Frazione di Pienza, Monticchiello è un tipico borgo medievale toscano immerso nella Val d’Orcia e conta 202 abitanti. Da oltre cinquant’anni, ogni estate, il paese si mette letteralmente in scena, rappresentando un dramma, o per meglio dire un “autodramma”, come lo definì Giorgio Strehler negli anni Settanta. Durante l’inverno i paesani si riuniscono in vere e proprie assemblee per individuare e discutere i problemi che reputano più urgenti e più adatti ad essere recitati. Un’assemblea ristretta, guidata da Andrea Cresti, ha il compito di trasformare tutte le riflessioni in un copione, che viene provato con il gruppo di attori non professionisti. Da cinquantuno anni, senza interruzioni, si rinnova questo rito popolare, che va sotto il nome di Teatro Povero di Monticchiello e rappresenta, per continuità, un caso a suo modo unico in Italia.
L’esperienza di Monticchiello, come un tempo era il teatro filodrammatico, ha una natura di diletto e di ricreazione; con gli anni si affinano però i talenti e le inclinazioni dei paesani, anche se resta per tutti, al centro dell’iniziativa, il desiderio di condividere assieme un processo di creazione teatrale che affronti una tematica sentita con particolare intensità. E così, in effetti, a scorrere gli argomenti e i timori messi in scena ogni anno dal Teatro Povero di Montichiello viene fuori uno spaccato significativo del nostro paese. Quasi fossero cronache medievali si raccontano fatti minuti che, sotto la lente della piccola comunità, assumono contorni più ampi, rimandando alle trasformazioni della grande Storia. All’inizio, negli anni Sessanta, ci sono state le rievocazioni storiche e i grandi episodi della resistenza, poi l’autoritratto del mondo contadino, dopo la fine della mezzadria e il crescente spopolamento di tutta la valle; negli anni Settanta si cerca di tenere vive le tradizioni contadine, anche guardando alla storia orale. Nel decennio successivo la costruzione teatrale si allontana leggermente dal realismo per introdurre elementi grotteschi e di teatro dell’assurdo: si cerca di rappresentare lo spaesamento di un mondo ormai concluso. In anni più recenti il Teatro Povero di Monticchiello ha raccontato la seconda grande trasformazione che ha investito il territorio: la rivalutazione culturale, economica e sociale. La Val d’Orcia dal 2004 è diventata patrimonio dell’Umanità Unesco, attira moltissimi turisti, è considerata uno dei paradisi della Toscana e non di rado viene scelta come paesaggio privilegiato in tantissime pubblicità di automobili. A fianco di questo nuovo cambiamento i paesi subiscono uno spopolamento sempre maggiore e si fanno più vulnerabili di fronte alle crisi dei nostri giorni.
Lo spettacolo di questa cinquantunesima edizione si intitola MalComune ed è suddiviso in tre parti. L’ultima rappresenta una sorta di inno alla fraternità, e un invito a riflettere sulle origini nobili di una terra antica che è fiorita nel Medioevo e nel Rinascimento. Si guarda indietro per cercare qualche frammento di passato utile a capire la strada da percorre in futuro, ma lo si fa con timore e incertezza, e la speranza è incrinata dalla paura. Nella seconda parte si rappresenta in modo molto realistico e divertente la riunione di un gruppo di contadini che vogliono unirsi per fondare una cooperativa, che potrebbe di molto migliorare le loro condizioni. Sembra di respirare l’aria arcaica delle aie e delle fattorie, di ascoltare i rumori dei trattori, il chiocciare delle galline e la lingua toscana popolare e viva nei sui modi rudi e coloriti. Per motivi più o meno futili l’accordo non viene trovato e si rinnova così quello scontro fratricida che sa tanto di guelfi e ghibellini, e che lascia l’amaro in bocca, come se fosse, a priori, impossibile arrivare a una convergenza. Ma è senz’altro la prima parte la più forte e spiazzante, e che dà anche ragione del titolo. Si parla infatti della recente legge che favorisce (e obbliga) i Comuni, al di sotto di un certo numero di abitanti, a fondersi tra loro per razionalizzare le spese e migliorare i servizi. Molti sono stati i casi in Italia in quest’ultimo anno. A volte la fusione è stata volontaria, altre volte obbligata. Le volontà degli amministratori di rado hanno coinciso con i desideri degli abitanti. Forzando, ma nemmeno troppo, la realtà dei fatti, si rappresentano le comunità di tre piccoli Comuni alle prese con complicati algoritmi che stabiliscono il numero di abitanti sotto il quale i Comuni verranno tra loro fusi. Così comincia la conta, che suona sinistra, visto il profondo fenomeno di spopolamento in atto da decenni: «Bettino Rosati, lo conoscete tutti, sta vicino a casa mia 89 anni… demenza senile. Giangiacomo Grappi 92… Affetto da artrite reumatoide all’ultimo stadio. Annnatonia Gui 96… Cardiopatica da anni. Piero Mariotti 89… Grosse difficoltà di deambulazione. Gina Torriti 91… Affetta da polmonite, che ne dite?». Lo spopolamento delle campagne assume i contorni più simili all’estinzione della specie umana. E le prospettive si fanno particolarmente cupe: l’intero paese potrebbe essere comprato da un pool di banche per destinare le case ad alberghi di lusso, facendo traslocare i cittadini nella piana, nei grandi capannoni industriali dismessi (tra l’altro Monticchiello fu al centro anche di un tentativo di grossa speculazione edilizia non molti anni fa). Mancherebbero solo tre persone per raggiungere la soglia minima. Come fosse un miracolo, si scopre che una ragazza del paese è in effetti incita e aspetta tre gemelli. La situazione potrebbe sembrare risolta, ma non è così, perché non si riesce a trovare neanche in questo caso il punto di equilibro: come dividere la famiglia per farla risiedere in Comuni diversi? E come accade nei racconti di Kafka, quando un paesano domanda, ma perché siamo tutti contro la fusione dei Comuni? Qual è il motivo? Nessuno di fatto sa rispondere. La divisione a tutti i costi è data per scontata, a favore delle micro identità. Ma potrebbe avere dei lati positivi? Un senso atavico di appartenenza alla propria terra lascia irrisolto il mistero.
Costruendo uno specchio della comunità, giocando con piccoli elementi fantascientifici che permettono di distorcere la realtà e di svelarne alcuni lati più insidiosi, il Teatro Povero di Monticchiello riesce in questa cinquantunesima edizione a divertire e “a far pensare”, come si sarebbe detto un tempo. I non professionisti – anziani, bambini e giovani – con grande impegno riescono a portare avanti la storia e a instaurare un rapporto di prossimità con gli spettatori, per nulla scontato, e a evocare a tratti quella funzione incredibile del teatro, troppo spesso dimenticata, di poter essere anche specchio deformante della nostra realtà.
Qui di seguito, l'intervista audio di Rodolfo Sacchettini ad Andrea Cresti, regista del Teatro Povero di Monticchiello.