Parlare di “formazione” oggi è forse più importante che parlare di “teatro”. Imparare nuove cose, mettersi nella condizione di chi apprende, è probabilmente uno dei modi più concreti per rinnovare le forme tradizionali del teatro, inventando strade alternative per sé e per gli altri, sia a livello poetico che di sistema. È per questo motivo che seguiremo con vivo interesse il tentativo del Teatro Mediterraneo Occupato, che sta lanciando una scuola teatrale con tre diversi indirizzi: scuola per il teatro (Officina studio per il teatro), scuola per le scritture (Opificio incanto) e scuola per il cinema e la televisione (Actor's Lab). Oltre alla scuola da segnalare anche la permanenza artistica degli artisti Civilleri Lo Sicco, che intendono abitare gli spazi del TMO intrecciando la loro progettualità con quella del Teatro, offrendosi come sponda poetica per percorsi di creazione, di laboratorio, di residenza e ospitalità.
In un panorama nazionale forse già troppo “scolarizzato”, dove spesso si rischia di formare allievi già "consumati" nel sistema tradizionalistico della prosa, ci pare importante il tentativo di dare forma a una scuola biennale in un teatro fuori dalle istituzioni, indipendente ma capace di garantire anche l'alloggio a prezzi simbolici. Come si legge nella presentazione, che cita Antonio Neiwiller (per il quale il laboratorio è «andare oltre le cose, attraversare se stessi»), il desiderio è ricostruire uno spazio per la formazione oltre «la commerciabilità dei prodotti artistici», superando gli «impedimenti delle filosofie del profitto».
Abbiamo pensato a un piccolo “speciale” su questi progetti, l'Officina studio per il teatro e l'Opificio incanto. Pubblichiamo a seguire una conversazione con Claudio Collovà e Giuseppe Massa (Officine Ouragan e Sutta Scupa), docenti dell'Officina con la danzatrice e coreografa Giovanna Velardi (responsabili, rispettivamente, delle sezioni “regia”, “drammaturgia” e “coreografia”, ma altri docenti saranno chiamati a tenere seminari specifici come Roberto Zappalà, Salvatore Cantalupo, Cristian Ceresoli, Renata Ciavarino). La scuola è biennale, avrà inizio nell'ottobre 2017 e proseguirà sino a maggio 2018, sono previsti momenti finali di lavoro con aperture al pubblico attorno agli universi poetici di Andrej Tarkovski e Pierpaolo Pasolini. Per candidarsi e leggere il bando per esteso seguire il link a fondo pagina (la scadenza per le iscrizioni è fissata al 10 ottobre 2017).
A cura di Lorenzo Donati. Si ringrazia Dario Raimondi
Claudio Collovà
Claudio Collovà, perché si è deciso di mettere al centro l'attore, e non per esempio "la regia"?
Io, Giuseppe Massa e Giovanna Velardi siamo tre registi, ognuno con un suo specifico immaginario. Ma abbiamo molte affinità e nel passato abbiamo incrociato importanti esperienze. Parto da chi siamo perché è fondamentale per non creare equivoci su un insegnamento che sarà inevitabilmente di carattere autoriale. La nostra formazione non sarà generica, onnicomprensiva e non saremo tramite di un qualche metodo specifico conosciuto. Passiamo agli allievi ciò che abbiamo sviluppato durante la nostra esperienza e nei nostri attraversamenti. Gli allievi quindi si troveranno ad avere a che fare con visioni precise e indipendenti tra di loro, ma che dialogheranno a partire da un centro vitale che sarà una fonte comune, al primo anno Tarkovskij – padre e figlio – e al secondo anno Pasolini. Una sorta di parallasse, in cui sarà possibile vedere per imparare a vivere la scena, uno stesso oggetto da più punti di vista e con diverse espressioni: dalla regia, alla drammaturgia, alla danza. Questo percorso è decisamente rivolto agli attori e non alla regia in quanto tale, si imparerà facendo, ecco questa è la premessa. Naturalmente gli insegnamenti relativi gli strumenti emergeranno per forza di cose, e sarà un lavoro lento e graduale, ma con lo spirito di un laboratorio e non con le discipline separate come in una scuola di teatro. Non so quindi se l’attore sarà al centro, ma penso assolutamente che tutto sarà rivolto a chi vuole apprendere, oltre a gli strumenti i valori della comunione di intenti, della compagnia, dell’ascolto, dello studio, della visione. Un attore consapevole insomma. Alla base di questo pensiero naturalmente c’è il valore dello spazio, il TMO è un teatro occupato, molto organizzato e curato, che per forza ci porta verso determinate traiettorie.
