Al festival di Santarcangelo siamo profondamente affezionati. Molti di noi ci sono letteralmente cresciuti. E ogni anno è interessante osservarne le evoluzioni e la metamorfosi in relazione anche al nostro senso di prossimità. D’altronde non c’è festival in Italia, più di Santarcangelo, che ha saputo legarsi alla storia della sua comunità (teatranti, intellettuali, appassionati, attivisti, curiosi, cittadini…). Però quest’ultima edizione andrebbe osservata in termini più sociologici che culturali, o per meglio dire più etologici che teatrali. Se si dovesse guardare il festival puramente con gli strumenti della critica teatrale, l’analisi sarebbe penalizzante. Quest’anno il teatro (e qualunque forma di rappresentazione/spettacolo) è stato programmaticamente messo ai margini, estremizzando una scelta già compiuta nelle ultime edizioni. Quando si dice “teatro” non si intende solo la “prosa”, ma anche le forme di scrittura scenica, cioè la cosiddetta scena contemporanea. Si è tenuto fuori quasi del tutto il teatro per favorire progetti più legati a danza, performance e ambienti (“habitat”) da esperire e attraversare. Giusto che Santarcangelo abbia cambiamenti radicali, ma siamo proprio sicuri che la vitalità della scena internazionale oggi si trovi in queste forme e che queste debbano occupare praticamente tutta la programmazione? Sono realmente in grado di sostenere da sole il senso di cambiamento? Intanto prendiamo atto che si è deciso di restringere il campo, con alcune macroscopiche eccezioni, a dire il vero, come l’assai teatrale Uber-raffiche di Motus che, nonostante la dichiarata dimensione fluxus, era ingessata in una sala con una bloccante gradinata.
Comunque, tagliati i ponti con buona parte del sistema teatrale, il festival naviga verso altri lidi, si traveste da animale esotico, sottolinea la sua natura controcorrente. Si scelgono gruppi legati all’attivismo politico-artistico, si guarda soprattutto a un orizzonte nordeuropeo e urbano, non si rinuncia a qualche affermazione identitaria, marcando una differenza netta tra ciò che si reputa necessario e politicamente urgente, e ciò che non lo è. Allontanarsi dal teatro per Santarcangelo non ha significato trasformarsi in un festival “delle arti” (accogliendo cinema, letteratura, arte visiva…), piuttosto vuol dire puntare a una creatività diffusa, morbida, dialogica. Non si tratta più nemmeno di accogliere lo “spettatore” dentro processi artistici aperti a non professionisti o cittadini o “esperti di vita”. L’autorialità artistica scompare e si preferisce lasciar spazio ai tanti “io-spettatori”, che diventano “autori” non di un’opera, ma di un’esperienza, reagendo agli stimoli che vengono loro proposti: emozione ed energia sono le parole d’ordine. E da qui in poi il discorso potrebbe farsi molto lungo, tra manipolazione ed emancipazione.
Comunque adottando uno stile anglosassone, il festival annuncia le sue promesse che sono quelle di essere: party, evento exciting, piccolo paradiso (un po’ comune, un po’ resort, un po’ centro occupato…). Al contrario il tema del festival si fa denso e con cento implicazioni filosofiche: il “corpo” come soggetto politico, campo delle diversità, vortice di esplorazione erotica. L’idea ci è parsa ottima: forse lievemente ridondante e auto-riflettente negli aspetti cosiddetti gender, più originale per la parte erotico-pornografica. Pensando alle tante contraddizioni di oggi, mettere al centro il corpo è una strada molto appropriata, potenzialmente ricca di tante suggestioni.
Nel frequentare le serate del festival, cercando di osservarne la declinazione pratica, il discorso emergeva non tramite spettacoli (pochissimi), ma attraverso situazioni da vivere: dunque perseguendo un’idea immersiva della scena. La questione “dell’immersività” a teatro è uno dei nodi cruciali dei nostri anni. Alcuni dicono sia la strada del futuro, perché favorisce un’esperienza intima e totalizzante, e in parte potrebbe anche essere vero. In realtà l’immersione, declinata in tante forme differenti, è una sfida che parte da lontano, almeno dal Nuovo Teatro. Però, a guardar bene, la sensazione ricercata da questa edizione di festival, in molti suoi progetti, è stata più simile a un processo di vaporizzazione. Come i nebulizzatori in uso nei tavolini all’aperto, il festival cerca di refrigerare, dare piacevolezza, suggerendo più spensieratezza che attenzione. Il corpo si rilassa, si esibisce, si mostra come un’immagine, si muove con dolcezza.
