Hate Radio, ospite al Terni Festival, riscuote un buon successo in Europa. Al regista Milo Rau, nato in Svizzera e residente a Berlino La Bâtie di Ginevra ha dedicato una sorta di personale con la proiezione anche di diversi film. Rau è pure regista cinematografico, ha poco meno di quant’anni ed è il fondatore del The International Institut of Political Murder. I suoi progetti hanno sempre un tema e un obiettivo politico, si parla di razzismo, di violenza, di guerre civili (i più recenti: Breivik's statement sul norvegese di estrema destra autore della strage di Oslo, The civil wars, sugli europei che partono a combattere per la Siria…).
La Hate Radio è la RTLM/ Radio-Télévision Libre des Mille Collines, stazione radio ruandese, determinante nel terribile genocidio della minoranza Tutsi nel 1994, esattamente venti anni fa. L’anniversario in Italia non ha avuto echi significativi, e anche a livello internazionale, in un periodo di guerre come questo, il genocidio in Rwanda, a quanto ci risulta, non è stato ricordato in modo particolare. D’altronde rappresenta uno dei casi più emblematici dei limiti e delle incapacità della comunità internazionale di intervenire in situazioni di guerra e di tragedia. Nel giro di pochi mesi furono uccise circa ottocentomila persone nei modi più atroci. La situazione così estrema ha spinto in molti casi a creare parallelismi con l’olocausto e il nazismo. Il genocidio in Rwanda rappresenta però anche uno dei primi casi in cui la macchina retorica e pubblicitaria dell’occidente ha innescato un processo su larga scala molto ambiguo di donazioni, adozioni, campagne di vario tipo… I “bambini del Rwanda” sono stati sbandierati negli anni novanta a più riprese diventando presto uno degli esempi peggiori di “rappresentazione del dolore” dei paesi africani da parte dell’occidente (memorabile fu a questo proposito Carmelo Bene al Maurizio Costanzo Show che urlò contro le ipocrisie del sociale: “Detesto anche la nazionale azzurra, però lo dico. Non me ne fotte nulla del Rwanda, e lo dico. Voi no! Non ve ne fotte, ma non lo dite! (…) Non sono eroico, me ne infischio di me stesso”).
Hate Radio è la ricostruzione filologica di una puntata della trasmissione radiofonica che ebbe un’influenza fortissima nel fomentare gli animi e promuovere la violenta ideologia Hutu in Rwanda. Il pubblico osserva lo studio radiofonico da cui viene trasmessa la puntata, ed è suddiviso in due gradinate che si fronteggiano. Oltre il vetro siedono tre conduttori (che interpretano i due speaker di etnia Hutu e l’italo-belga Georges Ruggiu, che alla fine scontò nove anni di carcere per poi scomparire nel nulla, alcuni dicono di averlo visto in Siria…), un militare, per garantire la sicurezza della messa in onda, e in regia un discjockey. È uno studio radiofonico semplice e moderno, che non ha nulla di particolare se non per tre pistole posate sul tavolo e un discreto disordine tra birre, sigarette e tanti fogli di appunti. Lo spettacolo è preceduto, e seguito, dalla testimonianza toccante di quattro persone che in modi diversi hanno vissuto i mesi del genocidio. All’inizio in scena appare solo un grosso parallelepipedo sulle cui pareti vengono proiettati i video. Poi le veneziane si sollevano e si mostra all’interno lo studio radiofonico.
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Dura quasi due ore e, a parte le testimonianze che fungono quasi da parentesi didattica per il pubblico, si sviluppa come rappresentazione della trasmissione radio. Si dice all’inizio che questa aveva toni di fanatismo, che propagandava lo sterminio dei Tusti, ma che era talmente eccessiva da sembrare solo un flusso di parole, offensiva certamente, ma non in grado di modificare la realtà delle cose. Quando i fatti precipitarono, la realtà sembrò aderire rapidamente a quelle parole di odio assoluto, si creò un corrispettivo letterale.
La propaganda radiofonica colpiva in maniera micidiale secondo la teoria del “tamburo tribale”, come è stata definita da McLuhan: la radio può evocare negli ascoltatori non un’adesione razionale o razionalizzata (come la stampa), ma rituali celebrativi di tipo tribale. L’Europa ha conosciuto bene l’utilizzo martellante della radio negli anni dei totalitarismi; in Rwanda siamo nel pieno degli anni novanta, il mondo è completamente diverso e gli insulti razziali non possono che mescolarsi a nuove modalità e nuove sensibilità più attuali, a partire dalle scelte musicali.
