Castrovillari, Calabria. Primavera dei Teatri è la conferma dell'esistenza di un teatro prossimo alla vita quotidiana. Da oltre quindici edizioni, il gruppo di lavoro della compagnia Scena Verticale costruisce un'occasione per condividere, discutere, vedere il teatro italiano odierno. Sembra scontato, quando si parla di un festival, eppure rintracciare un luogo in cui sia possibile farsi un'idea delle direzioni del teatro attuale, quali le domande, quali i gruppi che le stiano sostenendo sta diventando sempre più complicato. A Castrovillari questo accade, forse anche grazie alla “semplicità” di una linea curatoriale che evita attraversamenti “tematici” che spesso rischiano di apparire posticci, né di rincorrere un mercato comunque ingessato attraverso vetrine internazionali. Primavera dei Teatri fotografa lo stato dell'arte, attenta in particolare a quegli artisti che scelgono di lavorare attorno a letterature e drammaturgie scritte, ridiscutendo la figura dell'attore, la sua attualità. Costruire un luogo di ospitalità e confronto, sapere offrire agli spettatori (di tutte le provenienze e competenze) una “lente teatrale” per potere osservare il presente, ci pare proprio oggi una missione importante e necessaria.
Little Europa di Vico Quarto Mazzini, regia di Michele Altamura e Gabriele Paolocà
La diciassettesima edizione del festival ha ospitato anteprime e debutti, come sempre affiancando nomi affermati a percorsi emergenti. Qui ci soffermeremo su Little Europa di Vico Quarto Mazzini, per la regia di Michele Altamura e Gabriele Paolocà, con in scena gli stessi registi e con Gemma Carbone e Maria Teresa Tanzarella, spettacolo prodotto fra gli altri da Teatri di Bari, Gli Scarti con il sostegno di Straligut Teatro, Corte Ospitale, FuoriLuogo, Jobel Teatro. Scegliamo di raccontare brevemente questo lavoro per il tentativo oggi sempre più raro di fare i conti con le possibilità di apertura di una narrazione a tratti fiabesca, attestandosi in un registro spesso iperbolico e grottesco. Rifacendosi a un testo di Henrik Ibsen (Il piccolo Heyolf), di fronte a noi vediamo l'evolversi di una relazione amorosa in una casa scenografata Ikea. Lei è una madre donna in carriera alta, bionda, altolocata, chic, parla solo in inglese (Gemma Carbone); lui (Michele Altamura) torna a casa dopo un periodo di assenza, è bassetto, curvo, veste una tuta sportiva. Parlano ma non si comprendono, l'incomunicabilità è palese. Entra il loro figlio, Europa (Gabriele Paolocà). Vive recluso in una casa-torre alla maniera di un calderoniano Sigismondo; storpio, cammina storto, biascica qualche rumore, indossa un costume che lo rende mostruoso, incrocio fra Elephant Man e Calibano. Quando piange i genitori litigano e non lo ascoltano, lui sbatte i polsi, cade, si contorce, sbava, rantola. Una voce off conduce il racconto in perfetto codice cinematografico, gli strumenti della narrazione sono così spudoratamente declinati in stilemi che a conti fatti iniziamo a credere a tutto questo pathos. Europa grida, piange, viene abbandonato a terra, e a noi un po' ci si stringe il petto. La madre lo picchia, lo imbocca, lo storpio sputa. Ora il narratore, con la sua voce impostata, interrompe l'andamento live e introduce una nuova scena. Entra una tata che come Mary Poppins farà studiare, sognare, ridere il reietto, veniamo avvisati del fatto che si tratta solo di un un sogno di Europa, che non appena sveglio scaricherà la sua furia sulla scena, ribaltando tavoli e divani, sino a un finale post-apocalittico.
Il maggior pregio del lavoro è forse anche il suo limite, ma su tale “rischio” vale la pena interrogarsi. Quello di Vico Quarto è un teatro che maneggia l'emozione, la prende di petto, la manipola abilmente. Si fonda molto sulla caratterizzazione dei personagggi, sul rendersi credibili di attori che “calzano” i personaggi con una bella precisione. Di fronte a noi una scenografia realistica, con tanto di piantana curva in design, che ospita “davvero” una famigliola e il loro dibattere, e le loro grida, e i pianti di un figlio storpio. Così l'iperbole, a teatro, finisce inevitabilmente per smascherarsi da sé, fornendo a chi guarda gli anticorpi contro una fraudolenta manipolazione, permettendoci di stare al gioco. Si tratta di un confine molto esile, quello praticato da Vico Quarto, da rinnovare lavoro dopo lavoro, replica dopo replica, proprio per non “ricattare” chi sta seduto in platea.
Allora molto di più che attorno all'esile riflessione sul carattere posticcio del processo di integrazione Europea (riflessione invero non sviluppata), più che sull'intreccio drammaturgico/fiabesco, sovraccarico sino all'eccesso di “peripezie”, è sul carattere “patetico” della narrazione (di ogni narrazione?), e sul nostro bisogno di un certo calore emotivo che ci interroga Little Europa. Su tale direzione, che pare aperta a molteplici letture e stratificazioni, probabilmente varrà la pena dibattere anche in futuro.
Ci sembra questa una questione linguistica non di poco conto, che può forse soddisfare la richiesta di coinvolgimento e intrattenimento solitamente appannaggio di drammoni cinematografici o reality televisivi. Il teatro può dimostrare di sapere toccare corde quotidiane, può parlare a noi tutti, farsi riconoscere, ma al contempo sfuggire, mimetizzarsi per poi spaesarci? Forse è qualcosa di simile a quanto è accaduto, su un piano diverso, in questi ultimi anni ai cittadini di Castrovillari, camminando per le strade, osservando le locandine dei festival: un compleanno dove il festeggiato affonda il viso nella torta, un uomo di mezza età che prende il sole con la sua sdraio di fronte a un mare di fumi industriali, un babbo natale che pare incatenato dalle lucine delle feste, un uomo in giacca cravatta cappello che indossa una maschera antigas. Nel 2016, una donnona bionda seduta sola su un divano rosso, quasi un cartoon che si sbalza in un interno domestico con pareti verdi e pavimenti blu. Perché è sola? Cosa sta guardando? Possiamo fare qualcosa per non lasciarla così? Domande degli spettatori, domande di un teatro che abita una città.