La prima periferia di pathosformel hello
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Un refrain melodico triste, battuto con poche note elettroniche di pianoforte. Rumori di fondo, chiacchiere soffuse, gente che discute come ai tavolini di un bar di una metropoli nordafricana. Ci sono tre scheletri gialli – grandi marionette di finto osso costruite con legno e metallo – e tre manipolatori nerovestiti che osservano il centro della scena. Li ospita una piattaforma rialzata, con un suolo rettangolare centrale e un allungamento che si solleva come un cube di Skate. Potremmo essere in uno dei molti Paranoid Park di una imprecisato luogo suburbano, perché lì sul cubo si attende. I tre scheletri sono condotti in pose rannicchiate, “chiuse”, a tratti ossessive. I tre uomini li adagiano nello spazio, piegano loro gli arti, ne orientano la testa. Qualcosa di ineffabile li lega, come fossero loro estroflessioni, come se un invisibile contatto interiore li muovesse entrambi. Dei piccoli frammenti forse cadono dagli scheletri, e l'ipotesi è d'obbligo perché ne La prima periferia di pathosformel molto aleggia dietro a ciò che si vede, molto si percepisce sotto a ciò che si sente. Le tre figure sembrano momentaneamente guardarsi, uno s'avvicina a un altro ma il passo cede insieme a un arto che si piega. D'un tratto, mentre sale un martellante ritmo elettrificato, in cui un tappeto glitch tesse l'ansia di un qualche accadimento, a terra si anima una minuta composizione di particelle, potrebbero essere i frammenti caduti, o sciami di automobili osservati dalla cima di una torre di trenta piani. I sei si chinano, forse attratti, allungano gli arti come ad afferrare gli insetti. Poi la quiete, il ritorno delle voci e del refrain iniziali.
Nell'aria s'effonde l'odore di una resistenza surriscaldata. Forse qualcosa è successo davvero, dopo l'attesa i tre uomini siedono i tre scheletri, qualcosa è successo ma si è dissolto nell'aria come una melodia triste, che non si afferra eppure t'abbraccia, scalda i pensieri, sprona i desideri.
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