Oltre agli studi accademici, alle monografie, ai resoconti di artisti e compagnie, il teatro può manifestarsi nei libri con una certa originalità. E non è così raro imbattersi in scritture ibride che mescolano i generi tra saggio, memoria, analisi critica, invenzione… Puntiamo il nostro cannocchiale sui libri più curiosi, che aprono nuovi orizzonti, e più utili nel disorientamento di oggi, con una nuova rubrica a cura di Rodolfo Sacchettini. Dopo la recensione di Un Galileo a Milano di Massimo Bucciantini (Einaudi 2017), oggi è la volta di Un teatro apocalittico. La ricerca teatrale di Giuliano Vasilicò negli anni Settanta di Fabrizio Crisafulli (artdigiland 2017).
Come rappresentare il Fantasma del Padre nell’Amleto di Shakespeare? È un fantasma? È uno spirito? È la visione di un pazzo? E chi è il padre? Tra le cento interpretazioni che si sono susseguite, soprattutto nel corso del Novecento, ne riaffiora una particolarmente curiosa dal fondo della memoria di quasi mezzo secolo fa o, verrebbe da dire, dalla polvere di una “cantina romana”. Amleto muove le articolazioni dello Spirito, come fosse un marionettista, tirando delle lunghe corde e urlando a squarciagola le parole del padre. Ogni personaggio, in questa particolare riduzione con soli quattro attori, più che essere portatore di una psicologia individuale, tende a contenere tutti gli altri, quasi fossero sfaccettature di un’unica identità composita, in uno sprofondamento freudiano. Padre e figlio sopravvivono nel medesimo personaggio, d’altronde si chiamano entrambi Amleto.
È la recente monografia di Fabrizio Crisafulli Un teatro apocalittico. La ricerca teatrale di Giuliano Vasilicò negli anni Settanta, pubblicata per la bella collana di saggi della casa editrice artdigiland, a rievocare un decennio d’oro del teatro italiano con un focus preciso e circoscritto sulle opere più significative del regista, scomparso il 15 febbraio del 2015, tra cui appunto questo fortunato Amleto (1971), di cui si narra anche nel racconto della sorella Lucia, Amleto finalmente, incluso nel volume. In un convegno del 1994 Franco Cordelli disse: «Penso che quell’Amleto sia il momento di maggior verticalizzazione della lettura shakesperiana di questo venticinquennio. Vasilicò ha condensato in immagini il senso del racconto, una collezione di immagini che ne trasmettevano il senso in forma di visioni».
Protagonista assieme a Mario Ricci, Giancarlo Nanni, Memè Perlini del cosiddetto “teatro-immagine” romano, Vasilicò, nella puntuale analisi di Crisafulli e nelle preziose Sintesi delle scene degli spettacoli principali, riportate nel libro, emerge anche come abile costruttore di drammaturgie non narrative. La forza della ricerca visiva ha nel tempo oscurato il lavoro sui testi che nel caso di Vasilicò rappresentano punti di partenza e serbatoi fondamentali per strutture nelle quali concorrono soprattutto materiali poetici, così come elementi espressivi, quali il corpo, il gesto, la luce… secondo le ricerche che, proprio in quegli anni, andavano sotto l’accezione coniata da Giuseppe Bartolucci di «scrittura scenica».
Quando il teatro riesce a esprimere lo zeitgeist – cioè lo spirito del tempo, con i suoi desideri e i suoi conflitti – non sono necessarie grandi sale e produzioni importanti. Nel novembre del 1972 lungo il marciapiede di via Gioacchino Belli, quartiere Prati di Roma, decine e decine di persone fanno la fila per entrare in una “cantina” angusta, dieci metri sottoterra. Però il luogo ha già un’aura mitica, perché rappresenta la sala dell’avanguardia teatrale romana già dagli anni Sessanti. In quel momento in realtà, a parte un paio di lampade e tante ragnatele, la sala, dopo il trasloco di Carmelo Bene, è rimasta in disuso. Ma è proprio in quell’anno che le attività ripartono con forza e il nome Beat 72, torna a farsi leggendario. Il numero corrisponde al civico della strada, ma cabala vuole che la stagione del ’72 sia davvero straordinaria: debuttano Pirandello chi? di Memè Perlini, La conquista del Messico del Patagruppo, L’angelo custode di Giorgio Marini e, per primo, Le 120 giornate di Sodoma di Giuliano Vasilicò. Il successo è strepitoso, lo spettacolo replica decine e decine di volte. Viene portato all’estero, accolto al Festival di Nancy e con lunghe teniture ospitato a Londra, Amsterdam, Parigi, Buenos Aires. Le decine di spettatori che nel novembre del 1972 si accalcano all’ingresso premono per scendere nella cantina, in quello spazio chiuso, buio, nascosto, echeggiante, già nella sua conformazione, le segrete di Silling, il luogo sadiano isolato dal mondo. Tre anni prima del film postumo di Pasolini che ambientò l’opera del Marchese De Sade ai tempi della Repubblica di Salò.
