Teatri delle Mura, Il silenzio di Dio hello
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Si è conclusa il 24 giugno la terza edizione del festival Teatri delle Mura, che ha ritrovato nel Comune di Padova e nel circuito regionale Arteven i supporti fondamentali per un'occasione che vuole diventare di ampio respiro, sotto la direzione artistica di Andrea Porcheddu. Una programmazione ibrida, che cerca di andare oltre i recinti di genere per offrire al pubblico alcune tra le realtà più interessanti nel panorama italiano e internazionale, guardando al valore del progetto e non all’appartenenza a questa o quella corrente artistica. Scelta lungimirante e meritevole che è stata già premiata dal pubblico, numeroso, curioso ma soprattutto, onore al merito anche di chi il festival l’ha organizzato e comunicato, diverso. Lo sviluppo di un percorso tematico tra i lavori presentati evita il rischio latente di proporre un calderone disomogeneo: “Cosmologie teatrali” infatti è il tema di quest’anno, identità coerente con la scelta di aprirsi ai mondi teatrali possibili, riconfermando l’idea di ricerca come tensione aperta, e non come linguaggio chiuso su se stesso. Ma sono cosmologie anche perché gli spettacoli lasciano spazio all’interrogarsi sulle cose ultime, come nella serata di martedì 17, in cui si sono alternati nei suggestivi sotterranei dei bastioni cinquecenteschi tre spettacoli uniti dal filo rosso dell’incontro-scontro col divino. E’ lo spazio del sacro come irruzione nel quotidiano dell’Eccesso: eccesso di vita che lacera la propria storia nella domanda aperta sull’Altro, eccesso di gioia o eccesso di dolore, trauma. E sono spettacoli fatti di parole, perchè è nello spazio del dialogo che si apre lo squarcio su ciò che non può essere detto.
Nel primo spettacolo, Una vita importante di Paolo Civati, la protagonista, interpretata da una gioiosa e vivace Maria Sole Mansutti, è la vergine Maria: scesa dal piedistallo di gesso, viene rivelata nel suo essere bambina ingenua, teenager appassionata. Alla fine, spogliata di ogni deità, rimane lo sconcerto di una ragazza incinta che si trova a fare i conti con la paura e il mistero di diventare madre.
Col secondo appuntamento va in scena la Tragedia tutta esteriore dei Quotidiana.com, compagnia riminese che tritura nell’atmosfera al neon dello spettacolo dubbi esistenziali e chiacchiera. L’empasse della vita risucchia nel vortice della noia le domande fondamentali, come se solo attraverso la feroce ironia del banale potesse ancora esistere la domanda di senso, ibrido mostruoso tra citazioni dantesche e cultura pop. L’impossibilità del tragico si trasforma in farsa, e non resta che ridere.
Infine la compagnia Celesterosa, in coproduzione con i Sacchi di Sabbia, ha presentato un dittico, intitolato Il silenzio di Dio, composto da due adattamenti entrambi firmati da Andrea Nanni: il primo tratto da Casa d’Altri di Silvio D’Arzo, il secondo dal Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Silvio Castiglioni, solo in scena, interpreta nella prima parte uno ieratico prete, la cui lunga tonaca lo innalza a due metri da terra. La nera figura racconta alternandosi ai tre microfoni che lo attorniano - una sorta di radiodramma teatrale - l’incrinarsi del suo ignavo ruolo di parroco di campagna di fronte alla domanda sommessa di una vecchia. Un’unica richiesta, quella della donna: porre termine alla sua vita fatta di solitudine e di fatica, invocando però il perdono della chiesa, e non la condanna. Il prete alla fine scenderà dal suo piedistallo, ma non saprà rispondere con la pietà all'implorante domanda di chi vorrebbe solo porre fine al proprio dolore. Nella seconda parte Castiglioni diventa l’Inquisitore, seduto su una poltrona che non basta a contenere il suo corpo di indemoniato. E’ la messa in scena del potere di chi, con il dominio delle anime, vuole riscattare il timore dell’abisso della libertà. Di fronte a lui Cristo, assente presenza, risponde con il silenzio. Sommessa domanda e tremenda invettiva, entrambe germinano nel vuoto di senso che si apre nella distanza tra una domanda infinita e una risposta inintelligibile, che ci costringe a scegliere: ad abbandonarci e a piegare il capo oppure ad attraversare la rassicurante fantasia di qualcuno che riempia per noi quel vuoto, e farsi carico del proprio desiderio, del proprio destino. Alla fine cosa rimane? Rimane il luogo. Il luogo dove l’incontro con l’Eccesso apre lo spazio alla domanda impossibile. Se questo luogo sia spazio della presenza sottile di Colui che tornerà un giorno a ricomporre l’infranto, oppure solo la smorfia di una realtà indifferente o la beffa di un effetto ottico, la risposta è nello sguardo di chi assiste. Rimane il fatto che questo luogo è un palco, e ci è sembrato che non potesse essere altrimenti.
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