Un attore mette le dita a forbice, l’altro dietro di lui mima una chiave che gira nella toppa. Massimiliano Civica inventa un incipit che è un lazzo registico per dichiarare la necessità di sospendere l’incredulità. Come quando si apre un libro di poesia, lì dentro ci si può anche trovare la vita, si può piangere ridere e capire (oppure no), solo a patto che la vita la si voglia cercare in delle file ordinate di caratteri, in rime, assonanze e ritmi che si fanno significato.
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Un quaderno per l'inverno un ladro entra in casa di un professore, una settimana prima gli aveva rubato il personal computer, ora lo cerca perché si è convinto che il letterato possa salvare la sua moglie in coma; ascoltando alcune poesie trovate nel suo quadernetto, infatti, la coniuge in fin di vita aveva dato segni di risveglio. Questo e poco altro sappiamo, di fronte a uno spazio rigorosamente vuoto, un palco che al debutto al Fabbricone di Prato si presentava spoglio e immenso, occupato solo da un tavolo e due sedie, un palco che in occasione della replica del febbraio 2017 a Castelmaggiore, nella bella stagione Agorà diretta da Elena Di Gioia, è vicinissimo e piccolo, eppure i due personaggi mantengono anche qui una distanza di sicurezza da un realismo immediato. Il ladro vorrebbe altre poesie ma il professore confessa di non essere che un dilettante, certamente non un poeta.
Siamo di fronte a due attori. Luca Zacchini, il ladro, ride sornione e allunga le frasi quasi cantilenando, al confine col biascichìo; indossa un giubbotto sintetico e una berretta invernale. Alberto Astorri siede composto, indossa giacca e pantalone marron-intellettuale, guarda spesso di fronte a sé, osserva il vuoto, sembra che lo attraversino pensieri gravi. Stava portando in casa una sportina di arance che gli resta in mano e appoggia sul tavolo. «Taglio un paio d’arance e me ne vado», dice il ladro sedendosi, discorrendo amabilmente, dopo avere atteso le nuove poesie dal professore. Taglia le arance per davvero, ne esce una spremuta divisa in due bicchieri. La bevono.
Un quaderno per l’inverno è uno spettacolo icastico: quel che si dice vien fatto, le battute paiono descrizioni da compiere letteralmente. Eppure il suo valore sta esattamente in ciò che sta attorno alle parole, in quel senso di “perdita” che i due attori trasmettono inseguendo i personaggi. Si produce una specie di ineffabile malinconia: a un certo punto uno parla della giornata di «domani», una giornata «terribile» che noi non vedremo mai, la possiamo solo immaginare, prevedere, fantasticare. Perché sarà terribile? Non lo sapremo.
Il tempo che vorremmo avere per conoscerli è il tempo che non ci sarà dato, e qui la perdita diventa tutta nostra, spettatori con in mente qualcosa che non potremo vivere. Giunti a questo punto è Armando Pirozzi, l’autore del testo, a fabbricare un artificio letterario e scenico, in una parola drammaturgico. Ci trasporta insieme ai personaggi a «otto anni dopo», mentre in scena passano 30 secondi e la tavola viene pulita dai resti della spremuta.
Otto anni e trenta secondi dopo il ladro torna a fare visita al “suo” professore. Si è risposato e ha avuto un figlio. Entrambi hanno pensato spesso a quella notte, a quel frammento che se fossimo in Ibsen o Cechov avrebbe cambiato il corso delle loro vite, se fossimo in Pinter sarebbe stato presagio di accadimenti nefasti, se in Ionesco avrebbe invitato a farci beffe di un reale imperscrutabile. Qui però «
scrivere non serve a niente» e l’arte non cambia il corso del tempo, se lo erano detti anche prima, anche otto anni prima. Sorge allora un sospetto. Se l’arte non serve a niente, cosa ci facciamo lì seduti in platea? Forse questi personaggi trasparenti ma anche opachi non stanno davvero dialogando fra loro, ma è alle nostre vite di spettatori che si rivolgono?
Un quaderno per l’inverno è uno spettacolo che assomiglia a una dichiarazione di poetica. Reticente, forse, sottile come un preziosismo, ma quale asserzione che punta al fondo delle cose può essere formulata altrimenti? Nasconde fra le righe la ricerca di un senso, la stessa che ci spinge ad aprire un libro di poesie, qualcosa che sembra chiamare in causa proprio il teatro, la sua necessità in un mare di finzioni: possiamo, e come, essere “davvero presenti”?