Qualche “segno” più incisivo si avverte (per esempio lo spettacolo di cui parla Lucia Oliva qui di seguito). Ma al Museum of Nonhumanity, al Club Ecosex, dal Sirenetto… progetti che hanno spopolato nel mondo virtuale, l’esperienza in sé si esauriva con poco (una carezza, scritte proiettate, qualche selfie…). Un successo soprattutto della comunicazione. E allora delusione? Solo parzialmente, perché a Santarcangelo l’aria si è fatta davvero più leggera. Però la sensazione prevalente era più il desiderio di rivedersi, di stare assieme, come a una festa, o a un dopo festival. Hanno ragione ad aver inserito “party” nel sottotitolo, perché l’impressione era davvero un po’ quella: una festa di “vecchi” e “nuovi” amici, la teatralità delle relazioni al posto della scena. Santarcangelo è sempre stato un raduno (anche conflittuale) di teatranti, adesso è sembrato il ritrovo di una comunità selezionata desiderosa di condividere momenti non per forza teatrali, di quotidiana, meno impegnativa e dispendiosa convivialità, con un tocco di malinconia social. Che conseguenze avrà tutto questo?
Redazione Altre Velocità
Recensione di Cock, cock.. who's there? di Samira Elagoz (Festival di Santarcangelo 2017)
Una vulva psichedelica pulsa nella proiezione sullo schermo. Si tratta di un corpo di una ragazza che danza ma nell'effetto video si trasforma nella più invocata delle metonimie, labbra che si aprono e si dischiudono, orifizi che si espandono e contraggono, capelli che diventano peli pubici e ondeggiamenti del corpo che mimano altre sinusoidi. È l'inicipit di Cock, cock.. who is there?, lavoro presentato al Festival di Santarcangelo da Samira Elagoz, artista di origini finno-egiziane che ha saputo condensare gran parte delle questioni più scottanti del vivere contemporaneo (ma forse di tutta l'esperienza umana) e farle reagire insieme in una miscela dall'alto potenziale: dalla questione del potere, quello subìto e quello esercitato, alla costruzione dell'immagine di sé, dalla questione del consenso a quella dei confini, dalle declinazioni del desiderio agli schemi normativi profondi, inconsci, subdoli, che la cultura ha impresso a fuoco nella nostra mente.
La giovane regista racconta la storia delle conseguenze di uno stupro, del suo stupro, subito dal fidanzato dell'epoca, ovvero di come sopravvivere a una violazione dell'intimità così crudele e ricostruire, pezzo dopo pezzo, l'idea di sé che si porta nel mondo. Il racconto procede con la dinamica della performance-lecture: l'artista, luminosa e purissima, quasi dimessa nel suo abbigliamento quotidiano, nella treccia bionda, la faccia pulita, introduce e cuce insieme i diversi brani video attraverso cui si dispiega lo storytelling. In prima istanza intervengono gli amici e i familiari della ragazza, con quell'ambiguità di dolore e distacco di chi fa fatica a assimilare il trauma subito da una persona amata, ma immediatamente serpeggia il dubbio: te la sei cercata, Samira, chiunque può fare quello che vuole con te.
Ed è proprio questo, il più odioso e diffuso dei pregiudizi, un ospite inatteso e non desiderato che si presenta anche nelle menti più illuminate e progressiste quando la ragazza ci presenta l'immagine che lei stessa, dalla pubertà in avanti, ha scoperto funzionare con gli uomini: parte una galleria di selfie dove la regista pesantemente truccata mette in scena una se stessa altamente erotizzata e provocante, a metà tra la femme fatale e la giovane ninfa che ripercorre tutte le “stazioni” del soft porno, indossando quasi solo un'espressione audace e invitante, una mimesi di desiderio ed erotismo, in uno stridente contrasto con l'icona quasi infantile di luce e candore che è sul palco.
