Per molti anni la scena contemporanea è andata alla ricerca di capannoni industriali dismessi. In parallelo a numerosi artisti visivi e a fotografi, l’archeologia industriale ha funzionato da motore per suggerire forme di rigenerazione urbana, ma anche più semplicemente per creare atmosfere particolari, dal sapore “post-post-post”. Le fabbriche abbandonate ci parlano del Novecento, di una storia operaia che sembra lontanissima e della fine del lavoro, così com’è stato inteso per più di un secolo. Quante volte festival e compagnie teatrali hanno abitato, attraversato, riscoperto spazi industriali? Tutto questo ha significato viaggiare spesso nelle periferie urbane delle cento province italiane. Oggi forse la sensibilità è un po’ mutata.
Non che il fascino dell’archeologia industriale sia diminuito, ma si è affievolito il gusto della scoperta, e in molti casi ha prevalso uno sguardo di superficie, puramente estetico. Oggi la scena contemporanea va a cercare soprattutto case abbandonate in borghi sperduti della campagna. Oppure appartamenti vuoti in piccoli paesi. È come se si cercasse una dimensione più domestica, privata, familiare. La casa è una sorta di osservatorio privilegiato – così come la famiglia lo è per tanti romanzi di questi ultimi anni – sia per raccontare storie o narrazioni specifiche ancorate a un territorio, sia per suggerire un’atmosfera. Con una sensibilità tutta contemporanea il gusto per la memoria e l’archiviazione oggi può assumere una forma viva nel processo di costituzione e nelle forme di restituzione. Ma ultimamente la “casa abbandonata” è di per sé generatrice di suggestioni e di densità narrativa. La casa abbandonata da poco tempo, quando è ancora arredata, porta con sé l’intensità dell’assenza. Si trasforma immediatamente in uno spazio potenzialmente teatrale, perché capace di evocare fantasmi e presenze. Lo hanno dimostrato Alessandra Crocco e Alessandro Miele del Progetto Demoni in Come va a pezzi il tempo, presente a Kilowatt Festival, durante il quale quattro spettatori per volta attraversano una casa abbandonata, seguendo le scene di una coppia, costruite quasi fossero l’emersione frammentata di un flusso di ricordi. Sono fantasmi, sono attori, sono immagini del passato, che raccontano la storia infelice di una coppia di ieri e di sempre.
A Campsirago, proprio nel cuore del festival Il Giardino delle Esperidi, rimane da ristrutturare ancora una vecchia casa, che si porta sulle pareti scrostate i segni del tempo. Siamo in un borgo della Brianza, sede di uno storico festival che proprio dell’immersione nel paesaggio ha fatto la sua caratteristica principale. E il paesaggio, come connubio tra componente naturale e dimensione umana, comprende la casa abbandonata, anche perché è il segno tangibile di una Storia grande, che ha investito il nostro paese per almeno mezzo secolo e che racconta della fuga dei contadini dalle campagne. Un processo profondo e drammatico, al centro dell’ultimo film, assolutamente da non perdere, Lazzaro felice di Alice Rohrwacher: fiaba antica e contemporanea sulla più grande mutazione del nostro paese.
Qualche anno fa uscì uno straordinario albo illustrato di Roberto Innocenti, uno dei più importanti disegnatori italiani, dal titolo Casa del tempo. Ogni immagine del libro ritrae la stessa casa, osservata nella medesima inquadratura. Per ogni pagina che si gira, passano però dieci anni e così dalla cascina piena di contadini a lavoro del 1900, si passa al rifugio dei partigiani negli anni della guerra e poi all’abbandono, alla fuga e quindi alle occupazioni delle comunità hippy, e poi ancora a un nuovo abbandono e infine delle seconde case, con ristrutturazioni pesanti e la mutazione del paesaggio che viviamo adesso. Insomma in un libro si osserva un secolo di Storia e la casa diventa essa stessa interprete dei cambiamenti, ma anche produttrice di un sentimento del tempo, tipico delle architetture in rovina.
Il festival Il Giardino delle Esperidi ha nella sua biografia tanti di questi elementi, compresa la presenza di un’importante comunità hippy e l’idea di un teatro integrato e mescolato alla vita. Quando dunque si entra nell’appartamento per seguire il filo di Arianna e vedere da vicino Trieb_L’indagine di Chiara Ameglio si ha la sensazione di essere trasportati da una macchina del tempo, anche se non si sa bene dove. Di solito nelle vecchie case gli strati sono molteplici e le strutture secolari hanno i solchi e i graffi dello scorrere del tempo. Così nella vecchia casa-labirinto, abitata dalla performer, i muri scrostati portano ancora dipinti fiori colorati e frasi seducenti, che invitano a conoscere se stessi e a migliorarsi. Una certa atmosfera hippy si mescola all’odore del legno di campagna, mentre il corpo nudo della danzatrice, un po’ come in una foto di Francesca Woodman, catalizza l’attenzione del pubblico, assumendo su di sé tante energie evocate dal mito del Minotauro. Così nella breve composizione coreografica e soprattutto nella sua presenza intima e conturbante si rintracciano, confusi assieme, l’ombra di seduzione e bestialità del Minotauro, la violenza e la resistenza delle vergini, forse anche la furbizia e il destino di dolore di Arianna. Lo studio dell’Ameglio punta a creare un cortocircuito tra i piani del mito e del corpo nudo, tra l’astrazione narrativa e l’intimità. E ora aspettiamone gli sviluppi.