Il Pilastro è un quartiere popolato e popolare, dove si trovano condomini altissimi, alcuni dei quali prendono il nome di “torri”. Nelle sue strade già da parecchi anni sono nati luoghi di eccellenza della cultura e della socialità, sono stati innescati piani strategici di messa in relazione di diverse fasce di cittadini, dai bolognesi più anziani ai ragazzi delle scuole medie e superiori fino alle nuovissime generazioni di immigrati, che comprendono persone di ogni età. Dal 1989 è attivo il Mousikè, centro che si occupa della formazione artistica di bambini e ragazzi attraverso i linguaggi della danza, della musica e del movimento creativo. Proprio qui accanto, nel mezzo di un’area scolastica, è sorto da due anni il Dom, la cosiddetta “cupola del Pilastro”. Trasformato da vecchia balera in teatro attrezzato, l’edificio è una mezzaluna che si intravede tra i profili rettangolari delle case e delle scuole.
Due anni fa il Comune di Bologna affida lo spazio a Laminarie, compagnia teatrale fondata e animata da Bruna Gambarelli e Febo Del Zozzo. Sin dall’inizio, la scelta forte del gruppo artistico è stata quella di incontrare il pubblico del teatro e del proprio territorio (quindi anche a chi a teatro non aveva mai messo piede) interrogandolo direttamente attraverso progetti estemporanei, in grado di risvegliare la città con piccole scosse, la messa in atto di questioni che vanno dritte al punto.
Impulso, la tre-giorni di incontri e spettacoli che si è tenuta a Dom dal 22 al 24 novembre 2011, è stato proprio questo: Laminarie ha scelto di mettere al centro del discorso alcune domande, chiamando a raccolta artisti e pensatori, critici e politici, curatori e studiosi per riflettere insieme su un tema e il suo contesto, sulle relazioni esistenti e quelle possibili tra azioni e immaginazioni.
Il primo incontro riflette sul “senso di un teatro”, e l’ingresso al discorso è il “dove” si sta con il proprio teatro o sguardo sul teatro. Il critico teatrale Massimo Marino traccia un percorso storico sui teatri di Bologna, ricucendo in particolare le date delle aperture di ciascuno di essi, raccontandone le spinte iniziali e ricapitolando uno stato attuale, dove, con un teatro chiuso (il Teatro San Martino) e uno in corso di riapertura (il Teatro Duse), forse ciò che manca in molti dei teatri esistenti è la desiderata funzione produttiva che non viene assolta. Altro intervento calato sul teatro è quello di Magali Battaglia, membro del Théâtre de Chambre, compagnia francese residente al 232U, un ex-spazio industriale le cui stanze sono state ridisegnate nell’ottica di diventare sale per il teatro. Anche qui siamo in una periferia, e il racconto di Magali Battaglia si concentra sulla questione delle relazioni tra uno spazio e il suo territorio, quindi il teatro e la città, anche quando la città con cui fare i conti è un quartiere, esteso e popolato, dove può accadere di dover trasformare un piccolo deserto in un’oasi, operazione bellissima e delicata. Tra gli altri ospiti, è intervenuto Gabriele Grandi, “inventore” di una televisione di condominio, “TeleTorre 19”, che trasmetto solo all’interno della Torre 19 del Pilastro; Sergio Pagani, Dirigente dell’Istituto comprensivo 11 del Pilastro, il vicinato più prossimo al Dom, nel suo racconto sulle relazioni possibili tra un teatro e una scuola, ha sottolineato la necessità di un tempo di ascolto reciproco, un tempo che necessita soprattutto di azioni, di interventi, di progetti mirati.
