Dal 1994, il festival Crisalide di Masque Teatro a Forlì è uno dei più preziosi «luoghi per scambi di pensiero» che l'Italia teatrale possegga. Non solo un festival, dunque, ma un progetto che di anno in anno pone domande che accomunano ricerca performativa e filosofia. Dal 2010 Crisalide si declina in “Winter Years”, anni d'inverno, portando a compimento interrogazioni sulla minorità (2010) e sulla normalizzazione (2011) attraverso la lente dei filosofi Felix Guattari e Gilles Deleuze. Colpisce, quindi, la qualità di una ricerca che risponde alla crisi scavando più a fondo, approfondendo. A Crisalide la parola “festival” diviene momento per disporsi alla conoscenza, senza negare le difficoltà di ogni atto che presupponga davvero l'incontro con l'altro. Crisalide può anche scegliere di “festeggiare”, ma lo fa invitando un gruppo di filosofi per una giornata di studio che sonda i limiti della domanda centrale dell'edizione 2012: “How shall i act”? Le domande di Crisalide creano quel movimento dato dal sapersi di fronte a interrogazioni dolorose, dal ritrovarsi spaesati di fronte a parole quali “comunità”, “fuori”, “potere”, proponendo un'apertura che raduna pensieri senza mai abbassare la qualità dei desideri. Mentre la risposta di molti festival agli anni che stiamo vivendo si è tradotta nella ricerca di nuovi spettacoli popolari (finendo spesso per lambire da vicino un'idea di partecipazione leggera, magari intelligente, arguta, sofisticata, eppure spesso principalmente votata all'intrattenimento), Masque ha creato occasioni di incontro forse “non per tutti”, ma per chiunque voglia approfondire, per provare a essere un po' meno pochi.
Tali movimenti non possono che depositarsi nel percorso performativo del gruppo, che ha presentato a Crisalide lo spettacolo Pentesilea, ispirato a Kleist e attraversato dall'Anti-Edipo di Deleuze-Guattari. Nel foglio di sala, Bazzocchi riferisce dell'incontro con Temiscira II di Thierry Salmon, invitato a Forlì nel 1997 per condurre a Crisalide un seminario di quattro giorni su “Lo spazio scenico”.
Dal buio emergono sagome metalliche, architetture meccaniche semoventi che occupano i lati e il fondo dello spazio. L'intelaiatura di quella che potrebbe essere una porta reca appesa una lastra rugginosa. Sulla destra, un motore elettrico montato su rotaie inizia un percorso fino al centro dello spazio, con una manovella che ruota su se stessa, mossa da una mano invisibile. Una corona di rose è ostesa sull'estremità superiore della macchina. Una ferraglia scende dall'alto, provocando un tonfo, formando quello che in alto a destra, sopraelevato rispetto al piano del palco, potrebbe sembrare un ponte. Al centro si scorge il ventre di un pianoforte con sopra una ragazza, ma è un istante, perché nel “modulo” centrale che la contiene viene calato un sipario di ferro, e tutto arretra sul fondo nascondendosi alla vista.
Si potrebbe partire da questi primi istanti per entrare nel discorso di questa Pentesilea, che segna uno scarto rispetto al percorso più recente del gruppo. Se un «immaginario del meccanismo» ha sempre fatto parte dei lavori di Masque, e se l'idea di macchine desideranti produttive e non segnate da una mancanza (una delle tesi centrali di Anti-Edipo) è cardine del percorso del gruppo forlivese almeno da Nur-Mut (1996), negli ultimi La Macchina di Kafka (2009) e Just Intonation (2011) sembrava essere al centro una sorta di pensiero tecnologico in grado di mettere l'umano in secondo piano, o di farne un elemento che prefigurava un “oltre”. Sull'arpa di pianoforte rovesciata dei due recenti spettacoli si consumava un dialogo-lotta fra il corpo della perfomer (l'eccezionale Eleonora Sedioli) e la risposta della macchina, spinta a muovere i martelletti di un pianoforte grazie a un software che tramutava in impulsi le sequenze di movimento e di luce. C'era come un “altro” o altrove che poteva crearsi dall'incontro fra corpo e tecnologia. In questa Pentesilea pare invece tornare al centro un discorso sull'umano, sulle sue potenzialità, quindi sulla sua piccolezza.
