Quando Claudio Morganti entra in scena tra lui e il palco non c’è divario, non c’è invasione. Con naturalezza, come se luogo e agire artistico fossero parte di un universo quotidiano, l’attore muove i propri passi nella penombra e prende posto di fronte a un leggio forato. Alla sua destra un tavolino con un bicchiere d’acqua; per terra, centrale, un piccolo proiettore. «Il Woyzeck di Büchner, per chi non lo conoscesse bene» – lascia intendere Morganti al suo uditorio – libera dalla dittatura dell’ordine prestabilito, è un non finito le cui scene godono di proprie leggi. Dunque, ciò che stiamo per ascoltare è frutto di un personale assetto drammaturgico, di una, benchè chiara sia la sua firma, tra le possibili indagini rivolta al pubblico del Teatro India.
A introdurre le scene è lo stesso attore-autore la cui voce ferina e profonda darà poi corpo ai personaggi. «Buonasera e benvenuti signore e signori», saluta l’artista, seguito dal silenzio degli spettatori, «Buona sera e … benvenuti». Le parole dell’imbonitore sono la nota d’inizio, attore e personaggio coincidono in una sorta di manifesto programmatico e l’ironia mordace della battuta non lascia scampo: nelle vesti della scimmia mascherata da soldato si irride, si ridimensiona la figura umana. Da ora in poi, nella povertà della scena, ogni sfumatura sonora disegnerà un carattere: materiale è il dire di Marie, grasse le risate del Capitano, salaci le battute del Dottore e insidiosa la sonorità del Tamburmaggiore. Infine, spossato dalla sudditanza che deve a ognuna di queste voci, sta il fuciliere Franz Woyzeck, che si scontra con i fantasmi della ragione umana e con il volto diabolico della natura. Tra i tanti momenti che restano nella memoria, c’è il breve scambio di battute tra Franz e l’ebreo per la scelta dell’arma con cui verrà uccisa Marie. Qui, l’interpretazione dei personaggi rimbalza a ritmo serrato dalla parola al gesto, e viceversa: «Allora?», per ben tre volte ripete il mercante d’armi, la mano destra che abbranca il bordo superiore del leggio e scruta la preda in attesa del pagamento dovuto. Non c’è niente che non si debba pagare, afferma l’ebreo, e niente che non si possa avere a buon mercato. Compresa la morte. Si conclude la lettura e Morganti spiega, anzi, più che spiegare racconta, cosa significhi parlare di studio invece che di spettacolo: andare al di là del prodotto, insistere nell’attraversare e nel farsi attraversare da un processo. Provare. Subito dopo, viene presentato un video d’animazione scelto come ulteriore modalità di sintesi e di confronto con il testo di Büchner. Le immagini che attraversano lo schermo sono interamente tratte da internet, il segno è stilizzato e richiama il fumetto, come le battute dei personaggi trascritte nei classici baloons. I tempi previsti dal programma si superano per necessità di dialogo, nessuno se ne rammarica.
Giunti al termine della Settima edizione di Short Theatre, si torna a pensare alla presenza di Claudio Morganti all’interno del Festival e alle domande che hanno delineato il campo semantico della West End, Fine dell’occidente scelta come sottotitolo direzionale e tavolo di discussione. Soffermarsi sulle condizioni critiche in cui verte oggi la cultura teatrale, sulle sue perseveranti presenze e sui cammini da poco intrapresi, nel tentativo di farli tra loro dialogare: ecco la dichiarazione di intenti di quest’anno. «Provando», recita la prima pagina del programma, «a raccontare il tempo della fine. Provando a resistere - ma a cosa?». Per affinità tematica: dopo solo due giorni questa Lettura del Woyzeck di Büchner, un articolo di Stefano Bartezzaghi pubblicato da Repubblica ha fatto riferimento alla nuova – ma non troppo – sindrome che sembra affliggere la nostra epoca: il brevismo, quello che gli inglesi hanno chiamato “short-termism”, “sindrome da breve termine”. Uno dei segni della malattia, ormai certo globale, è l’affanno che non lascia fermentare le idee, che rifiuta l’investimento a lungo termine. «L’ansia da prestazione e l’angoscia del respiro breve» sono ciò che, scriveva il giornalista non ignorando il modificarsi delle tecnologie e dei mezzi di comunicazione, porta a considerare anche la cultura come una «performance da primato cronometrico». La pubblicazione frenetica, lo spettacolo per lo spettacolo, la quantità. Di fronte ad alcuni di questi sintomi, allora, forse è lecito pensare che dentro e oltre la crisi stia un’arte che fa dell’approfondimento e dello studio il proprio statuto, che torna alla complessità originaria e ridona vitalità agli strumenti che la compongono. Un lavoro artistico-culturale – quello di Claudio Morganti – che non traccia solchi costrittivi, ma pretende per sé e concede al pubblico di abitare consapevolmente i pochi spazi e i tempi che si hanno a disposizione, una forma di (r)Esistenza, parafrasando ciò che scriveva Donatella Orecchia a proposito di quest’artista. Con tutti i rischi e i benefici che ciò comporta. Così, piedi ben puntati a terra e veste nera, al centro del discorso restano la figura umana e la sapienza attoriale – l’Arte – che è anche, e soprattutto, mestiere.
Guardino, l’animale è ancora natura, assolutamente natura senza idealismi! Imparino da lui!
Per approfondire:
Stefano Bartezzaghi, Il brevismo, La repubblica, 9 sett. 2012.
Claudio Morganti, a cura di Donatella Orecchia e Mariapaola Pierini, Zona, Roma 2004
Rodolfo Sacchettini, Un attore, Claudio Morganti / Ritratti, www.doppiozero.com
Claudio Morganti, Serissimo metodo Morg'Hantieff per attori, teatranti e spettatori, Edizioni dell'Asino, Roma 2011
L’ultima battuta è tratta da Georg Büchner, Teatro, Adelphi (frase dell’imbonitore).