Reduci dal successo di Made in Italy, vincitore del Premio Scenario 2007 e ospite di un gran numero di festival e rassegne, Babilonia Teatri è tornato nel bolognese, prima ai Teatri di Vita poi a Castelmaggiore. Siamo di nuovo di fronte a quel Nord Est volgare e padrone, materia da cui il duo veronese modella non tanto delle verità, quanto la realtà onesta ed autoironica con cui conviviamo tutti i giorni. Se Made in Italy è nato però nei bar, nelle pizzerie e per le strade del veronese, Underwork prende le mosse dalla condizione permanente del giovane in cerca di lavoro, che si riscontra sia al nord, sia al centro che nel profondo sud. La scena è semivuota con una consolle per la regolazione delle musiche (diretta da Simone Brussa), seggiole da sala d’attesa, una luce al neon, e tre attori: lui (Enrico Castellani), lei (Valeria Raimondi) e l’altra (Ilaria Dalle Donne) seduti e schiacciati sul fondo. Tre volatili da cortile vengono lasciati girovagare sul palco creando una perfetta associazione con i tre attori. È da questo piccolo crocchio pittoresco che si scatena il nuovo spettacolo, in cui giovani laureati starnazzano intontiti in un’Italia sorniona, alla disperata ricerca di un’attività remunerata come galline in cerca di un chicco di grano. La ricetta è la stessa di Made in Italy, che in questo spettacolo si autodefinisce e diviene nuova formula teatrale. Ad essere declinata in tutte le salse è la parola lavoro, sepolta dall’onda anomala di litanie che non creano trame ma una specie di modernissima orazione fatta di parole che suonano, mischiate a credenze popolari, tormentoni televisivi, jingle sanremesi e slogan pubblicitari. Si crea così un linguaggio-puzzle pungente, autolesionista e satirico, che riflette una decadenza ben più radicata e longeva rispetto all’attuale crisi economica. Le parole molleggiano in bocca agli attori e arrivano pacate, atone ma ritmate, neutralizzando ogni forma di conflitto senza affermare una verità, lasciando scorrere il senso tra musichette e giaculatorie di comprovata efficacia, ma, nella ripetitività, illustrando l’infinita frammentazione dei lavori in Italia e la crisi d’identità che ha generato. La scena si inonda di una sconcertante desolazione: quella dei giovani, vittime dell’obsoleta teoria secondo cui sono loro a dover cambiare il mondo, e quella della ricerca di un lavoro che resta la sola occupazione possibile del millennio. Così, sulle note di Cabaret, le nuove leve occupano il tempo a mollo in vasche da bagno, brucando foglie d’alloro e brindando al futuro, tra miscele per fare i cocktail e l’impotenza di una generazione “sotto” che si confronta con la selva dei master, con la minaccia cinese e con la terribile compilazione del curriculum in cui, se manca quel «cazzo di codice fiscale», manca tutto. E suona quasi come un presagio che siano proprio tre rappresentanti di quel “nord est che produce” a diventare metafora della disoccupazione giovanile. Strozzati da una matassa di tubi di gomma, i tre rampolli si riducono a sperare in un Babbo Natale che, sulle note dell’inno forza italiota delle scorse elezioni, regala loro un costume, una cuffia e degli occhialini da piscina da cui ancora si può guardare il mondo a colori. La realtà ci appare allora non come è ma come potrebbe essere se la si affresca di sogni di libertà, di insano ottimismo e futili speranze, come qualcuno vuole ancora farci credere.