L’Hedda Gabler di Henrik Ibsen è forse uno dei drammi più sibillini, più controversi e allo stesso tempo affascinanti del drammaturgo norvegese. Qui la protagonista, eroina diabolica e demistificante, diventa il centro intorno al quale si muovono meccanicamente le vite degli altri personaggi. Hedda Gabler è una donna-vittima del mondo borghese familiare a Ibsen, con anello al dito e salotto predisposto su misura ad accoglierla. Ma Hedda è anche, allo stesso tempo, martire delle sue stesse velleità improduttive, delle sue impertinenze accontentate alla lettera dal marito, donna perduta in un eden a cui non sente di appartenere. Ma chi è Hedda Gabler per noi? Ce ne dà una versione Elena Bucci delle Belle Bandiere che, con la collaborazione alla regia di Marco Sgrosso, intesse una messinscena in cui alle parole nette di Ibsen si sposano perfettamente i movimenti lenti dei personaggi, sempre tutti in scena, come alghe fluttuanti soggiogate dalle onde del mare. Sul fondo sette sedie e sette attori: oltre c’è l’invisibile, ciò che viene descritto dalla didascalia iniziale del testo, detta alternativamente da tutti i personaggi in scena. A seguire una sfilata fatta di duetti danzanti, lenti e posati, stanchi. Sembra di vedere un quadro di Münch, uno degli ultimi anni: uomini e donne perduti, svuotati, anime ipnotizzate dalla vita, che camminano a rilento, seguendo traiettorie che portano altrove, mai qui, mai ora, stagliati nel luccicare della scena, disadorni, come usciti da un balletto espressionista. Si fa portatrice di una dannazione misteriosa questa Hedda del nostro secolo, afflitta da una dolorosa esclusione dall’amore e dalla felicità; dentro di lei un groviglio di vipere che si attorcigliano intorno alla sua repressione. Elena Bucci, in abito sensuale color prugna, langue e ferisce sulle note di un tango lontano, attraendo tutti i protagonisti in una danza di morte.
La risposta scenica delle Belle Bandiere si gioca tutta sul contrasto tra Hedda e il micromondo in cui si ostina a vivere, non cercando alternative ma destabilizzando le vite degli altri. È evidente quindi che la messinscena non simboleggia l’eterno conflitto tra la donna vittima e l’uomo padrone, che tanto è stato cercato e a volte trovato nel teatro ibseniano, ma è forse la degenerazione del capriccio femminile, un’eterna competizione senza tempo né luogo con se stessa in quanto donna, in cerca di una stabilità individuale, personale, intima, prima che sociale.
Alla luce di queste considerazioni, l’Hedda Gabler della Bucci è una donna annoiata, tanto cinica quanto infame, oppure un’atipica ribelle, unica consapevole dell’ipocrisia in cui vive, in lotta col finto benessere che la circonda?
Dopo aver realizzato il desiderio di manovrare la vita di Lovborg, Hedda si uccide. Trattasi di un gesto che sancisce la sconfitta dell’antagonista o invece dichiara l’estraneità di un personaggio a quel mondo insano in cui si continua tristemente a danzare? Le risposte restano nell’aria, tra il tragico balletto giocato intorno alle sedie, bicchieri di vino scolati e due pistole lucide che riflettono la luce.