Cosa si intende per "allenare il corpo, la voce, l'ascolto"? Vi avvarrete di metodi specifici?
Alleniamo il corpo, la voce, l’ascolto in ogni nostro lavoro. Sono allenamenti che vivono dentro un immaginario e un ambiente anche mentale e fisico. Ma per allenamento intendiamo qualcosa che non sia un riscaldamento separato da tutto, o una serie di esercizi fine a se stessi. Allenare l’ascolto significa per noi anche “imparare a vedere”, come dice Rilke. Intendiamo sviluppare negli allievi una particolare sensibilità e consapevolezza dell’esistenza in scena e non della rappresentazione. Allenare lo spirito a questa enorme differenza significa già imparare. Io non so se tutto ciò che ho sviluppato durante il mio lavoro sia un allenamento, ma di sicuro mette in gioco il corpo, la voce, gli altri. E la propria coscienza e conoscenza. Si parte dall’essere umano e non dall’attore, in questo caso. Prendersi cura del luogo, degli altri e di se stessi è un buon metodo. Ma ognuno di noi ha imparato da altri maestri e sviluppato poi percorsi autonomi. E con maestri non intendo certo solo quelli del teatro.
Esiste una tradizione italiana di “attori-che-scrivono”, e che hanno dato vita ai fondamenti della nostra drammaturgia nazionale (da Eduardo a Bene). È a questa tradizione interna che vi riferite?
Gli “attori-che-scrivono” sono anche quelli che compiono gesti nel silenzio. E naturalmente anche coloro che “pronunciano” parole e mostrano senso in qualsiasi modo lo facciano. È una drammaturgia in un’atmosfera, non tanto in una scrittura come farebbe un autore. Spesso nasce dopo e da molto silenzio e non precede l’attore. In questo senso la drammaturgia nazionale c’entra poco, non almeno per quello che riguarda la tradizione di Eduardo. Lavorare attorno a un centro vitale poetico come l’anno scorso per Rilke può portarci a una riscrittura, questo sì. Se per “attori-che-scrivono” si intende chi sa anche percorrere una sua strada di studio e di ricerca e che è consapevole di non dovere essere passivo, molto bene, anche questo ci interessa molto. L’attore-autore si contrappone non poco al teatro di regia governato dall’immaginario di un singolo demiurgo, purché questa contrapposizione sia nel fare, nella scena e non a parole o in conversazioni di idee.
Il Teatro Mediterraneo Occupato
Pensando allo sviluppo del teatro nel secolo scorso, a una certa tendenza del disegno registico a istituzionalizzarsi, diventando "mediatrice" (Meldolesi) fra diverse istanze in cerca di un prodotto medio (e ce ne accorgiamo ovviamente ancora pensando al cosiddetto "teatro di prosa" odierno), quale idea di regia oggi ha senso rinnovare, e dunque trasmettere? Quale regia può ridare un'occasione al teatro italiano, contribuendo a una "lotta" per cambiare il sistema teatrale stesso?
