La messinscena di De Capitani cova nel profondo quel senso di ristrettezza che una stanza-mondo come quella di Blasted suscita: è un ring ripetutamente agito, un piccolo campo di battaglia striminzito, claustrofobico. La misera realtà di periferia, fuoriuscita dal testo d’esordio di Sarah Kane, esplode violenta e ineluttabile in una dimensione macrocosmica del mondo. L’azione resta circoscritta fisicamente nello spazio, ma invade psicologicamente gli spettatori, martellando i sensi, coinvolgendoli in un vortice di stupri, defecazioni, cannibalismo, truculenze di ogni tipo, in cui nessuno è innocente, nessuno è migliore degli altri.
Una camera d’albergo fa da sfondo alle esacerbate azioni di un manipolo di vittime che a stento cercano di trascinare la loro stanca realtà verso una direzione indefinita, vuota, che suggella una solitudine priva di relazioni. Due personaggi disfatti: Ian (Paolo Pierobon), quarantenne giornalista da rotocalco malato di cancro e di alcol, razzista e arrogante, senza scrupoli e senza illusioni, e la sua giovane ex amante Cate (Elena Russo Arman), ragazzina semplice e inesperta, un po’ disturbata, non brillante, giocherellona, forse inetta. Lenta ma inesorabile, la passività di Ian si fa aggressiva verso Cate, che sembra non stare al gioco ma lo alimenta con la sua incapacità di vivere, fino alla totale perdita di controllo, in cui si consuma la violenza carnale di Ian su Cate e, in una triangolazione di crudeltà, sarà poi il Soldato (Andrea Capaldi) a fare di Ian la sua vittima, assurgendo a ruolo di carnefice. Nelle sue violenze/dipendenze, la Kane mescola lo squilibrio della coppia con la guerra dell’ex-Jugoslavia, rappresentata dall’insorgere del soldato nella camera d’albergo, che diventa così un macrocosmo di violenza, in cui le bombe scardinano le travi del palcoscenico e le pareti collassano su se stesse, in un lenta e macabra litania di morte. E lo stupro privato diventa così collettivo, si amplifica nella sua forma “pubblica” attraverso la ferocia della guerra. E tra le macerie della messinscena non c’è più scampo, si muore e si risorge nelle carambole di violenza, condannati a subire ripetutamente la stessa identica fine.
Le opere di Sarah Kane non sono di semplice interpretazione: non è facile a volte capire il senso ultimo di quella violenza sfacciata che invade i suoi testi. Questo succede se ci si ferma alla labile apparenza delle sue parole. Blasted propone uno spaccato nero, di orrori, senza via di scampo, come se fosse predestinato al male, unica direzione possibile, unica realtà presente, senza supporre o immaginare vie d’uscita. Sarah Kane non perdona: non propone alternative, non lascia vie di fuga. Ma il concentrato di spietata violenza battuta nelle righe dei suoi testi, supera le immediate apparenze producendo un significato ulteriore, avanzato: negli orrori e nelle prevaricazioni resi sulla scena (quindi visibili e vivi, come quando il Soldato spiega perentoriamente tutte le violenze da lui commesse tra le macerie della guerra senza pudore né decenza), l’autrice cerca di stimolare spietatamente il cervello a reagire per proporre delle alternative, per sviluppare una possibile soluzione alla crudele realtà fatta di uomini. Nella messinscena di Blasted di Elio De Capitani, vi è un blocco compatto di aggressione e minaccia sfacciatamente mostrato, senza nascondigli o escamotage da utilizzare per velare la crudezza del testo, ma in scena rimangono a volte immagini fisse, secche, fredde. Il regista indaga il testo e lo presenta agli occhi del pubblico con lucidità, ma forse senza rischiare. Ed è per questo che spesso le scene soffrono di una certa ridondanza, o comunque di un’eccessività non necessaria, che, percorrendo la via di un realismo coatto, sfiora la gratuità. Lo spettacolo scava nel “corpo” del testo di Sarah Kane, sviscerando parola per parola la fittissima drammaturgia senza però ricostituirla: come se un chirurgo tagliasse il corpo di un paziente lasciandolo a cuore aperto. Il regista ha sviscerato l’opera della Kane esasperando la violenza che è alla base del suo teatro, l’ha espressa fisicamente e realisticamente in scena, fermandosi però a “presentare” il testo, senza “rap-presentarlo”, senza “ri-leggerlo”. Edward Bond disse che le immagini sono come presagi e che bisogna imparare a interpretarle. Il teatro di Sarah Kane è un teatro di immagini estreme, situazioni spremute fino al collasso, realtà unidirezionali, in cui non esistono apparentemente soluzioni. Il rischio che si corre, passando dalla parola scritta all’immagine, è di scivolare lentamente dall’eccesso testuale al ridicolo o addirittura al falso scenico, all’insopportabile, al troppo mostrato e al poco sentito. Forse qui sta lo scarto, qui il limite della regia di Elio De Capitani. Probabilmente si gioca tutto su un confine, su una lama incisa tra la messinscena e il testo, su cui è facile tagliarsi. Mettere in scena Sarah Kane è “far ri-vivere” la violenza del mondo che abitiamo: una prova scottante, difficile, una battaglia viscerale che la stessa autrice ha combattuto raffigurando il cronico disagio esistenziale nei suoi testi ma togliendosi la vita quando si trattava di affrontarlo quotidianamente, aldilà delle quinte teatrali. Oggi forse toccherebbe ai registi cercare di riscattarla o forse tentare di rileggere il significato nascosto dietro alla sua violenza sfacciata. I testi di Sarah Kane sono come bombe inesplose nascoste nei mari: possono essere gestiti, rappresentati in modo esaustivo, ma da un momento all’altro potrebbero esploderti tra le mani, stravolgendo le intenzioni iniziali.