Non c’è bisogno di scomodare la semiotica per capire che il processo con tutti i suoi riti e i suoi attori ha molto in comune con il teatro. La stessa rappresentazione messa in atto da giudici, pubblici ministeri, avvocati, imputati, testimoni, consulenti per molti versi può essere osservata e interpretata secondo codici prettamente teatrali, per non dire naturalmente della questione del rito e della funzione pubblica. Poi c’è la questione della verità e della sua ricerca, ma qui il terreno, tra menzogna e finzione, si fa più complesso e scivoloso. Please, continue (Hamlet) della compagnia di Yan Duyvendak e Roger Bernat, visto a Short Theatre (già stato al festival di Andria, presto a Contemporanea Festival di Prato e ad Approdi Festival a Cagliari), fa riflettere su tutto questo perché lo spettacolo prova a far coincidere le due forme, a intrecciarle. Si assiste a un processo con un “vero” giudice (Giancarlo De Cataldo), con un “vero” pubblico ministero (Paolo Ielo), “veri” avvocati (Marco Fiorini e Francesco Rotundo). L’imputato è Amleto, l’accusa sostiene che sia colpevole della morte di Polonio. La parte civile è Ofelia e Gertrude è chiamata a testimoniare (mentre Claudio è scappato all’estero). Prima dell’inizio tutti si sono studiati una dettagliatissima istruttoria e quella a cui assistiamo è l’udienza dibattimentale con la requisitoria del pubblico ministero, le arringhe degli avvocati e le testimonianze. Amleto, Ofelia e Gertrude sono interpretati da attori (nell’ordine Benno Steinneger, Francesca Cuttica e Francesca Mazza) che indossano una ben visibile maglietta gialla in cui si riporta il nome del personaggio interpretato, con la qualifica tra parentesi di “attore/attrice” a scanso di possibili equivoci.
[Giancarlo De Cataldo in Please, continue (Hamlet) - ph Claudia Pajewski]
La tragedia, come genere, fin dalle sue origini ha sempre posto una domanda sulla giustizia e sulla verità, sui contrasti tra legge umana e legge naturale, tra le ragioni di Creonte e quelle di Antigone, tanto per ricordare il caso più emblematico, o tra le azioni consapevoli di Edipo e il suo destino incancellabile. Il Cinquecento italiano ha visto in particolare la produzione di Giovan Battista Giraldi Cinzio, da cui il Bardo ha attinto pure per qualche storia, che ha recuperato la tragedia proprio in relazione alla forma processo, in pieno clima di controriforma, con scopi anche didattici e pedagogici. L’idea del processo insomma ha vissuto per secoli nella tragedia, mentre in questo esperimento l’intento dei due registi sembra esattamente contrario: togliere la “tragedia” (e il “teatro”) miniaturizzando la vicenda di Amleto e riducendola a un puro fatto di cronaca. Il “fatto” è collocato perciò in un appartamento piuttosto modesto (quello della signora Gertrude), la situazione economica è precaria un po’ per tutti e Amleto passa le serate con gli amici a bere e a fumarsi qualche canna. La storia di Amleto è attualizzata e anche le leggi da rispettare sono quelle di oggi. Sembra così di assistere a un fatto di cronaca giudiziaria di quelli che si leggono sui giornali o di cui si parla in tv. L’accusa del “vero” pm è di piena colpevolezza: il giovane ha ucciso Polonio perché furioso per l’abbandono di Ofelia. Amleto sapeva bene che dietro la tenda non si muoveva il famoso topo, ma si nascondeva la vittima. Per questo l’accusa chiede ventuno anni. La perizia psichiatrica dimostra che Amleto, ritenuto “tossicofilo”, non è però pazzo, pur manifestando comportamenti un po’ paranoici e pur vivendo in maniera simbiotica e morbosa il rapporto con la madre. Le quasi tre ore di spettacolo passano veloci, ed è a tratti curioso veder questa storia raccontata nuovamente in maniera così nuda e scarnificata, badando soltanto a quello che è, in soldoni, accaduto, perché alla fine, viene da pensare che sono “i fatti” che contano. A volte il “mito” – tante sono le sue interpretazioni e i suoi valori metaforici – finisce per perdere di consistenza, rischia di essere solo ‘letteratura’ coi suoi significati di secondo o terzo grado. Tornare ai “fatti” potrebbe aiutarci a capire qualcosa in più, anche del “mito”, così viene da pensare all’inizio dello spettacolo.
