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Il gioco dell'amore e del caso: Marivaux-Maccarinelli alla Pergola di Firenze hello
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Dopo la soppressione dell’Ente Teatrale Italiano in modi diversi si è cercato di costruire dei progetti specifici per il Teatro della Pergola di Firenze, il Teatro Valle di Roma e il Teatro Duse di Bologna. Ogni città ha espresso le proprie potenzialità, le proprie risorse, le proprie idee progettuali. Dopo poco meno di due anni è ancora forse prematuro elaborare un primo bilancio, ma le differenze già a colpo d’occhio appaiono notevoli: il Valle si trova occupato, la Pergola è stata presa in gestione da una Fondazione con Comune e Cassa di Risparmio in prima fila e il Duse dopo molte traversie e difficili accordi è andato in mano a un gruppo di privati orientato a fini commerciali.
Questa breve premessa solo per dire che al Teatro della Pergola c’era molta attesa per lo spettacolo Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux con la regia di Piero Maccarinelli. Perché per la prima volta la nuova gestione del teatro ha deciso di non limitarsi all’ospitalità delle compagnie di giro, ma ha scelto di impegnarsi nel difficile ruolo di produttore. Una scelta ardita, che potrebbe risultare interessante, permettendo alla Pergola di sviluppare un discorso più ampio e profondo sul teatro e la città.
Ma partire con Il gioco dell’amore e del caso, adattato da Giuseppe Manfridi e affidato a Maccarinelli, lascia a dir poco perplessi. Non si capisce quali siano i legami tra Maccarinelli e Firenze o la Toscana, non si capisce in che termini questa produzione sia espressione (o contribuisca alla costruzione) di una identità rinnovata per il Teatro della Pergola; non si capisce bene perché puntare su uno spettacolo di regia in un momento in cui il declino del teatro di regia è sotto gli occhi di tutti (eppure di buone regie ce ne sarebbe tanto bisogno!); non si capisce quale sia il segnale di novità; non si capisce bene, al di là di qualche coinvolgimento artistico nell’operazione, quale sia il legame di questo spettacolo con la città. 
Detto questo Marivaux è un maestro della commedia: piacevole, aggraziato, sa giocare con le parole e con i sentimenti. Sono testi, i suoi, pensati davvero per il teatro: meccanismi che funzionano perché costruiti a pennello per attori in carne e ossa, e non soltanto pagine di letteratura. 
In quest’opera la forza dell’amore trionfa tra travestimenti ed equivoci, ma trionfa anche la forza delle classi sociali perché i padroni, anche se si cambiano di abiti, si innamorano sempre dei padroni, e i servi si innamorano dei servi. L’intelligente e sottile critica sociale si mostra in questo voler far tornare i conti perfettamente; chi guarda rimane incantato da un ordinamento sociale che si presenta così naturale che perfino il matrimonio di convenienza coincide con la veridicità dei sentimenti. La critica è sottile e oggi suona molto tagliente.
Quanto allo spettacolo di Maccarinelli, si fatica invece a comprendere quale sia la porta di ingresso. Si dice nella presentazione che il discorso di Marivaux è «inattuale e contemporaneo», ma il binomio paradossale aiuta poco a capire, perché rimane molto generico e vago, appoggiandosi unicamente al significato schematico dell’amore e, di fatto, rinunciando all’ebbrezza e alla gioia del gioco e del caso. 
Sembra che la leggerezza e il sapore del gioco si perdano in un tentativo di astrazione che asciuga le contraddizioni e irrigidisce gli animi. Il ritmo è molto piatto, a tal punto che perfino i momenti di scoperta rimangono su un tono sempre monocorde e ripetitivo. Si tenta di attualizzare la scena con abiti che richiamano il settecento in chiave postmoderna (realizzati da Gabriella Pescucci), sul fondale giganteggia l’immagine in digitale di un viale alberato del Giardino dei Boboli (realizzata da Giacomo Costa). La foto – che gioca con l’iperrealismo, ma più che altro rammenta gli screen saver dei computer – cambia di luminosità e di nitidezza durante lo spettacolo. Queste due scelte (e stesso discorso vale per la musica di Antonio Di Pofi) rimangono francamente svincolate dal resto della messa in scena, tanto da risultare più che altro degli espedienti decorativi, inutili alla comprensione dello spettacolo.