Inga Alexandriva ne Le 120 giornate di Sodoma di Giuliano Vasilicò (foto Giorgio Piredda)
Nel volume di Crisafulli è presente un’utilissima Antologia critica che comprende le principali recensioni uscite sulla stampa. A vedere Le 120 giornate di Sodoma erano accorse un po’ tutte le firme più vivaci dell’epoca. Bartolucci sottolinea l’elemento politico dello spettacolo soprattutto nel «gesto ripetitivo dell’oppressione come momento portante dell’azione: senza passione, senza sentimenti, per puro meccanismo di vitalità ‘negativa’. La politicità di questo gesto è nella sua radicalità inafferrabile, né manipolabile». Evidenza inoltre l’importanza della luce per la costruzione di «quadri viventi», perciò la luce è utilizzata in modo drammaturgico, non in maniera accessoria. Roberto De Monticelli riconosce allo spettacolo di essere diventato un «piccolo classico dell’avanguardia italiana», grazie a una qualità specifica, la «variazione pantomimico-musicale, rigorosa, crudelissima nella sua astrazione, e nella sua ripetitività, sull’universo concentrazionario di Sade». La forza dei corpi mezzi nudi in scena, l’assenza di realismo, i quadri da martiri cristiani, le pose oscene, la musica concreta, ironica e funerea, i colori con i quali sono dipinti i volti dei personaggi… tutti elementi colpiscono profondamente gli spettatori e i critici, tra i quali Roland Barthes, Cesare Garboli, Dacia Maraini, Elio Pagliarani…
Dopo L’uomo di Babilonia (1974), scrittura originale di cui però Vasilicò rimane poco soddisfatto, nel 1976 ritorna al testo letterario, in particolare al libro par excellence del Novecento, Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Non è la messa in scena del libro, che ha oltre 3.000 pagine. Piuttosto Vasilicò mira a realizzare uno spettacolo che entri in risonanza con la vita e la sensibilità dello scrittore. Si procede per associazioni, organizzando il lavoro per sequenze dal forte impatto visivo, quasi fosse un film in bianco e nero, eseguito ritmicamente. La scena è molto raffinata, qualche critico chiama in causa anche Visconti, per la magnificenza che si raggiunge, nonostante lo spazio utilizzato sia molto piccolo. In particolare colpiscono alcune invenzioni registiche, come il movimento circolare degli attori che evoca lo scorrere del tempo, la luce piena che in alcune scene rende i personaggi senza ombre quasi galleggiassero. È l’ultimo successo di Vasilicò. L’energia dei corpi, le abili invenzioni scenotecniche, la capacità di far emergere le atmosfere dell’inconscio, del sogno, una certa predisposizione nel trattare i testi, inseriti sempre in una composizione più organica, sono tutti elementi che gli vengono riconosciuti dalla critica e dal pubblico, e che non troveranno la medesima compiutezza né nel successivo progetto L’uomo senza qualità di Musil, né nei futuri lavori. È finita una stagione. Anche il libro di Crisafulli si ferma con Proust, arricchendosi però in conclusione di testimonianze preziose di amici e collaboratori (Lucia Vasilicò, Agostino Raff, Goffredo Bonanni, Simone Carella e Enrico Frattaroli). Daniele Del Giudice scrisse che «la balbuzie di Vasilicò è apocalittica». Anche nel convegno dedicato agli anni Settanta a Pistoia, che organizzai assieme a Enzo Bargiacchi, per l’Associazione Teatrale Pistoiese, Vasilicò, pochi mesi prima della morte, si portò dietro un assistente che lo aiutava a concludere le parole, a sillabare in maniera corretta. Raccontò che ai suoi esordi con Giancarlo Nanni rimase profondamente sorpreso che la sua balbuzie in scena spariva: «Mi ero completamente dimenticato di avere un difetto di parola. Quando uno recita non si inceppa, perché è un’altra persona. È questo il fatto, ero un altro».