Ognuno degli interventi aveva come punto di riferimento il percorso affrontato da Laminarie negli oltre due anni di gestione di Dom. Uno spazio lontano dal centro che è però diventato sede di dibattiti, teatro-ospite di altre rassegne, teatro-ospite di altre compagnie che lì trovano uno spazio e un tempo di residenza, un teatro che gestisce il proprio calendario e i propri interventi sulla base di necessità poetiche e di relazione con un quartiere, una città, un’area teatrale che Laminarie ha sempre cercato di mettere in connessione con altre aree di interesse, dalla letteratura, al cinema, alla scienza. Segni, questi, raccolti nella preziosa rivista “Ampio Raggio”, giunta ora al suo numero 3, ma soprattutto pratica reale, come testimoniato dall’incontro del secondo giorno di Impulso.
Una conversazione sull’immagine, sul controverso rapporto religione e rappresentazione ha aperto il secondo giorno di Impulso. L’incontro, intitolato “Iconoclastia. Dialogo sugli enigmi dell’arte e della vita” ha visto Romeo Castellucci, regista e fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio, e Giancarlo Gaeta, studioso di storia del Cristianesimo, alternare le loro voci, dialogando di fronte al pubblico della Cupola del Pilastro. Motore della discussione è stata la nota vicenda che ha coinvolto l’opera di Castellucci durante l’ultima tournée francese: lo spettacolo, intitolato Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, ha provocato le reazioni di gruppi cattolici integralisti che hanno cercato di impedire il proseguimento delle repliche con aggressioni verbali e fisiche. Motivo dello scandalo: la grande riproduzione del volto di Cristo (il Salvator mundi di Antonello da Messina) che fa da fondale a ciò che si svolge sulla scena, ovvero la tragedia di un vecchio uomo incontinente, accudito dal figlio che costantemente lo ripulisce dagli escrementi.
Alla scomparsa dell’immagine di Cristo dal mondo contemporaneo, Gaeta fa corrispondere una sua “letteralizzazione”, dovuta alla proliferazione di discorsi intorno alla figura del Figlio divino (spesso tendenti al biografismo), di cui si è però rimossa la dimensione profondamente materiale, incarnata. Fondata sulla mancanza, per Castellucci l’arte occidentale si perpetua nella tensione a colmare il suo «cuore vuoto», un «cuore di tenebra, religioso»: la sparizione del corpo di Cristo dal sepolcro è la prima grande assenza che l’uomo non ha mai smesso di esorcizzare attraverso la produzione delle immagini, «simulacri di una mancanza di rapporto con la realtà». L’arte può arrivare ad assumere in sé questa assenza, fino sottrarre l’artista stesso, abbandonando lo spettatore di fronte all’evidenza di immagini che non possono che ri-guardarlo.
La questione fondamentale su cui soffermarsi è secondo Gaeta la perdita della potenza espressiva del gesto e la necessità di realizzare nuove opere che siano in grado di andare sempre oltre, di “bucare” ogni volta la rappresentazione, recuperando «la sostanzialità dell’esistenza» in una società nella quale persino la dimensione religiosa è dedita all’apparenza e parla la lingua rassicurante dei mezzi di comunicazione. Alla ricerca continua, responsabilità e condanna dell’artista-eresiarca (che per Castellucci non può che essere «disumano» nel perseguire la sua devianza), fa eco l’«atto prioritario» dell’intellettuale, la rinuncia all’apparire che Gaeta propone come gesto necessario alla ricerca di una verità oltre la superficie delle cose.
In Sul concetto di volto nel Figlio di Dio gli occhi del Cristo persistono sul fondo, chiamando in causa lo spettatore e innescando un rovesciamento continuo della percezione riguardo alle azioni che gli attori compiono. Gaeta parla di «choc»: di fronte a un’opera che non consola, ma sconcerta e interroga lo spettatore (in questo caso attraverso un’immagine-sguardo che ritorna e lo investe, accogliendolo dentro la caducità della materia rappresentata sulla scena), lo spettatore viene messo in crisi, diventa egli stesso gigantografia di se stesso, guardando il proprio guardare. Le proteste francesi sarebbero dunque l’esteriorizzazione estrema di questo trauma, segno evidente del conflitto tuttora insanabile tra religione e arte, tra sguardo e realtà.