Entrando al DOM la sera di sabato 17 marzo si poteva assistere a una scena inusuale: nel foyer del teatro – la “cupola del Pilastro” - stava in attesa dell’incontro un nutrito gruppetto di operatori sociali, insegnanti, famiglie (adulti, bambini e ragazzini) del quartiere. Tutti lì attesa dell’incontro “Scuole differenti” in cui insegnati, educatori e volontari del Pilastro erano chiamati a ragionare dei luoghi di educazione e formazione (istituzionali e non) presenti nel quartiere. Fin da subito è apparso chiaro che si trattava di un appuntamento insolito, inusuale, una eccezione nella nostra città in cui gli spazi culturali (ma lo stesso si potrebbe dire per il sociale o per la politica) sono sempre frequentati da un pubblico ben definito (giovani, studenti, addetti ai lavori, bolognesi di estrazione sociale e culturale medio alta) e molto raramente si aprono e sono permeabili ai territori (le periferie) e a popolazioni che solitamente ne sono lontani. Operatrici della scuola di italiano per donne CESD, gli educatori dei servizi educativi territoriali e dei centri giovanili, gli operatori del Centro Documentazione Handicap che lavorano in quartiere sui temi della disabilità e la dirigente dell’Istituto Comprensivo 11 hanno raccontato le loro pratiche, le fatiche e le soddisfazioni, le motivazioni del loro agire e il contesto in cui si trovano a portare avanti le loro pratiche. Il tutto partendo dalla domanda sulle “scuole differenti”, sugli spazi di educazione e formazione del Pilastro. In parte racconto e in parte dialogo e confronto tre realtà molto diverse e di solito distanti, è stata una discussione critica, ricca di spunti, mai banale né autocelebrativa.
Cosa porta una cinquantina di persone nella estrema periferia cittadina a partecipare a un incontro del genere alle 19:00 di sabato sera in uno spazio culturale che si occupa di teatro contemporaneo? Quanto spesso capita di vedere attivisti e lavoratori del sociale ragionare del loro lavoro e del senso di quello che fanno in un teatro di periferia? Nella Bologna che non fa che parlare (non sempre a proposito) di lavoro di comunità trovare una risposta sensata può essere un esercizio utile.
Come ogni serata della rassegna all’incontro è seguito uno spettacolo: Vivo a Bologna ma abito qui. Un reading collettivo durante il quale cittadini o frequentatori storici del Pilastro hanno letto i bellissimi racconti che bambini e ragazzi delle scuole del quartiere hanno prodotto nelle settimane precedenti. Anche questa seconda parte della serata è stata molto partecipata, con numeroso e vario pubblico che ha ascoltato con attenzione i semplici ma potenti e lucidi racconti sul quartiere in un crescendo via via sempre più coinvolgente e appassionante.
In questo semplice ma riuscito esperimento della compagnia Laminarie, l’aspetto che più ha colpito era la genuinità dell’ambiente: sia gli organizzatori della serata sia chi, a vario titolo, ha partecipato ha a cuore uno dei quartieri più famosi e difficili della città e ha approfittato di questa occasione per ritrovarsi e ragionare sulle pratiche e sui pensieri che le animano. I racconti dei ragazzi e dei bambini hanno poi dato una immagine del Pilastro ricca, colorata, complessa e articolata, molto lontana dai racconti che di solito si fanno di questo quartiere, lontana dalla spettacolarizzazione della marginalità delle periferie, lontana di safari alla ricerca di disagio e sventura (dopo il boom della serie tv le vele di Scampia sono ormai inserite nei tour turistici di Napoli). Un racconto in grado di incuriosire e spiazzare chi conosce il quartiere solo di fama.
Quello che si percepiva era una tensione e un lavoro comune, un processo del quale chi era lì è parte. Questi percorsi di quartiere, questo territorio si sono raccontati tra loro e agli spettatori (chi, come me, non vive e non lavora al Pilastro) con grande forza e lucidità, senza narcisismi o pietismi, cercando di aprire orizzonti o, almeno, di insinuare dubbi.
Era percepibile un altro grado di partecipazione civica di tutti (anche dei bambini e ragazzi che hanno partecipato attivamente a tutta la serata), una condivisione delle fatiche e delle potenzialità del proprio territorio. Una dimostrazione che agire in ottica territoriale (comunitaria come si dice oggi, ignorando spesso le enormi implicazioni che questo termine porta con sè) non è qualcosa che si possa attuare dall’alto per decreto, ma è fondamentale stare nei contesti, costruire relazioni, darsi momenti di riflessione e confronto su pratiche e contesti comuni.
Era inoltre plasticamente rappresentato come una istituzione culturale possa (debba?) dialogare e aprirsi ai luoghi che gli sono prossimi, che lo riguardano, per poter dare vita a eventi e processi culturali che siano realmente pubblici e sociali, per trovare chiavi di lettura dei luoghi della nostra città, per mettere in discussione cronache e narrazioni dominanti sempre parziali e a senso unico.
Luca Lambertini