Claudio Meldolesi ha usato quella parola sapendo bene che sarebbe stata una grave ferita a lungo termine. L’onda non è mai finita e col tempo si è rafforzata. Il teatro non avrebbe dovuto produrre così tanto spettacolo di consumo, è un teatro che uccide molto spesso qualsiasi tentativo di spiritualità. Occorrerebbe parlare della ben conosciuta distinzione tra il teatro d’arte e lo spettacolo. Penso che si debba pensare con forza alla possibilità che il teatro sia prima di ogni cosa un atto creativo e un tentativo artistico, con qualsiasi collettivo si decida di lavorare e su qualunque tema. In questo la regia ha molte responsabilità, ma poiché la regia è prima di tutto una persona, un essere umano, occorre partire dalle reali necessità interiori, prendersi il tempo, cercare condizioni di lavoro migliori per esprimere tentativi veri e non confezionare un prodotto con lo sguardo rivolto al pubblico che vuole consumare qualcosa come se fosse cibo. Almeno in un laboratorio ce lo possiamo permettere. La creazione artistica è impossibile senza un rapporto sincero e appassionato dell’artista con la sua materia prima. Ed è pur vero che per una percezione pura dell’opera d’arte è necessaria una capacità non dozzinale, di giudizio originale, indipendente e “innocente”. Quindi anche il pubblico deve fare la sua parte, penso che la soluzione stia lì, nel coraggio di ritornare al teatro che permetta a tanti di attraversare una esperienza viva e non morta. Come dice Goethe, leggere un buon libro è altrettanto difficile che scriverlo. E ha perfettamente ragione. Il sistema teatrale è un'altra cosa ancora, del tutto disconnessa dal teatro d’arte, e le due cose non vanno affatto assieme. Gli artisti veri in Italia sono spesso l’anello più debole di una catena che ha altri padroni. Se dobbiamo dare ascolto, e io credo che dovremmo, al prof. Meldolesi gli artisti non hanno altra strada che impossessarsi del sistema e non chiamarlo più così.
Giuseppe Massa, nella presentazione della sezione drammaturgica si parla di «riprendersi il presente», verso un qui e ora, uccidendo passato e futuro. La forma drammaturgica ha subito diversi scossoni, diventando postdrammatica, epica, frammentata, lacerata. Questa necessità del «presente» intende anche un recupero di forme più stabili? Quale forma oggi ha più possibilità di parlare al presente, e come la si può trasmettere?
«Riprendersi il presente» per me significa stare, essere, vivere sulla scena al 100% nel qui e ora teatrale. Per quanto concerne la scrittura il tentativo e l’obiettivo rimane invariato: prediligere il contesto, la situazione teatrale all’interno della quale agiscono i personaggi, rispetto alla costruzione di vorticose trame progettate a tavolino. Una scrittura capace di stare in ascolto, al servizio dei personaggi e quindi degli attori. Una scrittura prettamente teatrale e non letteraria che nasce dentro la scena e per la scena. Drammaturgie scaturite dal confronto-conflitto tra il materiale letterario, poetico, d’attualità, ecc., proposto dall’esterno e poi rielaborato dalle improvvisazioni degli attori. Questo modo di procedere può lasciare spazio allo stupore, fa drizzare le antenne, ti fa prendere un respiro collettivo mentre attendi la prossima mossa, lo sviluppo drammaturgico necessario e inequivocabile: «e adesso cosa faranno, come reagiranno in questo determinato contesto i personaggi?». Una sorta di drammaturgia condivisa da tutto il gruppo di lavoro. Ciò implica l’uso della lingua dell’attore nelle sue più svariate modalità. L’anno scorso abbiamo lavorato su alcuni frammenti dell’opera poetica di Rilke e il primo esercizio che ho proposto agli allievi è stata la riscrittura nel loro dialetto, nella loro lingua orale, dei suddetti frammenti. Così facendo abbiamo avuto la possibilità di penetrare all’interno del materiale poetico (a primo acchito ostico, letterario, esterno), facendolo diventare materia scenica, in due parole: la lingua del gruppo. Seguendo con rigore questa prassi, e attraverso degli ulteriori esercizi e improvvisazioni, può nascere una sequenza, un intreccio minimale, un plot, una storia. Rifuggendo a priori il didascalico, l’articolazione barocca e pomposa della trama, e tenendo presente che la nostra realtà è già di per sé lacerata, frammentata, suddivisa in più piani e spazi, credo che in prima istanza il compito di un drammaturgo contemporaneo sia quello di ricucire i pezzi, rimetterli a posto, riformare il puzzle; magari per farlo poi riesplodere, ma in prima istanza: ricucire, non avere paura di raccontare una storia, non seguire pedissequamente uno stile, ma attendere che attraverso il lavoro affiori una possibile forma e, dopo averla individuata, a essa rimanere fedeli fino alla definitiva stesura del testo.
Programma completo della scuola e informazioni per l'iscrizione
Articolo pubblicato il 4 ottobre 2017