Bendati, avanzano a tentoni sul palco sbucando da una porta stretta: si apre così quest’anno il Festival 20 30, con i giovani del laboratorio Alive curato da Sotterraneo. In scena l’Apocalisse imminente – d’altronde alla Catastrofe è intitolata questa quarta edizione – eppure il giudizio universale ha un po’ i tratti del casting, un po’ dell’esperimento sociale, ultimo divertissement prima della fine. Il campionario casuale dell’umanità ne rivela con ironia sfaccettature personalissime e universali assieme: l’amore è un origami nelle mani di un cieco; la società una pistola carica, pronta a sparare al primo passo falso. C’è chi si candida alla salvazione perché è «very creative», chi «è il mio compleanno», chi punta alla gola offrendo pizzette o portando la nonna padrona dei fornelli, chi fa l’attore… e che vergogna. Nessuno si salva – solo gli spettatori, che si scoprono passeggeri già imbarcati sull’astronave pronta al decollo – e ai candidati non resta che godersi la fine del mondo. Il tempo si condensa, scandito gravemente dal Requiem di Mozart, ogni movimento si fa lento ma inesorabile mentre tutto crolla, ogni simbolo è sradicato – sia esso il Dalai Lama o Brad Pitt – fino al candore assoluto dell’estasi ultima... giusto il tempo di indossare un paio di Ray-Ban.
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Segue breve intervallo, un momento per sgranchirsi, salutare qualche viso familiare – visi giovani, avvistamenti rari tra le ellissi dei teatri all’italiana – poi si abbassano nuovamente le luci e cala il silenzio.
Un peto. Un altro peto. Una sequenza, intervallata da risate a macchia di leopardo in sala. «Benvenuti a Homo Ridens». L’espediente inizialmente avvertito come provocatorio viene ora svelato: trattasi del test del peto per la misurazione dello stimolo risorio; gli attori di Sotterraneo sono già in scena allora… e il pubblico con loro. La performance è studiata per calzare ogni volta sulla platea, che ne scandisce tempi e svolte attraverso il mezzo tutto umano del riso. Quanto fa ridere la foto di migliaia di cadaveri essiccati al sole pallido di Bergen-Belsen? Una mano sbranata tra le macerie dell’11 settembre? Un bambino africano malnutrito e sullo sfondo un avvoltoio incombente? Dipende. Con la giusta didascalia… Risultati preliminari suggeriscono che il pubblico del 20 30 è «obiettore riflessivo». Si può ridere della morte? Basta un attimo e un suicidio si trasforma nella caricatura di se stesso, vittima di insuccessi in sequenza. Inceppandosi, tradisce gli intenti, li sdegna e li espone all’inatteso, innescando la risata e accrescendola nel parossismo di tentativi a ripetizione. Lo stesso col teatro: in scena si susseguono sconfinamenti ed equilibrismi tra finzione e realtà, si ride perché «in fondo è solo un gioco, non è reale»; ma si ride anche per l’esatto opposto.
Che c’è da ridere? La tradizione cristiana altomedievale denigra il riso: è bestiale, demoniaco. Gesù non ride mai! Allora proviamo col gas esilarante! Il riso è dissacrante. Il riso è anche – solo? – chimica. Si ride di fronte all’assurdo; ma quando la storia assurda di un amico serial killer ricalca terribilmente la cronaca dei nostri tempi la bocca si allenta nello sgomento. «Decine di morti… e 14 papere!» Si ride di nuovo, per le papere certo, ma in fondo per esorcizzare tutto il resto, che ci tocca così da vicino. Si può ridere della malattia, altrui per giunta? Ancora un amico, malato terminale stavolta. Non c’è niente da ridere di fronte alla sofferenza… eppure il pathos delle sue ultime parole naufraga in un farfugliare lagnoso e incomprensibile: diventa comico. Quale nesso tra riso e violenza? Molti i fattori su cui giocare: di nuovo la finzione, i ruoli, la scelta della vittima (tra gli attori, tra gli spettatori), la durata, l’iterazione. Dopo Nietzsche e la patristica è il momento di Bergson: il riso è un meccanismo di simpatia tra i ridentes, sotto forma di apnea emozionale, uno schermo per tutto ciò che spiazza, che dirotta, che spaventa e turba l’equilibrio della norma. Teatro Sotterraneo raccoglie i dati, meticolosamente, mentre il pubblico sorvola sulla cornice “scientifica” e a sua volta diviene performer, abboccando compiacente a tutte le esche risorie.
È l’ora del referto: a parità di trattamento, Bologna reagisce con maggiori stimoli risori rispetto a Santarcangelo di Romagna. Applausi. Si insinua un adagio, in forma di dubbio: risus abundat…
Gianluca Poggi