Nel continente africano la radio ha avuto e continua ad avere una funzione importante. In positivo sono le radio comunitarie quelle che più hanno inciso sulla vita quotidiana. Segnali che trasmettono solo fino a pochi chilometri di distanza diventano comunque elemento di narrazione, di informazione, di lotta, come ad esempio nella Nigeria di Wole Soyinka prima e di Ken Saro-Wiwa dopo (e anche di questo si racconta nel libro Si sente in fondo? di Lorenzo Pavolini).
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La RTLM adotta – per la prima volta in Rwanda – tutta una serie di elementi e di modalità provenienti dai paesi occidentali. Si usa una lingua che non solo si pone in maniera molto colloquiale, ma è contraddistinta da slang, espressioni volgari, violente, dissacranti; si utilizzano i “giochi” radiofonici, come il quiz, per riscrivere una fantomatica storia del Rwanda dal punto di vista degli Hutu; si crea un rapporto molto stretto con gli ascoltatori che scrivono di continuo alla redazione; e soprattutto si inizia ad adoperare il telefono e a lasciar parlare il pubblico. La voce dell’ascoltatore invisibile della radio ha un effetto prorompente quando appare per la prima volta in radio (lo ebbe anche in Italia negli anni settanta, soprattutto all’epoca delle radio libere). In un certo senso certifica una comunità di ascoltatori e innesca un forte meccanismo di contagio. Queste dinamiche vengono utilizzate dalla RTLM al contrario, non per emancipare una comunità, ma per creare consenso e fare propaganda violenta. Le telefonate servono per denunciare, diffamare, offrire informazioni utili allo sterminio di massa… Poi ci sono le scelte musicali, determinanti per decretare il successo delle trasmissioni: le modalità sono quelle delle radio commerciali, dj aggressivi, ritmo rapidissimo e martellante, mancanza assoluta di silenzio… Potremmo dire che l’ingresso di RTLM dentro l’universo della radio commerciale coincide con la propaganda della violenza, e i due linguaggi non sono in contraddizione. RTLM lavora anzi per mandare in onda trasmissioni che hanno tutti gli ingredienti per essere divertenti, coinvolgenti ed energetiche, mai luttuose. Lo si dice alla fine dello spettacolo “bisogna andare avanti”, per questo i conduttori che monologano per più di un’ora senza interruzioni si scatenano al ritmo – che suona, nell’equivoco, più che atroce nei giorni del genocidio – di “Rape me” dei Nirvana. Il pubblico assiste a tutto questo guardando lo studio di registrazione e ascoltando la trasmissione in cuffia, perché all’ingresso sono state distribuite delle radioline con le quali si ascolta una frequenza reale utilizzata per trasmettere lo spettacolo. In questa maniera si prova un po’ a rinforzare l’effetto radiofonico, per una ricostruzione che vuole immergere lo spettatore in una condizione di esperienza e far capire la potenza delle parole. Le parole possono diventare armi terribili di persuasione e di propaganda, soprattutto se diffuse “alla radio”, cioè con moderni mezzi di comunicazione di massa; allo stesso tempo la parola fu ugualmente strumento di resistenza e di lotta, lo si ricorda nel film pluripremiato Hotel Rwanda, in cui si salvarono più di mille persone, rinchiuse in un hotel, grazie alla forza persuasiva della parola, questa volta soprattutto detta “al telefono”.
Lo spettacolo si presenta come uno specchio il più possibile fedele alla verità. In questo senso, seppur in maniera più semplice e con intenti più didattici, il lavoro di Milo Rau ricorda molto da vicino il teatro documentario dei Rimini Protokoll. L’”immersione” del pubblico non avviene però completamente, proprio perché si offre uno “specchio” della realtà, su cui non è facile trovare porte di ingresso, al di là del trovarsi di fronte a un orrore. Con la rappresentazione del “male” in scena e una cornice video di “bene” lo spettacolo a suo modo è semplice e si appiattisce un po’ nella denuncia dell’accaduto. L’aspetto più interessante è certamente la questione della radio e di come forme occidentali di oggi possano essere contenitori perfetti per retoriche atroci. Il contesto generale rimane poco approfondito, probabilmente se si fosse riusciti a inserire di più questa Storia nelle vicende fallimentari del colonialismo europeo, lo spettacolo ci avrebbe aiutato non solo a ricordare l’orrore a distanza di vent’anni, ma a capire un po’ di più il perché tutto questo ci riguardi da vicino.