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Franco Maresco per Franco Scaldati hello
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Gli uomini di questa città io non li conosco
è il titolo commovente e doloroso dell’ultimo film-documentario di Franco Maresco, dedicato all’attore e drammaturgo Franco Scaldati, scomparso due anni fa. Che il cinema guardi al teatro (alla sua storia, alla sua cultura specifica), dedicandogli attenzione e spazio narrativo, non è per niente scontato, anzi è fatto piuttosto raro. In felice controtendenza questi ultimi mesi hanno visto l’uscita anche dei due documentari del montatore e regista Jacopo Quadri, figlio del critico Franco Quadri, dedicati a Luca Ronconi ed Eugenio Barba.
Dell’ultimo scorcio di secolo, Scaldati è figura minoritaria, ma non minore. Sconosciuto ai più (anche tra gli addetti ai lavori), è stato maestro di tanti (tra gli altri dello stesso Franco Maresco, Emma Dante, Vetrano e Randisi…) e in qualche modo origine del teatro di ricerca nella città di Palermo (teatralmente legata fino ad allora solo alla tradizione dei pupi e della vastasata).
Il titolo suona una dolorosa presa d’atto di una situazione cittadina insopportabile, sempre più irriconoscibile: un’affermazione ancor più triste se si pensa che Scaldati proprio di Palermo e in particolare dei suoi quartieri più poveri e popolari è stato cantore e poeta. Il «non conoscere più gli uomini di questa città» significa perciò denunciare la profonda mutazione che ha attraversato, Palermo, la Sicilia e l’intero paese. «Non si può capire l’Italia senza aver visto Palermo», scriveva Goethe nel suo viaggio, e dopo due secoli il monito sembra valere ancora, soprattutto se si guardano le ultime opere di Franco Maresco, l’originalissimo e sorprendente Belluscone e questo documentario su Scaldati, che sono un feroce “carotaggio” – per dirla con Giorgio Vasta e il suo prezioso libriccino Spaesamento (Laterza, 2010) – nella terra palermitana, nell’immaginario di un paese, nell’animo umano.
Si comincia con le immagini d’archivio di una Palermo antica (sono le impressionanti riprese di Robert Young a Cortile Cascino), uscita da non molto dalla guerra, di bambini che giocano tra macerie e stracci. Si inizia con la Palermo di Danilo Dolci, con la miseria, la paura, ma anche con una viscerale autenticità umana. Il documentario si conclude all’inverso in tempi recenti, con il funerale di Scaldati, il tardivo mea culpa dei politici per non avergli mai dato uno spazio teatrale, una serie di interviste al pubblico, in uscita da uno spettacolo del Teatro Biondo, al quale si chiede di Franco Scaldati, senza ottenere risposta: un carneade, scomparso dalla memoria in brevissimo tempo, amaramente relegato in una nicchia. Si comincia raccontando della Palermo in cui crescerà Scaldati (prima sarto e poi attore) e si conclude nella Palermo dove è morto e dove è stato in larga parte, ma non del tutto, dimenticato. È un percorso sviluppato cronologicamente tramite materiali d’archivio (di Palermo e degli spettacoli), interviste recenti (tra gli altri Goffredo Fofi, Nino Drago ed Emiliano Morreale) e una voce fuoricampo che racconta e spiega. Si mettono da parte le armi dell’ironia e di una certa ferocia “cinica”, tipica della produzione di Maresco (e ancor prima del duo Ciprì e Maresco) per una narrazione lineare che vuole far “capire” e far “conoscere” la figura di Scaldati, ma che non può rinunciare a una profonda rabbia per una parabola artistica che ha avuto molto meno di quanto si meritava, che non ha avuto nemmeno uno spazio vero dove poter far le prove.
È perciò un «documentario di servizio» come lo definisce lo stesso Maresco. E il servizio è far conoscere questo poeta e attore, mostrarlo negli affascinanti materiali d’archivio, nella rievocazione del suo testo più famoso, Il pozzo dei pazzi, sua prima fase più “violenta” e “metafisica”, spettacolo definito come un «Giobbe rappresentato da Beckett» (secondo G. Fofi) a tutti i lavori successivi (a partire da Lucio) che portarono Franco Quadri a definirlo come «il Beckett siciliano», pubblicandogli numerosi testi (che sono comunque meno della metà rispetto ai testi ancora inediti). Si tratta anche di un’immersione in una lingua dialettale così antica e naturale che sembra di ascoltare le sonorità della scuola siciliana, la rosa fresca aulentissima, la poesia e la parodia, le parole chiave – luna, stelle, sole, luce – che attirano lo sguardo in alto, ai massimi sistemi, mentre i piedi rimangono ben piantati a terra.
Il documentario racconta tutte le fasi principali della carriera di Scaldati, dagli inizi negli anni Settanta, al lavoro come attore al Biondo di Palermo appena diventato Stabile, al lungo e straordinario laboratorio nel quartiere dell’Albergheria. Con l’avvicinarsi ai nostri giorni si intensificano anche le videointerviste che Maresco nel corso degli anni ha realizzato a Scaldati e sono momenti intimi, durante i quali emergono i temi cardine dell’autore:

(Palermo) «Più io entravo nella città, nella civiltà che andava verso il progresso, e più mi sentivo spinto indietro. Mi sentivo a ricavare l’essenza, a cercare il luogo in cui si è nati. Più mi proponevano il progresso e più andavo in direzione opposta, e quindi ho scelto di resuscitare i morti e parlare con loro. Il mio continua a essere un viaggio all’indietro, nella storia, a scoprire e a cercare le radici, l’essenza delle cose».

«Tutto sommato vorrei essere la coscienza critica del teatro italiano, la spina nel fianco. Solo che gli altri se ne fregano, non mi considerano tale… il mio teatro si pone continuamente il problema del perché fare teatro, perché esserci, per chi fare teatro… è chiaro che non lo facciamo per l’appagamento di noi stessi… un teatro che è portatore di poesia violenta che chiede perché esserci e cosa fare, e chiede implicitamente un cammino verso un rapporto più solidale tra gli uomini. E che non si guarda allo specchio, non si appaga di se stesso così come sembra faccia tutto il teatro italiano di oggi».

Per il teatro italiano questa di Franco Maresco dovrebbe essere un’opera importante, perché si dà conto con lucidità, forza e onestà di un’esperienza minoritaria, ma di grandissimo valore. Buona parte della storia migliore del teatro del secondo novecento è stata una storia di minoranze, che spesso hanno operato nell’ombra e si sono scontrate duramente con le miopie, le stupidità, le durezze di un paese che di rado ha saputo valorizzare i suoi figli migliori. Rinnovare la memoria e ricordare la radicalità di queste poche figure oggi ha un valore ancor più importante, nel tentativo necessario di tenere un filo teso tra passato e presente.


di Rodolfo Sacchettini
 

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