È un cantastorie di migranti, è un attore-narratore, è un teatrante con in tasca il taccuino dell'etnografo. Ci eravamo abituati a pensare a Pietro Floridia come regista e drammaturgo di compagnia, autore di spettacoli in cui la scrittura di scena o la riscrittura di testi erano al centro di una tensione al racconto che manifestava l'urgenza della condivisione. Il suo percorso nella compagnia Teatro dell'Argine, all'Itc Teatro di San Lazzaro, aveva recentemente presentato una Ecuba che pescava storie da una catasta di scarpe al centro dello spazio (Ecuba ex regina, 2008) o aveva invitato il pubblico all'interno di un teatro dello spettatore, in cui per ascoltare i racconti occorreva spostarsi nel palco, aprire i cassetti di una scenografia fatta per essere manipolata, scrivere bigliettini lasciando nello spazio pensieri e parole (Report dalla città fragile, 2011, con Gigi Gherzi). In Teatro in viaggio – Lunga la rotta dei migranti, spettacolo presentato recentemente nel teatro che la compagnia gestisce alle porte di Bologna, Floridia diventa anche attore, a prima vista ripercorrendo il solco di una narrazione che sfronda la rappresentazione dal personaggio e da scenotecniche complesse, per affidarsi quasi esclusivamente alla parola. Floridia mette in scena se stesso, e nel farlo ci racconta del suo viaggio a ritroso lungo i percorsi delle migrazioni africane recenti, avvenuto alla fine del 2010 per raccogliere storie e per fare teatro, arrivando fino in Senegal nella comunità agricola/teatrale di Diol Kadd e del suo artefice Mandiaye Ndiaye. Di fronte a noi un attore, un tecnico e sul fondo uno schermo con proiezioni animate che legheranno le scene fra loro.
Floridia ci accoglie e si rivolge a chi guarda apparentemente senza filtri, in cerca di una naturalezza del racconto. Ci presenta «il Gabo», il tecnico dello spettacolo che manovra il mixer dal centro del palco, in realtà compagno di viaggio e proprietario del «Lando», un vecchio fuoristrada Land Rover che da Bologna li ha portati fino a Dakar e oltre. La storia parte da Genova, con l'imbarco e il Gabo che si dice già sufficientemente soddisfatto della strada percorsa. Si sbarca a Tangeri e si fa la prima sosta al Caffé Hafa, descritta come «l'attesa fattasi luogo», bar colmo di ragazzi che osservano la sponda europea del Mediterraneo e vagheggiano attraversamenti. Arriva la prima “storia”, quella di Issam, ragazzo musicista che sogna l'incontro con un produttore europeo mentre fa il cameriere in una bettola marocchina.
La linearità della proposta scenica gradualmente mostra direzioni complesse, assumendo la diversità di registri che Floridia fa convivere nel racconto. Teatro in viaggio sono infatti le gesta di due viaggiatori e di un mezzo antiquato e glorioso, come un road movie teatrale dalle tinte epiche: il Lando, «ronzinante della metalmeccanica» che attraversa l'Africa, incontra il deserto e «ha sete», rischiando di rimanere a secco; l'arrivo nell'oasi, la trafila del Gabo e la discussione di «soluzioni patafisiche» per recuperare carburante nel deserto; la sosta nei pressi del mare e l'incontro con i soldati (nel Sahara occidentale, occupato militarmente) che impongono ai due di sistemarsi più lontano dalla vicina base militare, con il Gabo a dialogare in una lingua di gesti e Floridia a fare da spalla (comica):
«È alto e ha un passamontagna che non si toglie mai […] Parla solo arabo e noto con una punta d'appresione che, a 'sto giro, l'arabo del Gabo è un po' meno fluente del solito. Si sbracciano. Gesticolano. Io partecipo alla discussione facendo sempre di sì con la testa. Finalmente dopo qualche lungo minuto (quando ho ormai i muscoli della testa praticamente da buttare) arriva con sollievo la prima parola chiara: interdict o qualcosa del genere)».
Teatro in viaggio è un taccuino venato di annotazioni antropologiche, sebbene fuori competenza come sottolinea lo stesso autore. È il racconto di Said, che con i fratelli affrontava chilometri di deserto su una sola bicicletta per studiare, poi lavoratore indefesso a Casablanca e innamorato di una ragazza di una classe sociale superiore. Così emigrato in cerca di soldi, clandestino, fuggito da un Cpt, infine sposato in Marocco. Il vuoto e la partenza, annota Floridia:
«Quasi siamo. Quasi qui. Quasi ora. / Siamo stati. Senza quasi siamo stati / ma laggiù dove eravamo resta un buco / che ha per forma quasi noi».