[Francesca Cuttica, Benno Steinneger in Please, continue (Hamlet) - ph Claudia Pajewski]
Nel dopoguerra in Italia si diffuse a teatro quasi una moda per il processo. Il fatto di cronaca era l’occasione per denunciare e condannare l’inefficienza del sistema giudiziario, per ricordare che “la legge non è uguale per tutti”, che gli ultimi sono spesso vittime della giustizia. In Italia il processo a teatro ha dei riferimenti precisi: da una parte l’esempio “allucinato” di Ugo Betti con Corruzione al palazzo di giustizia e quel piccolo capolavoro che è La giustizia di Giuseppe Dessì, dall’altro tutto il versante della questione morale e cattolica: Inquisizione, Processo di famiglia, Processo a Gesù di Diego Fabbri e alla radio Pilato di Antonio Santoni Rugiu (a questa linea oggi potrebbe riferirsi Processo a Dio di Stefano Massini).
Il processo è un dispositivo per comprendere la realtà che può risultare, più o meno efficace, più o meno profondo. Nel caso di Please, continue (Hamlet) la questione si concentra sul fatto di cronaca, ma non viene posta una lente di ingrandimento sul testo originale. La vicenda è arricchita di un corredo di cento piccoli dettagli inventati, utili a complicare l’inchiesta in corso: come e dove sono state inferte le ferite, il riscontro di ulteriori escoriazioni sul corpo di Polonio, il cadavere rimosso dal luogo del delitto, la posizione di Gertrude e di Amleto nella stanza… tutto secondo il gusto, molto alla moda oggi, delle tante serie televisive in cui al centro stanno le indagini e le mosse di una mitologica polizia scientifica. La cronaca non diventa dunque un semplice pretesto per ridiscutere la realtà (o il mito), ma è il terreno più adatto per lasciar crescere e agglomerare gli elementi psicologici che andranno sommariamente a disegnare le figure dei personaggi. In questo senso lo spettacolo è meno interessante, perché i personaggi, benché i tre attori si mostrino bravi nell’adempiere al compito, svuotati del loro côté mitico e riempiti di una fragile dimensione psicologica, perdono il contatto con la vicenda shakespeariana e paiono essere quasi i protagonisti di una fiction, con caratteristiche abbozzate e mai del tutto convincenti: Amleto un ragazzo caratteriale, Gertrude piuttosto terribile, Ofelia una lagna... In questo modo il contrasto tra il “linguaggio” del teatro e il “linguaggio” della giustizia non si accende mai veramente, anche perché giudici e avvocati a tratti con mossette, tic e gesti plateali paiono attirare su di loro i riflettori dello spettacolo. I due mondi paiono risucchiati in una zona di finzione che incuriosisce e in parte diverte, ma che non si capisce bene dove porti. Forse paradossalmente la figura più curiosa è il cancelliere. Un po’ curvo e claudicante pare esser circondato da un’aura di polvere, è il cancelliere come ce lo immaginiamo, talmente rispondente alle aspettative, che viene da chiedersi se sia reale o un attore.
[Benno Steinneger in Please, continue (Hamlet) - ph Claudia Pajewski]
Dalle vicende di tangentopoli e dai processi al mostro di Firenze in modi diversi e per motivi differenti i giudici e le udienze sono entrate prepotentemente dentro ai palinsesti televisivi. Ed è ormai cosa nota la mancanza di inibizione di molti giudici di fronte alle sirene del successo e della visibilità. Il processo è stato spettacolarizzato in tante maniere: è diventato serata mondana di teatro, trasmissione mattutina televisiva, documento d’archivio notturno sede di morbosità o di misteri. Il narcisismo dei protagonisti e un certo voyeurismo del pubblico sono caratteristiche talmente forti da rendere il processo una forma, nel bene e nel male, sociologicamente molto interessante da osservare. Oltre ad essere un termometro della società civile, il processo dà uno spaccato distorto e al contempo veritiero dei volti, dei comportamenti e anche della lingua del nostro paese. In questo senso l’esperimento potrebbe darci qualche indicazione. Eppure la strana situazione che si crea, in un certo senso avvicinabile alla natura di un “reality”, provoca un disorientamento probabilmente non previsto. Please, continue (Hamlet) è da inserire in una sensibilità molto diffusa e crescente nella scena teatrale contemporanea europea; si ricerca il coinvolgimento di figure estranee al teatro per creare cortocircuiti tra finzione e verità, come fossimo in continuo deficit di realtà e avessimo bisogno di andare a fondo con qualcosa che abbia a che fare con l’autenticità. Oppure, dal punto di vista del pubblico, è come se lo spettatore fosse affamato di “realtà” che spesso fa rima: con il “dietro le quinte”, il lato nascosto, chi non recita ma si mostra per quello che è. È una interessante e contraddittoria sensibilità che ha generato esperimenti curiosi e grandi flop. Oltre a questo è il teatro stesso che cerca di creare dei dispostivi drammaturgici che possano coinvolgere direttamente il pubblico sia facendolo partecipare direttamente sia attribuendogli un ruolo o una funzione specifica. Gli spettatori sono non solo il pubblico del processo, ma sono anche i candidati naturali a far parte della giuria popolare, per questo motivo lo spettatore è chiaramente invitato a seguire con responsabilità l’intero processo perché potrebbe essere chiamato a esprimersi pubblicamente.
