L’ultimo lavoro di Fibre Parallele intitolandosi La beatitudine non poteva che presentare aspetti a dir poco atroci. D’altronde già nel titolo del precedente spettacolo si accostava lo “splendore” al “supplizio”, con un certo piacere del ribaltamento, e si procedeva per quattro lunghi episodi che sembravano quasi exempla di una morale stravolta. La beatitudine pare nascere come lo sviluppo narrativo della prima scena dedicata a La coppia. In quel caso due sposini, molto borghesi, erano letteralmente incatenati a un divano, occupato al centro da un ridicolo gattino meccanico. Adesso le coppie sono due: da una parte i giovani che non riescono ad avere un figlio, sostituito con un inquietante manichino, e dall’altra una madre anziana e il figlio malato, costretto in sedie a rotelle, e tra loro morbosamente legati.
In quella roccaforte del teatro, che è il festival Primavera dei teatri – organizzato con ostinazione e tanta passione da Scena Verticale a Castrovillari, un festival con un clima unico, per grazia e accoglienza, che ha saputo riunire negli anni, con equilibrio, la comunità teatrale e gli spettatori del luogo – il tema della coppia ha attraversato più lavori, dalla violenza borghese, tutta in sottrazione, del dialogo serrato in Polvere di Scena Verticale alla condivisione della malattia, delle medicalizzazioni forzate e della morte del padre in Io muoio e tu mangi! di Quotidiana.com.
[ph Rosaria Pastoressa]
In tutti i casi la coppia è il luogo del dolore o di riflessione sul dolore. Nel lavoro di Fibre Parallele la coppia è sottoposta a un accelerato processo di disgregazione, con la costruzione di una isteria crescente, che arriva a una vera e propria esplosione. L’articolata drammaturgia di Riccardo Spagnulo e cinque forti prove d’attore (Licia Lanera, Riccardo Spagnulo, Danilo Giuva, Lucia Zotti, Mino Decataldo) danno vita a un lavoro che a tratti pare fin troppo ambizioso nell’interrogarsi sulle diaboliche implicazioni della rappresentazione e dalla finzione teatrali e allo stesso tempo si pone come efficace specchio incubotico per più di una generazione, schiaffando in scena con spudoratezza le angosce del corpo e del tempo. Dando sfogo ai desideri più reconditi e inconfessabili, il ragazzo in sedia a rotelle diventa l’oggetto del desiderio della giovane attrice e così la madre settantenne del giovane attore. Lo specchiarsi vicendevole di questi quattro personaggi, al cospetto del bambino-manichino, surrogato di un aborto o di un desiderio mai esaudito, e di un mago imbroglione e filosofo – in verità non del tutto risolto – innesca un processo di autodistruzione irreversibile, risucchiando ancora una volta tante paure, morbosità, angosce, che sono di sempre (e per questo si sfiorano gli stereotipi dell’inferno della coppia, la dissoluzione borghese etc.), ma soprattutto di oggi (il tempo che scorre nonostante l’ideologia di un eterno presente, l’invecchiamento dei corpi, l’inaspettato risvegliarsi della natura), e realizzando così un lavoro che, per la forza di alcune scene, sarà davvero difficile da dimenticare.
articolo pubblicato il 05/08/2015