Per istanti udiamo colpi di fioretto e scorgiamo due schermidori, che scompariranno in una manciata di secondi. L'atmosfera è cupa, grovigli di sonorità elettroniche montano nell'aria, sibili organizzati di un tenue larsen. Sul fondo a sinistra, un terza struttura metallica contiene quella che potrebbe sembrare una gru: in una delle estremità si vede una ruota, forse una carrucola, ma manca la corda per sollevare qualcosa. Un uomo compare sul “ponte”, esegue una partitura di gesti protesi fuori, come un dialogo, un supplica, un tentativo di relazione per nulla pacificato. Sulla sponda opposta della rotaia entra la ragazza che abbiamo scorto all'inizio, la pelle nuda cosparsa di sporcature simili al carbone. Indossa sandali metallici, qualcosa di fiero attraversa i suoi movimenti. Gli arti inferiori e superiori si fissano in figure angolari, come in cerca di proporzioni esatte, di tensioni efficaci. Nei suoi gesti sembra manifestarsi l'atto di tendere un arco. I gesti gradualmente si sciolgono, lentamente il corpo si tende in un flusso il cui impulso dalla schiena coinvolge senza pause tutte le articolazioni. Sale un ritmo percussivo, introdotto da un vento cosmico. I piedi sono contrappeso di un corpo che si desta, che slancia le braccia ritte di fronte a sé, poi s'accascia, disegnando una morfologia corporea non quotidiana, in cui colonna vertebrale e muscoli non sono quello che sembrano. Il grande meccanismo alle sue spalle, la gru meccanica, lentamente si muove emettendo i soffi dei pistoni: lei ondeggia, si stende sbilenca su un carrello al centro, agìta da una gestualità che si colora di rammarico, di tristezza, quasi di pianto. Pentesilea raffredda così la temperatura narrativa, spostando la visione su elementi meccanici che gradualmente lasciano emergere la figura umana in tensione costante. Ogni cosa, sulla scena, anela a una relazione che non ci è concesso vedere, ma che s'avverte nell'aria, nei gesti, nelle luci.
Se dentro a “How shall i act?” sta una domanda relativa al potere, alla fuga da ogni principio gerarchico che sia in grado di non autodistruggersi, questa Pentesilea può essere letta come una sorta di corrispettivo performativo, anche pensando al mito e alla drammaturgia di origine: è l'eroina attraversata dalla furia, a metà fra accecamento amoroso e guerresco; l'eroina chiamata a scegliere, colta nell'atto che precede l'autodistruzione (dopo aver ucciso il rivale-innamorato Achille e fatto a pezzi il cadavere, la Pentesilea di Kleist si suicida); infine è l'eroina attraversata ed agìta, nonostante la razionalità gestuale guerresca, la precisione del combattimento tradotta in coreografia di angoli, che prelude a un accasciamento, a un abbandono di ogni geometria. Difficile non pensare al “venire meno” di Carmelo Bene, che nel suo procedere verso la macchina attoriale, verso lo "spossessamento", nel 1989 scelse Pentesilea all'inizio del suo percorso nell'Achilleide.
Sembra dunque legittimo tornare alle dichiarazioni di intenti per Crisalide 2012, al tentativo di fuggire a ogni principio gerarchico, a ogni condotta autoritaria, anche quella di un'arte che racconta, e che presenta lacerti di figure maschili che qui non avrebbe senso ricomprendere all'interno dei sicuri confini di una storia. Per questo, l'unica strada può stare nel corpo: nei tremori, nelle intermittenze muscolari, nello sfregamento metallico dei passi di Eleonora Sedioli, sul filo di una compassione o del suo freddo contrario.