Il palco è vuoto. Il pubblico prende posto in sala.
Una voce fuori campo dà una definizione di BIG BANG.
Tre scienziati parlottano tra loro e segnano appunti sui loro taccuini. Alternano piccole riunioni al centro della scena a solitari calcoli su profondità, lunghezza, larghezza e altezza dello spazio. Dopo un primo tentativo si scambiano altri dati, li assemblano, e trovano finalmente un unico punto. Il centro esatto della scena (o dell’universo?). «Mi scusi, lei, signore in prima fila, mi sembra abbastanza alto per aiutarci. Sarebbe così gentile da tenerci il segno su questo punto?» Il signore si alza e si sostituisce ai tre, che si assentano rapidamente. Un breve conto alla rovescia in attesa di qualcosa. Niente. «Forse è la materia. Forse è necessaria l'assenza di materia». Svuotato totalmente lo spazio, qualcosa accade. Un rumore sordo. Il big bang, ricostruito in laboratorio. In questo istante si aziona un cronometro collocato sul fondale, mentre un orologio indica l'ora reale. I tre scienziati tornano con tanto di champagne e brindano al loro successo. Alle loro spalle compaiono formule matematiche.
La scienziata donna porta in scena un computer. Sullo schermo appare un videogame, una sorta di simulazione della crosta terrestre, sulla quale è possibile aggiungere elementi naturali come montagne, acqua, vegetazione, animali; far piovere meteoriti, scatenare eruzioni di vari gradi. Si aggiungono minute variazioni. Sono esperimenti senza una chiara utilità scientifica. Il videogioco si dissolve, e l'immagine terrestre si concentra in un’unica sfera. Il pianeta terra. Ne emerge una figura animata. Un uomo dal teschio oblungo, le spalle larghe. Un corpo appena definito da una spessa linea.
VITA o SPECIE
I tre scienziati tornano in scena con un tavolino, due servizi di attrezzi per operazioni chirurgiche e una pianta grassa. Collocato al centro del tavolino, il piccolo cactus viene vivisezionato. Con una siringa lo scienziato-chirurgo estrae qualche goccia di linfa che riversa in una tanica da cinque litri, piena quasi per metà dello stesso liquido.
ORIGINE
Lo scienziato e la scienziata si prestano a un esperimento. Sulla maglietta di lei c’è scritto “Eva”, su quella di lui, “Adamo”. Provano la postura della scimmia: come appoggia le zampe, che direzione segue il pollice, come muove il collo? E qual è il suo verso? È aggressiva o docile, timida, o espansiva? Lo scienziato che li osserva, dopo aver dato indicazioni, esce di scena, per rientrare mascherato da Darwin. Adamo ed Eva sono ora rivolti al pubblico, il viso rosso per lo sforzo, gli occhi inespressivi. Si sforzano di parlare, ma è una lingua preverbale, sconosciuta, inafferrabile. Qualche vocale nel mezzo di consonanti strascicate tra la lingua e il palato.
Ora Darwin consegna un libro a Eva, che lo regge davanti a sé e ad Adamo. Si sforzano di leggere. Nascono delle sillabe, il volume della voce aumenta. Al massimo dello sforzo, il viso contratto, ecco che dalle loro labbra esce una frase: «In principio era il Verbo». Darwin estrae una pistola e spara. Due colpi dritti al cuore delle due figure, ora stese a terra senza vita.
EVOLUZIONE
Entra in scena un grosso panda. L'ultimo rimasto sulla terra. Si confessa al pubblico: sono triste, depresso, solo. Voglio morire. Ecco che arriva Mickey Mouse. Il nostro amato Topolino con il suo eterno sorriso tenta di consolarlo. «Ti puoi adattare! - gli spiega - Guarda me!» Sullo schermo compaiono vari Topolino in sequenza, dalla sua nascita a oggi: «Lo vedi? Prima assomigliavo veramente a un topo, con il mio naso sporgente e le orecchie dritte. Adesso ho il corpo tondo e le braccia grassottelle: assomiglio a un bambino! Mi sono adattato all’orizzonte simbolico!» Ma il Panda ha deciso. La scienziata, ora muta infermiera, spinge un lettino sul fondo della scena. Ha in mano una grande siringa già pieno del liquido mortale. Il panda è pronto, Topolino no. Gli tiene la mano nell'attesa del suo ultimo sospiro. Il panda si estingue. Ha realizzato il suo ultimo desiderio. Il suo corpo viene riposto in un sacco da obitorio.