Pare quasi che si voglia riattualizzare qualcosa, ma non si sa bene cosa. Si preferisce quindi semplificare e astrarre. Ma dietro all’astrazione non si scorge un’approfondita ricerca per il “meccanismo”, per l’arte della commedia guardata nelle sue parti essenziali, per una tipizzazione gestuale o caratteriale. L’astrazione pare funzioni da filtro normalizzatore che cerca di avvicinare la scena a una situazione di sostanziale medietà, assai più simile a una fiction televisiva che non a un esercizio di semiologia. Gli attori ce la mettono tutta, ma non riescono a nascondere una pratica o provenienza televisiva: sono presenze leggere e schematiche. L’apprezzabile scelta di un tono sobrio e non declamatorio che cerca, salvo in alcuni punti, di non ammiccare al pubblico – senz’altro la nota migliore dello spettacolo, il suo essere asciutto – scivola però presto in una sorta di flusso, nel quale tutto è un po’ troppo uguale a se stesso. I padroni sono uguali ai servi e gli uomini uguali alle donne. Nel voler leggere le intenzioni del regista, che elimina le parole di “servi” e “padroni”, verrebbe da pensare che si parla adesso di una società senza classi dove alla fine i servi si distinguono unicamente per un comportamento leggermente più rozzo e sguaiato (cioè un po’ cafone, un po’ macchietta, qualche parolaccia in più, gesti caricati e la fastidiosa scelta di dare alla serva una leggera intonazione napoletana). Ma non c’è nemmeno qui una forte intenzionalità, prevale piuttosto un atteggiamento fluido e senza attrito.
Tra le ultime rappresentazione del Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux una delle più belle e significative è stata realizzata non in teatro, ma in cinema, nel film La schivata di Abdel Kechiche (2003). In quel caso si racconta di un laboratorio di teatro realizzato in una scuola di una banlieue parigina. Gli adolescenti, molti dei quali magrebini, si confrontano con le parole settecentesche di Marivaux e ridanno vita a una commedia che adesso in maniera molto chiara mette in luce le forti contraddizioni sociali. Un ragazzo innamoratosi della sua compagna, che è stata scelta come protagonista, fa di tutto per ottenere la parte del promesso sposo. Una volta ottenuta la parte, ha però una sorta di blocco emotivo e all’ultimo momento non si presenta allo spettacolo. Il gioco dell’amore e del caso sembra essersi interrotto. Le classi sociali esistono e non sono così intercambiali. In maniera molto sottile, senza che lo spettatore quasi se ne accorga, il testo di Marivaux viene quindi rappresentato dai ragazzi, allo stesso tempo diventa però una sorta di motore dell’intero film. Chiaramente non è la messa in scena esatta del testo teatrale, eppure il senso dell’opera emerge proprio per le sue caratteristiche di gioco, di caso e di amore.
Tornando allo spettacolo della Pergola, si dice che il testo di Marivaux è inattuale eppure la sensazione dello spettatore è che si voglia trovare il modo di renderla un po’ più appetibile e vicina all’oggi. Di per sé nulla di male, ma quando si affrontano operazioni di questo tipo l’equivoco è dietro l’angolo, perché non bastano alcuni segni riconducibili a un vago immaginario contemporaneo per sollecitare il pubblico. Quando si ha che fare con dei classici, più che attualizzarli, si tratta di rimetterli in vita, cercando di individuare e di far emergere la necessità del testo. È questo dunque il limite della prima produzione della Fondazione del Teatro della Pergola: lo spettacolo evita di sollevare dubbi e preferisce piuttosto aderire a un andamento medio senza inciampi e senza sorprese.

di Rodolfo Sacchettini
 

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