensabile, inimmaginabile per noi. Mi sembra così di segnalare simbolicamente il forte cambiamento, la soglia (appunto) entro la quale l’essere umano è portato al limite, all’estremità, al bivio.
Il ruolo della donna è quindi da te contestualizzato in un ambito storico-sociale; facendo un parallelo con l’ambito teatrale, com’è oggi essere donna professionista del teatro? I tuoi sono a tutti gli effetti dei one-woman show: che ostacoli incontra un’attrice che scrive, interpreta e dirige i suoi spettacoli da sola?
Il teatro rispecchia perfettamente la società che lo produce e purtroppo non siamo un’isola felice. Il punto di vista che offriamo è sicuramente particolare, perché noi attori siamo necessariamente diversi e viviamo le esperienze in modo diverso. Dal mio punto di vista mi piacerebbe che, qualche volta, della condizione femminile si interessassero e se ne occupassero anche gli uomini – come in Sorry, Boys dove maschile femminile sono legati – perché delle questioni di genere parlano solo le donne. Sembra che queste problematiche riguardino solo noi donne, invece no, sono argomenti che riguardano entrambi.
Il one-woman show è una modalità che stiamo piano piano conquistando. Forse, nel mio caso, la componente dell’autostima e della fiducia in me stessa hanno giocato il ruolo maggiore. Il poter credere che “si può” – un po’ come è successo a Ondina – nonostante non vi siano molti modelli femminili che ti mostrano che puoi farcela. Ma è importante sottolineare che, se ci sto riuscendo, è perché ho trovato intorno a me persone e collaboratori che mi sostengono in questo percorso e anche le circostanze in cui dimostrarlo, come questo teatro ad esempio (Teatro del Popolo di Castelfiorentino ndr.). Le occasioni non mancano ma spesso non vengono viste. Sicuramente la mia non è una scelta facile.
Pensi quindi che le tue colleghe potenzialmente proiettate in questa direzione possano desistere per colpa di un sistema che non offre prospettive?
Ripeto, il teatro rispecchia la società in cui viviamo. Quindi, se in essa siamo poco rappresentate, se i ruoli societari sono ricoperti, nella maggior parte dei casi, da uomini, crederci risulta arduo. I direttori dei teatri sono più maschi o più femmine? I registi sono più maschi o più femmine? Abbiamo delle difficoltà oggettive. Ricordo il mio primo provino; davanti a me si era presentata una ragazza in stato interessante. Quando è arrivato il mio turno, la prima cosa che mi hanno chiesto è stata: «Tu non penserai mica di restare incinta?» Chi ti sostituisce durante la maternità quando lavori a chiamata? Allora è chiaro che diventa tutto più difficile. Però si fa; tutto si fa. Ma dopo un po’ di tempo che “fai”, è bene che il pensiero “non è giusto” non smetta di affiorare.
Giulia Bravi