Una raccolta di aggiornamenti, selezionati dalle cronache di Graziano Graziani, per raccontare e lasciare una traccia complessiva dell'occupazione del teatro Valle di Roma, giugno 2011
27 giugno - L’assemblea di venerdì scorso, 24 giugno, al Valle Occupato ha messo insieme le esperienze di settori diversi – cinema, teatro, letteratura, ma anche ricerca universitaria – per ragionare finalmente in modo unitario su quello che sta accadendo a chi lavora nel settore della conoscenza in Italia, e quindi per estensione all’identità culturale del nostro paese. Forse è presto per dire se l’analisi complessa uscita dall’incontro avrà un seguito concreto, o se le realtà che vi hanno preso parte non ripiomberanno piuttosto nelle loro singolarità. Di certo, però, l’atmosfera che si respirava, oltre che di grande concitazione, era anche di grande entusiasmo.
La complessità è stata proprio una delle parole d’ordine della relazione di Christian Raimo, intervenuto per TQ, un gruppo di scrittori ed editori trenta-quarantenni nato per vocazione generazionale, spostatosi in seguito sui temi delle forti contraddizioni che vive il settore letterario. Per il gruppo di artisti del cinema indipendente “Secondo Tempo” è intervenuta Costanza, che ha descritto come paradigmatica l’esperienza del settore. Successivamente Fabio Massimo di Acta ha portato alla luce il problema della precarietà mascherata da libera professione, che è alla base della ricattabilità descritta dai due interventi precedenti. Infine è intervenuta la rete universitaria, quella delle proteste dell’Onda contro la riforma Gelmini, per bocca di Francesco Raparelli.
Insomma, l’orizzonte della riflessione si è fatto improvvisamente vasto al Valle occupato, esulando dalle specifiche problematiche di un teatro storico e pubblico che cessa le sue attività. Ma proprio grazie a questo salto, la chiusura del Valle cessa di essere un problema di assistenzialismo per alcuni o di politiche culturali per altri, e diventa il simbolo di qualcosa che l’Italia di oggi sta smantellando: la cultura, certo, ma come tassello di un bene persino più ampio, la cittadinanza.
24 giugno - Chi è di scena a Roma? Due Italie diverse, che parlano di cultura.
Ieri, al Teatro Argentina il convegno «Cultura, orgoglio italiano», organizzato dalla fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, Italia Futura, cercava di tracciare un’idea di impegno sociale delle imprese che levasse d’impaccio il settore pubblico – impoverito, farraginoso a causa della burocrazie, svuotato di idee e linfa vitale – passando la gestione del patrimonio storico-artistico-cultural-paesaggistico nelle mani dei privati, più dinamici, in cambio della visibilità che ne consegue, attraverso il meccanismo degli sgravi fiscali che in Europa funziona già da tempo. Insomma il modello Della Valle al Colosseo. Pochi metri più in là, al Teatro Valle occupato si parlava di cultura come bene comune, e come tale intangibile rispetto agli interessi privati.
La ricetta di Montezemolo è insomma quella di ridimensionare un settore pubblico che non funziona, sostituendolo con un intervento privato più dinamico. Al Valle occupato, invece, il professor Mattei proponeva un modello radicalmente diverso, che finalmente si allontana dall’asfissiante diarchia pubblico-privato. All’atto pratico – sostiene Mattei – la giurisdizione esercitata dal pubblico non è poi così diversa dalla giurisdizione concessa alla proprietà privata. La proprietà privata esercita un diritto esclusivo su un bene, seguendo le proprie logiche di profitto e beneficio individuale. Dal canto suo il pubblico esercita anch’esso un diritto esclusivo su un bene o un servizio, ma lo fa in nome dello Stato, creando così un modello gestionale che va sotto il controllo esclusivo dei politici. Per uscire da questa logica binaria, secondo Mattei, occorre considerare alcuni beni e servizi come “beni comuni”, categoria giuridica che si sta delineando sempre di più nel diritto contemporaneo, e che si richiama esplicitamente all’articolo 43 della Costituzione Italiana, che disciplina i beni e i servizi considerati essenziali per “l’utilità generale”. Questo articolo non prevede soltanto che tali beni siano pubblici, ma che possano essere amministrati, anziché dallo Stato, da “comunità di lavoratori o di utenti e da determinate categorie di imprese”, come le fondazioni.
L’idea che c’è sotto è che un “bene comune”, in quanto essenziale per la vita della gente e per l’utilità generale, non può essere messo in discussione nemmeno dalla politica, anche quando esse è eletta a maggioranza. Così come avviene per l’acqua. Provate a immaginare allora cosa avverrebbe se la cultura, almeno in certi suoi luoghi e funzioni, fosse considerata giuridicamente un “bene comune”. È quello che stanno cercando di immaginare, collettivamente, al Valle occupato.
22 giugno - Ieri sera al Teatro Valle occupato c’era anche Gabriele Lavia, direttore artistico del Teatro di Roma. Una presenza che ha suscitato diverse reazioni tra i presenti in sala. Invitato a parlare, Lavia è stato contestato per non essersi fatto vivo prima dell’ottavo giorno di occupazione.