Charles Darwin è al centro della scena, con il suo trattato in mano. Ai suoi lati i due attori indossano numerose magliette, l'una sopra l'altra. Assumono rapidamente le diverse identità che il nome sulla maglietta gli indica: Freud, Hitler, Marx, Giovanna D’Arco, Dalai Lama, Andy Warhol, e uno per volta si rivolgono a Darwin. Anche Dio compare in questa carrellata, e per ultimi, di nuovo, Adamo ed Eva.
ESTINZIONE
La scienziata riporta in scena il computer, e riaccende il videogioco. Nel terreno che avevamo modificato prima, adesso è cresciuta una città. Si vedono strade, agglomerati di case, un parco, automobili e biciclette, ciminiere fumanti di industrie. Compare una funzione su una piccola finestra “Distruggere città?” Sì. Gli scienziati si allontanano rapidamente dalla scena. Il cronometro avviato con il Big bang si interrompe. Buio.
Una sottile lama di luce sulla scena. Due attori svuotano sacchi di terra scura sul pavimento, tracciando una strada che attraversa il palco da un lato all’altro, scavalcando un grosso sacco nero. Nell’atmosfera post-atomica fa ingresso una prima figura in tuta integrale. Sentiamo il suo respiro ansante, come se traesse ossigeno da una bombola. Percorre la strada, senza fermarsi. Un secondo astronauta si incammina sulla striscia di terra. Si ferma a metà, mostra interesse per l’involucro nero. Dà un’occhiata rapida al suo interno e prosegue per la via. Il terzo fa la stessa cosa, ma stavolta apre il sacco ed estrae il suo contenuto. Sono due scheletri, ognuno ha sullo sterno una targhetta: “Adamo” ed “Eva”. L’uomo li porta via con sé. Sulla via ora vuota entra una donna, con la testa scoperta. Si ferma a metà strada, si accovaccia, scosta un po’ di terra con le mani e delicatamente pianta un seme nel terreno, che innaffia con una goccia di linfa.
Dalla fine all'inizio
Noi non ci siamo. L’inizio di tutte le cose non ci vede protagonisti. L’essere umano arriva dopo, un capitolo come un altro nella storia della Terra. Teatro Sotterraneo ha una lingua feroce, sottile e precisa come un bisturi. L’origine delle specie è un Big Bang in provetta, un nuovo traguardo grazie al quale la scienza umana supera i suoi limiti, ricostruendo in laboratorio l’origine della vita, dopo aver finalmente trovato (e occupato) il centro esatto dello spazio. Il “cielo di carta” momentaneamente ripristinato non viene lacerato, ma sezionato con cura. La poetica chirurgica, quadro per quadro, stilizza con ironia il percorso di adattamento all’ambiente fisico, fino all’estrema strategia evolutiva: la capacità simbolica che distingue l’uomo da tutti gli altri animali, arma a doppio taglio che gli permette di sopravvivere o di autoestinguersi in una distruzione collettiva che coinvolge tutte le altre specie. Ma la nostra fine non è la fine. La goccia di linfa che aveva generato la prima vita è stata conservata e cade di nuovo, a fecondare un nuovo terreno.
