Entriamo in fila indiana, accolti da un attore che ci mostra un set. C'è una donna addormentata sul un letto, tre in cucina a rollare una canna, c'è un divanetto in un'anticamera. Ordinatamente siamo tutti ammessi sul retro e poco dopo sediamo in platea, davanti a tre schermi. La donna dorme anche nel video, alcuni si chiamano per nome e in cucina iniziano a ciarlare, qualcuno compare sul terzo schermo, nel divanetto. Preparano un caffè, dibattono di un film di Andy Warhol che non hanno visto,
The Kitchen. Poi ancora degli anni '60, di femminismo, Woodstock e Vietnam. Pensano a questo film, sembra che provino a rifarlo, si perdono in chiacchiere sull'amore, preparano un caffè in slang newyorkese: «I want my
cuoffe strong, sweet and Black, like my man».
I Gob Squad sono un collettivo anglo-tedesco che dal 1994 s'interroga su codici di largo consumo, si chiede "come salvare il mondo" intervistando per un giorno i passanti di una città (
Saving the world, 2008), sguinzaglia un "supereroe" chiedendo alla gente se lo necessita (
Super Night Shot 2003), o stende
red carpets intervistando perfetti sconosciuti come fossero figure del Jet set (
Who are you Wearing? 2004). In questa
Kitchen immaginano invece una festa dei '60, indossano magliette a righe, si passano bottiglie, danzano e urlano sui tavoli. Nella festa però qualcosa s'inceppa. Uno esce dal set e guarda come noi gli schermi. Dal pubblico chiama qualcuno a sostituirlo, gli sottopone una sfilza di domande e lo manda dietro agli schermi a rifare le scene già viste. E così sarà per tutti, per una spettatrice messa a dormire poi "vittima" di un bacio omosessuale a suon di melensi violini, per un altro che reclama il suo caffè, fino a che gli "spettatori" guidati da sistemi auricolari rimpiazzeranno tutti gli "attori". Il problema è che questo pubblico, queste pedine che ci rappresentano, alla fine sembrano più brave degli stessi attori. Il problema è che se "non avere nulla da dire" sembra la cifra di questo lavoro, e di questi anni, alla fine basta una precisa direzione registica, una qualunque struttura data al flusso indistinto d'immagini, per farci appassionare a questo "vuoto organizzato". In questa
Kitchen il "quarto d'ora di celebrità" warholiano si è da tempo realizzato: cosa saremmo disposti a fare per avere i nostri quindici minuti? Quasi tutto, prova ne è che già lo abbiamo fatto, nel mondo dagli anni '60 ad oggi e in questo spettacolo. Siamo perfino bravi, ci buttiamo sul palco e siamo capaci di avvincere, far sorridere e pensare. Per "partecipare" alla fine degli anni zero sembra rimasta un'unica strada, quella di un gioco collettivo "pop" sempre più diletto intellettuale, in cui riconosciamo "l'operazione" dell'artista, in cui aleggiano frammenti di domande e questioni ormai svuotate di senso, ma che mettono a posto la coscienza critica, preparandoci alla prossima gaia vernice. Oppure ci si può fermare per provare a capire che accade, preservando divertimento ironia e leggerezza, ma consapevoli di lambire il ciglio di un vuoto annidato sotto le lucide superfici. E chiosare con i Gob Squad: «Siamo l'inizio, siamo l'essenza dei nostri tempi, fra 100 anni le persone guarderanno queste cose e diranno ... ecco perché».