La difficoltà di dialogo che si è vista ieri sera al Valle stupisce solo fino a un certo punto. Perché nella sala all’italiana dello storico teatro romano era di scena l’incontro-scontro tra il vecchio e il nuovo della cultura in Italia. Sia chiaro, non c’è un’accezione totalmente positiva o negativa nel chiamare “vecchio” il direttore di uno stabile e “nuovo” il consesso di un’occupazione che non parla i codici della politica cui eravamo abituati. Il “vecchio” sistema della cultura pubblica intuisce l’estremo disagio delle masse di (artisti) diseredati che bussa alla sua porta, e persino ne condivide l’afflato rivoluzionario e la richiesta di attenzione; ma non può far altro che portare alla luce i meccanismi di un sistema del quale è parte e che non sa scardinare. Il “nuovo” sistema non c’è ancora, anche perché dalle assemblee pubbliche del Valle occupato tutto è uscito fuori, meno qualcosa che possa avvicinarsi alla proposta di un nuovo “sistema”; ma le “nuove” leve del teatro intanto reclamano a gran voce un’attenzione che le istituzioni non riservano loro perché oggi il tempo e la cura sono due tra i beni più rari nella vita pubblica italiana.
17 giugno - “Il problema non è capire chi gestirà il Valle, ma con quali criteri lo farà” è stato detto in assemblea. E qui in effetti sta in nodo centrale. I limiti di una gestione privata sono evidenti: mandare in attivo una sala di soli 600 posti è quasi impossibile anche facendo il tutto esaurito ogni sera, e i prezzi dei biglietti sarebbero comunque molto elevati. Ma anche una gestione pubblica, con tutta probabilità, sottolineano gli occupanti, potrebbe essere orientata ai grandi nomi – come hanno abituato le politiche pubbliche di ispirazione veltroniana – piuttosto che a un’attenzione al nuovo, alle giovani generazioni, alla qualità anche quando essa non è di massa. Il problema è dunque il merito. Stasera prosegue la maratona artistica a sostegno del Valle e dell’occupazione. Tra i nomi confermati i Tetes de Bois, vincitori del premio Tenco, e l’attore Rocco Papaleo, che si lancerà in un’esibizione musicale. Mentre nonostante manchino ancora le conferme, presto sul palco potrebbe arrivare Fiorello.
16 giugno - "Spero che la vostra mobilitazione sia contagiosa". Con questo augurio Andrea Camilleri ha salutato il pubblico del Teatro Valle occupato, accolto da applausi scroscianti. Intervistato da Elio Germano, lo scrittore ha raccontato molti aneddoti della storia del teatro italiano, che ha avuto proprio sulle assi del Valle uno dei suoi crocevia più significativi. Qui nel 1921, ricorda Camilleri, è andata in scena un’opera che ha rivoluzionato la scena mondiale, i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. "In un paese civile questo teatro sarebbe diventato un monumento”, conclude Camilleri. E la notizia, annunciata dall’assessore Gasperini, che l’intesa tra Ministero dei Beni culturali e Comune di Roma è stata raggiunta e che il valle il prossimo anno sarà affidato al Teatro di Roma non ha rassicurato la platea del Valle Occupato. “Non ci fidiamo” è stato il commento di alcuni degli occupanti
15 giugno - Prende quota una delle ipotesi che garantirebbe una gestione pubblica del teatro, ma nessuno si è ancora pronunciato su come questo progetto possa sostenersi. Il Teatro di Roma, come molti altri stabili italiani, afferma di avere già difficoltà a gestire i suoi spazi attuali, l’Argentina e l’India. Per quest’ultimo – spazio destinato alla produzione contemporanea – fino a poco tempo fa si paventava l’ipotesi di una chiusura parziale. Con quali fondi, allora, sarà possibile gestire una macchina come il Teatro Valle? Roma Capitale si impegnerà economicamente per sostenere questa soluzione?
14 giugno - Gli occupanti leggono un comunicato dove spicca una doppia rivendicazione: da un lato la richiesta di un progetto concreto affinché sia un soggetto pubblico con risorse pubbliche a gestire uno dei più bei teatri di Italia, allontanado lo spettro di una gestione privata che porterebbe il Valle lontano dalla sua vocazione di eccellenza; dall’altro una vertenza sulle condizioni di estrema precarietà in cui operano i lavoratori dello spettacolo, intermittenti per natura – lavorano quando ci sono produzioni che li fanno lavorare – ma nonostante ciò assai meno tutelati di molte altre categorie – una condizione negativa che non ha eguali in Europa. Il destino del Valle, insomma, è un caso esemplare per il destino di tutta la cultura in Italia. Gli occupanti ribadiscono che loro non vogliono difendere l’esistente, alludendo alla gestione dell’Eti o al reintegro del Fus, ma formulare nuove proposte. Silvio Orlando, intervenendo all’improvviso, ha lanciato l’ipotesi bizzarra di fare una stagione di cinque mesi in cui gli attori più famosi facciano da “padrini” ai volti meno noti.
14 giugno - Un gruppo di lavoratori e lavoratrici dello spettacolo hanno occupato il Teatro Valle di Roma questa mattina. Nell’appello che sta circolando in rete in questi minuti i promotori della protesta chiedono chiarezza sul destino del teatro, incerto da quando il governo Berlusconi ha sciolto l’ETI, l’ente teatrale che si occupava di promuovere il teatro italiano fin dal 1946. Lavoratori e lavoratrici dello spettacolo hanno occupato chiedono che venga destinato all’innovazione e all’eccellenza artistica del teatro italiano, da parte di un soggetto pubblico. Nel frattempo l’appello – tra i firmatari spiccano nomi come Valerio Mastandrea, Ascanio Celestini, Pippo Delbono, Elio Germano, Fabrizio Gifuni, Goffredo Fofi – sta correndo in rete, per chiedere solidarietà e sostegno per un teatro, il Valle, che dal 1726 rappresenta uno dei più significativi patrimoni di cultura di Roma e d’Italia.
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