(alessandra cava)
Adattarsi all'ambiente simbolico
È l’imperativo per non morire, anzi per non estinguersi, che Mickey Mouse espone all’ultimo Panda sulla faccia della terra. Ma è anche l’imperativo a cui tutti quanti sembriamo aderire: individui, gruppi sociali, partiti politici, occupati in questi tempi di confusione e atrofia della capacità di immaginare altri mondi possibili a replicare se stessi nella versione più socialmente accettabile. La visione romantica e rivoluzionaria di Mafalda (di Quino), che esortava a cambiare il mondo prima che il mondo cambi noi, non è più nell’orizzonte degli eventi possibili. Adattarsi all’ambiente simbolico significa dialogare col mainstream in forma necessariamente compromessa: la forbice va dalle schiere di ragazzi raccontate da Marco Lodoli che prendono per sinonimi “integrazione” e “omologazione”, ai sistemi intellettuali – che nello spettacolo tirano Darwin per la giacchetta a proprio uso e consumo – che non sanno più articolare il mondo, prigioniere di una dialettica intimamente “scorretta”, dove l’unico obiettivo e imporsi sull’altro. Il picco dell’adattamento della specie, sembra suggerire lo spettacolo, coincide col suo snaturamento.
(graziano graziani)
Mutazione
I temi biografici e generazionali sono stati disciolti in un regesto ottocento-novecentesco per provare a dire qualcosa, anzi per formulare una domanda. L'idea di fondo pare essere: questo è il racconto della specie in estinzione, ce ne siamo accorti, lo sanno tutti, facciamo il punto, e non per far girare a vuoto il motore, ma per riflettere sulla questione che più ci sta a cuore: che tipo di umanità siamo? E soprattutto cosa saremo?
L'architettura scenica sostiene questa ipotesi, dentro ad una struttura ordinata si generano alcuni quadri portatori di vera inquietudine. Non c'è più l'ombra del cinismo, anzi siamo davanti a un'accorata lezione, una pubblicità no-progresso, declinata in chiave pamphlettistica. Ci sono tuttavia suggestioni (in scena e nei video) che, sorrette dalla forma, vanno oltre il pamplhet ben confezionato e generano uno spaesamento misto a magone di fronte a cui il pubblico non può baloccarsi, ma porsi il problema.
L'origine e la fine della specie convergono: l'uomo non può tenere il punto e bisogna far “tornare i conti”, il panda non ride e vuole morire, necessario è seminare anche se non si sa cosa nascerà.
Che cosa ci aspetta? Se la strada non è più conosciuta (menomale!) noi mutanti, in questa fase di passaggio tra la carrellata dei grandi su t-shirt e chi nascerà dopo, come possiamo organizzarci?
La riflessione sembra andare in questo senso e ce n'è un gran bisogno.
(nicola ruganti)
Discorso
Siamo alla ricerca di qualcuno che si prenda la responsabilità di “dire” e non solo di mostrare. Teatro Sotterrano persegue tale ambizione, sapendo di dovere mettere da parte qualcosa della loro stessa storia. Dies Irae sputava in faccia al pubblico un fotografia esasperata di come siamo, per capire in che modo siamo giunti a tanto, fino a vendere al miglior offerente la nostra stessa identità, ma pur sempre con quell'ironica distanza di chi osserva da fuori, di chi in qualche maniera “commenta” e fotografa. Ora per restare nello scenario a morire o mutare è proprio la carica decostruttiva, quella che a un certo punto entrava nel corpo di un pupazzo da parco dei divertimenti (in La cosa 1). Sotterraneo, similmente a Topolino ma a ben vedere mutando di segno all'adattamento, si chiede come rimanere vivi e pensanti di questi tempi e sacrifica parte del proprio meccanismo estetico, in cui l'orologeria di una forma nascondeva “virus” infestanti sempre sul filo fra integrazione e sovversione. La scelta è chiara, perché quel pupazzo ora è un panda che s'infligge un'iniezione letale, perché l'ambigua (e spesso feroce) pulizia delle superfici ora diviene lineare progressione di un racconto: nascita – adattamento – morte – rinascita, in cui conta tutto non tanto sopravvivere ma “come si sopravvive”, per non farsi fagocitare dal contesto, per non voltare il capo, per toccare le corde di qualche spettatore in più che non sia il solito dei festival. Un discorso sempre più urgente e doloroso, da fare senza fermarsi a raccogliere il latte versato, recuperando altrove ciò che si perde.
(lorenzo donati)
Prato, 2010