Molte altre sono le riflessioni, appuntate dopo i laboratori che il regista ha tenuto nel corso del viaggio, come a Marrakesh, dove emergono pensieri sulla ritualità che sembra permeare il sociale nordafricano, sulle soglie da attraversare per entrare in un mondo non quotidiano, rituale, artistico, così distante dalla nostra arte per tutti, «come le bollicine nell'acqua», «miraggio» di libertà per molti emigrati. La stessa fascinazione ai confini dell'abbaglio - a detta dello stesso autore - che coglie il teatrante europeo a confronto con i cerimoniali africani.
Ma quello che probabilmente più colpisce dell'intero progetto, che è pure un libro pubblicato dalle edizioni Nuova S1 (trascrizione del blog tenuto dall'autore su Repubblica Bologna), è l'affondo autobiografico che frastaglia l'incedere del racconto di viaggio. Per inoltrarsi in un altrove così vicino eppure così a rischio di luoghi comuni, per dare credibilità a racconti di vite che non sono quella di Floridia (per usare il titolo di un recente libro di Emanuele Carrère), l'autore non può fare a meno di riportare gli accadimenti al suo vissuto, e lo fa senza autoindulgenza, senza sconti. Lui parte per fare i conti con un «gelo da mancanza di senso», lo stesso che negli ultimi anni lo ha portato a interessarsi alle vicende di profughi, migranti, rifugiati. Con loro ha fondato una compagnia multiculturale e prodotto spettacoli, eppure sa bene che il suo teatro «non salva nessuno». Lui che per via dei sonniferi torna bambino nella natura selvaggia del deserto, pensando alle corse in bicicletta di Said come quelle che faceva da bambino con la sorella piccola, nel timore che il padre magistrato cadesse vittima di una imboscata (erano gli anni di piombo). Lui protetto dalla vita da un «muro di letteratura», persona che come tante è in preda a nevrosi che non fanno dormire, parte per fare i conti con qualcosa che non è arte, e per portare dentro alla sua opera la domanda più importante: a chi serve? Ciò che sembra contare, e ciò che convince più di tutto in un attitudine siffatta, non è la capacità di individuare risposte, o di tornare in Europa convinti di avere fatto il giusto, ma la qualità, la ferocia delle domande che si è disposti a porre al proprio operare, ai propri punti di arrivo.
Infine, lo si diceva all'inizio, Teatro in viaggio è anche una prova d'attore, per molti versi sorprendente. Celestiniano in certi passaggi, nell'ossessione verbale che ripete spezzoni di frasi; solista comico che si affida alla solitudine di una presenza corporea attraversata da registri diversi (gag, eloquio trasognato, riflessività), in cui il personaggio è una costruzione non necessaria, perché non si tratta di rappresentare ma di presentarsi, di raccontarsi di fronte agli spettatori. Forse in questa zona vorremmo chiedere di più a Floridia, nella distanza che si avverte fra la naturalezza ricercata l'inevitabile costruzione trovata, che per tratti prende il sopravvento mettendo a nudo delle forme, degli artifici (un gesticolazione marcata che aumenta il ritmo delle battute, una cadenza declamatoria che non sempre riesce a non farsi notare, ricostruendo il muro di una rappresentazione che per larga parte è trasparente). Si tratta, però, delle domande centrali che vien fatto di porsi di fronte a qualsiasi presa di parola pubblica, a maggior ragione se in una condizione che per statuto appartiene alla finzione, come è il teatro. Suscitarle e dare modo di discuterle è quanto chiediamo alle arti della scena.
A ulteriore conferma di tali ragionamenti, vale la pena attraversare la parte finale del libro, che ospita una serie di saggi di Floridia attorno al quello che lui chiama «il Teatro dello spettatore». Annotazioni di poetica, tensioni di una ricerca invita il pubblico a divenire testimone, spostandolo anche fisicamente dalla platea. Proposte di lavoro, annotazioni di una pratica in cui si chiede allo spettatore di «essere straniero al suo spazio abitudinario, al suo ruolo», attraverso una compresenza con chi è sul palco, chiedendogli di compiere azioni per fare in modo che ciò che si guarda ci riguardi. Niente di nuovo, soprattutto in tempi in cui la “partecipazione” è diventata un genere. Molto di nuovo, invece, se alla lucidità di una tensione corrisponde il nitore di una forma consonante, come pare mostrare il recente percorso di Floridia.