E qui si infrange, sugli scogli del nostri giudizi, la prima dicotomia, quella tra madonna e puttana con cui da sempre in Occidente si dipingono le donne. L'artista centra in pieno la dimensione ambigua, e incandescente della costruzione dell'immagine di sé sia online che nella vita di carne, e soprattutto del potere e delle conseguenze di un tale processo in un'epoca in cui mai come prima è diventato facile immortalare ciò a cui abbiamo scelto di assomigliare, anche se solo per un attimo. Non sono due Samira diverse quella sul palco e la ninfetta in foto, sono la stessa donna che esplora, legittimamente, tutta la gamma del desiderio e dell'erotizzazione, cercando di tenere ben salde in mano le redini del controllo sulle reazioni altrui.
Dopo lo stupro subito, come fin troppo spesso accade, da parte di chi rientra nella sfera degli affetti più intimi, la ragazza cerca un modo di ritrovare fiducia, e poi intimità, attraverso un processo di dating online che dall'immediatezza di Chatroulette alle richieste esplicitamente articolate in annunci online, accompagna la protagonista nella riscoperta, e nella ricostruzione, della sua forza e del suo senso del potere. Tutto viene documentato dall'onnipresente camera del telefonino o di altri dispositivi: la preparazione, l'incontro con uomini avvisati di essere parte di un progetto di documentazione, i giochi con quello che diventa poi un fidanzato e i baci romantici con i ragazzi trovati su Tinder. In questa esplorazione Samira, articolando un processo graduale di vicinanza e intimità, e a volte esplicitamente anche di pericolo, incontra di tutto: vicinanze orrorifiche o disarmanti, uomini viscidi o a loro modo saldi nel conoscersi e nel sapere fino a che punto può spingersi il gioco delle parti e del desiderio, ragazzi lusingati dall'idea di performance (sessuale, emozionale, in un certo senso attoriale) che sono invitati a compiere.
In questo lavoro conflagra, in maniera potente, ironica, straziata, dolcissima e feroce, la scoperta e l'espressione di sé con la reazione dell'altro, l'esplorazione del proprio potere e di quello altrui, la difficoltà di non annichilirsi in un desiderio subito o suscitato. Su tutto, l'occhio della telecamera, appendice che portiamo in tasca, lente riflessiva e specchio accogliente e confortante nei dolori e nelle bellezze, surrogato dell'incontro con l'altro e con Sé, epurato sia dalla potenza che dal pericolo. Eppure il pericolo c'è se, come dice Samira, la prima fonte di pericolo per le donne sono gli uomini, il pericolo c'è se una fotografia trasforma una vittima in complice, un abbigliamento in un invito. Avviene il secondo stupro, ancora una volta a opera di un amico, quando le cautele e le difese dell'incontro con un estraneo non sono più all'opera, ma non si ferma il viaggio di Samira nella riscoperta della sua forza, nella riaffermazione della sua modalità espressiva ed erotica, fino al finale a suo modo divertito e crudele, in cui la ragazza ci avvisa di aver finalmente buttato tutto fuori, ah no, non proprio tutto, e parte un'altra galleria di video in cui l'artista sputa lentamente sperma dalla bocca, lasciandolo colare sulle labbra in un gesto insieme voluttuoso e sprezzante, in faccia al pubblico, ai pregiudizi che non sapevamo di avere, alla velocità con cui si applica un'etichetta semplicistica e limitata, a tutti i confini che pensiamo poter mettere al desiderio, solo perché non assomiglia la nostro.
Così Cock, cock.. who's there?, grazie alla capacità alchemica della narrazione, trasforma il racconto autobiografico di un dolore in una riflessione potente e composita sulla libertà e sul consenso, sul potere e sul desiderio, sull'immagine e sull'intimità nell'epoca della riproducibilità elettronica e, soprattutto, su quell'ambiguo, complesso, tremendo e vulnerabile animale di carne che ancora siamo.
Lucia Oliva