Indurrà ogni passante che vede la vetrina della mia agenzia a immaginarsi in una bella bara, in una tomba graziosa, lo farò rabbrividire...
Ma anche sorridere all’idea di essere vivo, e di risucire a pensarsi morto da vivo (...) deve desiderare di essere contemporaneamente vivo e morto, capisce?
E poi pagare per questo desiderio, sennò un desiderio che non ha valore perché non costa nulla, è come non averlo avuto.
Comuni Mortali
Tiziano Scarpa è un autore conosciuto dal pubblico e apprezzato dalla critica (è di questo mese la notizia della vittoria del premio Strega con la sua ultima opera, Stabat Mater). Meno conosciute invece sono le sue incursioni nell’ambito drammaturgico, ultima in ordine di apparizione il copione de L’inseguitore, commissionato dal Festival Teatro Italia di Napoli nel 2008 (edito da Feltrinelli) e messo in scena da Arturo Cirillo. In questo articolo cercheremo di offrire uno sguardo curioso e qualche pensiero alla raccolta Comuni Mortali, pubblicata da Effigie nel 2007 e che racchiude tre testi: Comuni Mortali, Gli straccioni e il professor Manganelli e l’Ingegner Gadda. Nel titolo è la chiave che li lega a una stessa traccia: i personaggi sono, appunto, comuni mortali, comuni perché sono personaggi da commedia, perché non sono eroi. E la morte fa da sfondo alle tre opere, la morte reale e mercificata in primo piano nel testo che apre e dà il titolo alla raccolta; la morte simbolica di chi vive ai margini della società ne Gli straccioni e infine la morte come luogo da cui appaiono le voci delle due figure dei grandi (e grossi) letterati nell’ultimo testo.
Nei primi due testi è l’amore al tempo della merce l’enigma attraversato dai personaggi. Personaggi non nominati ma indicati dal loro ruolo nella società e nel dramma, che non sono tipi né figure, piuttosto sagome, attori da telenovela, icone pop deformate. In Comuni Mortali, il primo testo, è il colloquio d’assunzione di un giovane precario con la direttrice di un’agenzia di pompe funebri a fare da innesco per un susseguirsi di situazioni paradossali. Il commercio della morte viene rivelato al di là delle ipocrisie come il tabù dell’occidente, l’ultima frontiera che attende di essere colonizzata dai consulenti dell’ufficio commerciale: l’inquietante e irresistibile direttrice evoca nel suo profetare un inventario di inusuali quanto provocatorie leve di marketing per conquistare nuove fette di mercato nell’unico settore che non conosce crisi (e come sempre, la realtà supera la fantasia: una delle provocatorie idee proposte è un calendario di modelle in pose ammiccanti su cofani funebri: ovviamente esiste già). Il dramma conoscerà poi impensabili svolte e nuovi personaggi che apriranno al connubio vecchio di secoli tra eros e thanatos la trama dell’opera.
Ne Gli straccioni è la società intera che viene osservata dal limite di chi società non è o non è più, gli straccioni del titolo, gli spazzini e le prostitute, il sottobosco di chi abita sul bordo dei marciapiedi. In un’atmosfera che non può non far pensare all’Opera da tre soldi di Bertoldt Brecht, all’inizio assistiamo al confronto tra lo straccione e il mendicante signorile che si autoproclama “addetto al decoro urbano” e che per l’elemosina accetta anche Mastercard è un momento di straniamento esilarante. Scarpa come Lou Reed ci accompagna in una camminata “on the wild side”, dove le favole sono ancora possibili solo sotto mentite spoglie e le regine devono mascherarsi da puttane e netturbine. Ma il gioco deve rimanere gioco, non è lecito emergere, non è permesso uccidere il Re delle fiabe per farle diventare realtà: subitaneo il deus ex machina delle Istituzioni agirà e farà scomparire “senza lasciar traccia” chi ha provato a prender le fiabe sul serio, chi ha cercato il paese di cuccagna stanco di farselo raccontare, chi ha tentato di anticipare la fine della storia per poter dire “...e vissero felici e contenti”, ma tutti, e non solo il principe.
L’ultimo testo è un omaggio ai due grandi scrittori, Gadda e Manganelli, in un incontro immaginato da un episodio narrato dalla figlia di Manganelli, raccontando di un Gadda su tutte le furie che irrompe una mattina nello studio di Manganelli, accusandolo di aver fatto con la sua Hilarotragedia la parodia de La cognizione del dolore, mentre nello stesso momento avviene l’incontro, per anni procrastinato, tra Manganelli padre e la figlia. Al di là dell’episodio biografico quella di Scarpa è una delicata e ironica citazione-parodia che rivela l’affetto per questi due grandi maestri della letteratura. Come il giovane Holden insegna, un libro è un buon libro solo se dopo che hai finito di leggerlo vorresti conoscere l’autore, e qui Scarpa ci regala questo incontro impossibile, donando di nuovo una voce, anzi le voci (che sono le vere protagoniste della pièce) all’Ingegnere e al Professore.
I testi teatrali di Scarpa sottendono a una conoscenza smaliziata dei meccanismi drammaturgici ma soprattutto racchiudono la quintessenza della tecnica letteraria e dello sguardo dello scrittore: il nucleo centrale della ricerca artistica di Scarpa si esplica condensato e senza veli nel dialogo, nella relazione che fa scena. I drammi dell’autore veneziano sono fatti di personaggi e di dialoghi, è un teatro di parola perché, pur non privo di impensabili colpi di scena, è nella parola come relazione tra le figure che avviene l’azione: azione sempre al limite del grottesco, ma è da quest’orlo che l’autore ci costringe a gettare uno sguardo straniante sul mondo. Del suo passato di scrittore cannibale ne ritroviamo i tratti, ma come in uno scarto: non freddo gioco post-moderno e citazionista, ma necessità di distruggere il patetico per ritrovare il sentimento. Tre testi da leggere, in cui Tiziano Scarpa ci guida lungo un labirinto comico dal gusto aristofanesco, seguendo uno sguardo che dietro la maschera del grottesco rivela la crudeltà dei meccanismi della società ai tempi del post-capitale.