Questa ricerca ha naturalmente un padre, che sarebbe oggi di nuovo da ristudiare e ridiscutere, padre e nonno di tantissimi artisti: Marcel Duchamp. I meccanismi di ready made vengono applicati alle persone, ai ruoli sociali, ai gesti. In sintesi potremmo dire che all’origine di questa operazione si avverte “l’effetto Duchamp” anche se forse lo si usa al contrario, e invece di stupore e straniamento si cerca di coagulare i due mondi, facendo scomparire il teatro e spettacolarizzando, anche non volendo, l’aspetto giudiziario.
In Italia, a differenza probabilmente degli altri paesi in cui si è svolto Please…, lo spettatore non può che ricordarsi delle trasmissioni televisive di carattere giudiziario. La televisione ha talmente colonizzato il nostro immaginario collettivo che è inevitabile non pensare subito a un “effetto televisione”, questo sortisce naturalmente. È una sensazione che pare agire da imbuto risucchiando tutto quanto in una sorta di fiction e attenuando le altre asperità. Per cui in conclusione l’aspetto più provocatorio emerge alla fine, quando il regista legge gli esiti di tutti i processi svolti in precedenza (circa novanta), in cui per la metà delle volte Amleto è stato assolto, nelle altre recite (in Italia e all’estero) è stato condannato a una pena variabile da pochi mesi a dodici anni. In altre parole si dice che siamo in una situazione di estrema arbitrarietà, che i fatti sono talmente interpretabili che gli esiti giudiziari possono differire enormemente. A seconda di avvocati, giudici, pubblici ministeri e giuria popolare Amleto può essere assolto o condannato, è una questione che ha a che fare più con gli uomini che con le leggi. Preso atto di questo si può cedere a una sfiducia profonda verso i meccanismi della giustizia e potrebbe essere una constatazione in grado di far riemergere una sorta di vaga sensazione “tragica” o di denuncia sociale. Potrebbe essere anche una sorta di prova per sostenere un atteggiamento filosofico di assoluto relativismo o per radicalizzare le ragioni dei punti di vista, guardando a Rashomon. In realtà quest’elenco rimane sospeso. La notizia galleggia, sorprende, colpisce, ma rimane quasi l’esito di un gioco. E come un “gioco” forse è inteso tutto l’intero processo e anche il coinvolgimento del pubblico, chiamato a sorteggio a far parte della giuria che deciderà il caso. Un gioco di ruolo dove oltre al “mito” di Amleto, si liquida in fretta anche la sua Storia e la si allontana pure dalla memoria degli spettatori.
Quando accade questo processo? Amleto è vivo, ed è viva anche Ofelia, siamo ancora a metà della storia. Questo processo, nel gioco di ruolo che si innesca, avrebbe potuto cambiare l’esito della vicenda? Nella memoria dello spettatore potrebbe risuonare il ricordo del suicidio di Ofelia, i comportamenti della madre Gertrude, la degenerazione a cui si assiste dell’intera corte, l’indecisione e il dolore di Amleto. Una giustizia “giusta” avrebbe potuto cambiare la storia del mito? E quale sarebbe stata? E poi quale contrasto, quale conflitto tra le ragioni della giustizia e le ragioni di Amleto? Se si toglie la Storia e la sua memoria la questione della giustizia perde l’appiglio con i fatti. Il “rifare” il processo (a Gesù, a Dante, a Socrate…) significa in un certo senso provare a capire le ingiustizie e gli errori della Storia. Invece “de-mitizzare” Amleto e attualizzare la vicenda all’oggi in ogni suo aspetto sembrano strade un po’ confuse che esauriscono la loro prospettiva nel groviglio della semiotica.